sabato 5 maggio 2007

Appello in difesa della famiglia

Che paese sarà l’Italia fra trent’anni? Troppi ritengono che questa domanda riguardi soltanto i cattolici. Ma non è così. Essa riguarda tutti. Riguarda tutti il deteriorarsi evidente della società italiana, così come gli esempi sempre più frequenti della nostra clamorosa debolezza nel formare le nuove generazioni. E proprio a nessuno è dato ignorare i drammatici segni di collasso sociale provenienti dai paesi più “civili” del nostro, che in tanti casi ci vengono additati ad esempio di progresso e libertà. A rigore, queste situazioni riguardano proprio coloro che si dichiarano laici e liberali. Poiché se una società libera non riesce a formare nuovi individui in grado di gestire responsabilmente la libertà, il suo livello di autoritarismo sarà fatalmente destinato a crescere.
L’Italia di oggi è figlia dell’Italia degli ultimi quarant’anni: l’Italia del miracolo economico e della modernizzazione tumultuosa; del benessere e del consumismo; della secolarizzazione che, tra l'altro, ha portato con sé il divorzio e l’aborto. Non intendiamo oggi rinnegare quella trasformazione, che ha fatto crescere la libertà personale più di quanto non sia – forse – mai accaduto nella storia del nostro Paese. Dobbiamo però smettere di far finta di non aver pagato nessun prezzo, e, laicamente, aggiornare le nostre convinzioni alle esigenze della nostra epoca. Dobbiamo chiederci se la società italiana non sia già oggi diventata del tutto incapace di educare alla libertà i suoi nuovi cittadini. E, per questo, se un colpo ulteriore a quel poco di struttura sociale che ci è rimasto non significhi mettere in pericolo proprio quella libertà individuale che, nelle intenzioni, si vorrebbe ancor più accrescere.
La famiglia della tradizione occidentale ha rappresentato una prima cellula di organizzazione sociale la cui nascita ha preceduto, e di gran lunga, l’affermazione dello Stato moderno. La sua disciplina e la sua tutela si sono storicamente evolute. Ma sempre essa ha mirato a soddisfare due esigenze imprescindibili: assicurare una procreazione socialmente ordinata, indispensabile per la formazione delle nuove generazioni e per la stessa sopravvivenza dell’umanità; tutelare i soggetti meno protetti, come i figli e il coniuge più debole.
Oggi questa storia e quest’evoluzione sono messe in forse da due fenomeni diversi, ma convergenti nei loro effetti. Da un lato il diffondersi di modelli familiari provenienti da altre culture, nelle quali la dignità della persona non è altrettanto tutelata (l’esempio della condizione della donna nei rapporti poligamici risulta, in tal senso, emblematica); dall’altro la tendenza ideologica, sempre più diffusa, a relativizzare il senso delle conquiste di libertà e civiltà fin qui conseguite, e a completare l’opera di destrutturazione del quadro sociale che le ha rese possibili. Tendenza che proviene dal seno stesso della nostra cultura.
La dignità della persona è così messa in pericolo da nuovi e incalzanti fattori di crisi che hanno per teatro l’intero Occidente: la pressione problematica dei processi d’integrazione; il calo demografico e il conseguente invecchiamento delle nostre società; la preoccupante emersione di fenomeni di contro-modernizzazione. Per contrastare questi fenomeni occorrono la mobilitazione e il risveglio di tutto il nostro patrimonio culturale e del meglio della nostra tradizione. Di quel patrimonio e di quella tradizione, invece, indebolendo la famiglia e i suoi istituti scegliamo di oscurare le fondamenta. Tutto ciò ancor più che sbagliato ci appare delittuoso.
In questo contesto, la legittima ricerca di nuove e più ampie libertà personali, anche nel campo della sessualità, può e deve avvenire allargando la sfera dei diritti individuali. Non è stata però questa la via prescelta dal progetto di legge fin qui denominato “Dico”, concepito in larga misura all’interno di una logica statalistica: una soluzione pasticciata e ibrida, tale da generare un surrogato di famiglia che sul versante delle coppie omosessuali non trova giustificazione, e che su quello delle coppie eterosessuali fa concorrenza alla famiglia fondata sul matrimonio anche soltanto civile, indebolendo piuttosto che rafforzando il contesto sociale nel quale si formano i nuovi individui.
La sopravvivenza della famiglia, dunque, non può riguardare solo i cattolici. Essa spetta a tutti quanti siano consapevoli del contributo che essa ha dato all’allargamento della libertà individuale e alla dignità della persona umana, e di quanto queste conquiste, nel nuovo secolo, appaiano precarie e in pericolo. Noi, credenti e non credenti, riteniamo perciò necessario mobilitarci insieme a difesa della famiglia, di ciò che essa ha rappresentato e continua a rappresentare nonostante le crescenti difficoltà e le inevitabili contraddizioni. Siamo certi che vi siano strade attraverso le quali la libertà della persona possa affermarsi senza negare o contraddire quanto edificato dalle generazioni passate. Siamo altrettanto certi, però, che quelle strade non passino per i “Dico”.
Per queste ragioni ci costituiamo in “comitato per la difesa laica della famiglia” e, per questo, contro i Dico; impegnandoci ad assumere tutte le iniziative utili a evitare che una controversia civile si risolva in un insensato conflitto tra laici e cattolici.


see u,
Giangiacomo

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il messaggio laico del Family Day: Sandro Bondi, Il Giornale,4/5/2007

Ti proponiamo la sintesi dell’intervento di Sandro Bondi sul Family day, pubblicato da ’il Giornale’ il 4 maggio 2007...
"Le critiche al Family day sono, in un certo qual senso, utili per poter riaffermare le ragioni del gesto e ricomprendere ancora più radicalmente il senso intimo e profondo di questa manifestazione di popolo.

Intanto, ribadiamo che il Family day intende veicolare un messaggio civile, pubblico e, in ragione di ciò, laico, dunque universalmente aperto a tutti coloro che concepiscono ancora la famiglia secondo il dettato della nostra Carta costituzionale.

Non è un caso che molti intellettuali e politici dichiaratamente laici e agnostici, per così dire, si siano schierati a favore della famiglia ed
apprezzino un evento così caratterizzato, volto alla restituzione del senso originario dell’istituto naturale e sociale familiare. L’art. 29 della
Costituzione è la riprova del grande equilibrio antropologico e sociale della civiltà politica del nostro paese, è ridondante citarlo, basti
soltanto richiamarne la contiguità con la cultura umanistica e cristiana, fondamenti del comune sentire del nostro popolo. Ci troviamo, oggi, di fronte ad un’urgenza civile, sociale e diciamo pure antropologica e culturale, legata strettamente alla realtà originaria della famiglia. Si
tratta della duplice problematica, insieme politica e antropologica, della strutturazione di una società e di un modus vivendi civile, che possa dirsi all’altezza dei bisogni e dei desideri costitutivi dell’uomo, della persona.


Degli uomini e delle donne del nostro tempo. L’agenda politica deve spostare le priorità dagli assetti politico-istituzionali a quelli
antropologico-culturali e infine sociali. Questo è il nuovo punto di vista che occorre guadagnare in merito alla priorità-famiglia. Pena la deriva del costruttivismo antropologico, cioè di un disegno di costruzione e determinazione dei bisogni e dei desideri dell’uomo a misura di un’ideologia e di un progetto politici, oppure il prevalere del nuovo ordine dell’individualismo libertario fondato sulla grammatica dei diritti.
Qui siamo in territorio laico, certo non laicista, ma laico, non v’è dubbio.


L’asse teorico e culturale europeo verte su questa evidenza originaria: la centralità della famiglia. La dottrina sociale della Chiesa, debitrice
anch’essa, seppur in modalità del tutto particolare, di questa storia, definirà la famiglia “la cellula originaria della società”. La politica del
XXI° secolo, sia chiaro, si regge oppure cade proprio su questi terreni cruciali, apparentemente pre-politici, di fatto intrisi di decisiva
politicità. E questo è un dato universalmente condivisibile. D’altro canto, che il Family day sia così contrastato è il segnale di un contrasto e di una tensione immanente alla società politica, e solo in parte a quella civile, che la dice lunga su quanto di universale e dunque cogente vi sia in questa testimonianza pubblica. Anche chi la contrasta, non può non percepire il segno di contraddizione evangelico inscritto in questo modo aperto e deciso di rendere ragione della verità. Non basta. La famiglia, oggi, è in realtà un Welfare in miniatura, sia come modo di riproduzione di una civiltà, la nostra, sia come veicolo di una tradizione e di una cultura, così largamente costitutive del volto di un popolo. Il nostro popolo. Un’iniziativa così decisamente voluta e organizzata da vasti settori della stessa dovrebbe essere considerata una risorsa e un’occasione di riflessione comune.

Se è vero, come è vero, che il Family day contenga in sé numerosi segnali laici e di nuova laicità, segnali per così dire umanistici e universali, bene, allora Forza Italia non potrà che essere presente a quest’evento, non in quanto partito ma come testimonianza dei valori in cui crediamo. Invito perciò tutti i nostri militanti e simpatizzanti ad esserci, trovando così, tutti insieme, un nuovo modo di essere. Un modo di essere all’altezza dei desideri del nostro cuore. Cercate ancora, questo dovrebbe essere il motto del nostro ritrovarci insieme, per la famiglia, e non contro qualcuno o qualcosa. Cercate ancora, cerchiamo ancora. Nella direzione giusta".

4/5/2007

G. ha detto...

E' la relazione per un convegno che ha preparato un giurista di Milano che sintetizza i punti salienti di un lavoro di giudizio anche tecnico sulla questione dei DICO.

"Vorrei iniziare questa mia breve relazione con una citazione che è un doveroso omaggio a colui cui avete scelto di dedicare la vostra associazione.
Nel suo libro Veronique, Dialogo della storia e dell’anima carnale, ad un tratto Charles Peguy parla del padre di famiglia, e dice di lui che rappresenta “il solo avventuriero del mondo moderno ”.
Ebbene, avventuriero il padre di famiglia oggi può essere considerato alla stregua dei grandi esploratori del secolo XIX, chiamati a risalire percorsi accidentati e irti di pericoli sino a rinvenire le sorgenti più profonde della propria identità.
Ma, in senso un po’ più prosaico, e vicino alla nostra stretta attualità, la ventura che il nostro povero padre (e con lui la povera madre) di famiglia è chiamato a vivere è rappresentata dal dover difendersi da una accusa infamante, l’essere niente di meno che un discriminatore sociale, un conculcatore di diritti civili.
Veniamo a noi.
Il DDL d’iniziativa del Governo n. 1339, comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica il 20 febbraio 2007, volto a disciplinare i “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” (c.d. DICO), si inserisce nell’ambito di una serie di iniziative e proposte volte ad introdurre nel nostro ordinamento giuridico la disciplina organica di un fenomeno sociale innegabilmente crescente sotto il profilo numerico, rappresentato da coppie di persone che, pur convivendo in forma più o meno stabile, non contraggono alcun vincolo coniugale.
Sarebbe interessante prendere il là da una analisi sociologica sulle motivazioni reali di tale fenomeno, soprattutto per consentire di inquadrarne correttamente la genesi nel solco del “non volere” o “non potere” accedere al vincolo.
A noi però, dato il taglio “giuridico” della serata, e in particolare la sua prospettiva de jure condendo, tocca scegliere ben altro abbrivio, e innanzitutto accusare il dato di fatto che anche in Italia, quasi fanalino di coda nell’ambito della grandi democrazie Occidentali, nelle istituzioni sembra essere emerso un deciso interesse alla regolamentazione delle convivenze more uxorio.
Dinanzi alle commissioni giustizia delle due camere del Parlamento giacciono 21 DDL in materia!
Ma da dove nasce questo interesse, questo impulso a normare?
Rispettosamente, è bene innanzitutto soffermarsi sulle relazioni di accompagnamento ai vari DDL, e ascoltare le argomentazioni ivi addotte.
Chi propone un intervento legislativo in materia – tralasciando noi volutamente ogni riferimento alle coppie omosessuali, argomento che meriterebbe un approfondimento a sé – nella maggior parte dei casi afferma che l’intenzione perseguita è semplicemente quella di “offrire una possibilità di scelta” alle coppie che intendano convivere senza ricorrere al “matrimonio tradizionale”.
Nessuna intenzione “punitiva” insomma nei confronti del matrimonio e della famiglia fondata su di esso – tanto più che l’art. 29 della Costituzione costituirebbe un ostacolo insormontabile per un tentativo in tale senso – ma solo un intervento volto ad arricchire l’ordinamento di nuovi istituti, sottraendo le “famiglie non tradizionali” alla “drastica scelta fra due sole opzioni; il matrimonio tradizionale da una parte, l’assenza di qualsiasi riconoscimento giuridico (…) dall’altra” (DDL n. 18 Franco e altri; DDL n. 33 Grillini e altri; DDL n. 481 Silvestri e altri; DDL n. 1224 Manzione).
Perché mai qualcuno dovrebbe opporsi ad un intervento volto unicamente a beneficiare le “famiglie non tradizionali” (su questo termine, per ora acriticamente mutuato, torneremo più approfonditamente innanzi)?
Senonché vale la pena non arrestare il proprio acume critico e analitico.
Infatti nel nostro ordinamento oggi questa “possibilità di scelta” esiste già, anzi, esiste una pluralità di scelte, dal momento che il diritto di convivenza viene fatto rientrare pacificamente nell’ambito della libertà personale inviolabile (artt. 2 e 13 Cost.), e consente ad ogni coppia di regolare la propria vita comune nei termini e nelle forme più consone alle proprie esigenze e convinzioni personali.
Perché allora intervenire con un atto legislativo? Perché introdurre una nuova figura tipica?
E’ sufficiente proseguire la lettura delle relazioni di accompagnamento per trovare la risposta: per sanare una discriminazione.
Perché negare alle “famiglie non tradizionali” diritti e prerogative riconosciute alle “famiglie tradizionali”, ai coniugi?
Anche qui, ancora una volta, non si tratterebbe di negare in alcun modo i diritti della famiglia, ma solo di estendere benefici ad una platea più ampia di utenti, in risposta ad una esigenza sociale sempre più avvertita, ponendo fine ad una ingiustificata e ingiustificabile discriminazione.
Questo punto di vista è affermato più o meno espressamente in tutti i DDL depositati .
In questo snodo dell’argomentazione, tuttavia, si annida – a parere di chi scrive - un palese equivoco.
Partiamo per un attimo dalla premessa – per la verità, ahimè, tutta da dimostrare - che la “famiglia tradizionale” goda di particolari privilegi, ovvero che il legislatore italiano abbia dato attuazione alle norme programmatiche di cui agli artt. 29 e 31 Cost.
Orbene, la “famiglia tradizionale” (continuiamo per ora a chiamarla così) rappresenta nel nostro ordinamento un vero e proprio unicum, una irripetibile singolarità.
Forse c’è bisogno di richiamare e rimeditare le formule usate dalle Carte dei diritti umani via via approvate soprattutto – e non a caso – a partire dal secondo dopoguerra, a cominciare dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani approvata all’unanimità dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 16 dicembre 1948, che recita: “la famiglia è il nucleo fondamentale della società e dello Stato, e come tale deve essere riconosciuta e protetta”.
Anche la nostra carta fondamentale, approvata più o meno nello stesso periodo dall’assemblea costituente (il 22 dicembre 1947), al primo comma dell’art. 29 – in apertura del Titolo II dedicato ai rapporti etico-sociali – sancisce, nella formulazione proposta da Palmiro Togliatti, che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
Ciò che mi preme sottolineare è che, sintomaticamente, le norme fondamentali citate non riguardano i diritti dei componenti del nucleo familiare, i diritti dei coniugi e dei figli, bensì espressamente i “diritti della famiglia”, percepita come entità titolare di interessi specifici in qualche modo distinti da quelli dei partecipanti.
Ciò appare ancor più evidente nella disciplina dedicata alla famiglia nel Libro I, “Delle persone e della famiglia”, del codice civile.
Il secondo comma dell’art. 143 – uno dei tre articoli che vengono letti ai nubendi in occasione del rito matrimoniale, tanto civile che concordatario – stabilisce che “dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”.
L’art. 144 del medesimo codice – un altro degli articoli di cui sopra – prescrive ai coniugi di “concordare tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissare la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e di quelle preminenti della famiglia stessa”.
Come è evidente, il legislatore individua ed enuclea un interesse della famiglia distinto da quello dei coniugi.
E deve trattarsi di un interesse di grado assai elevato se il secondo comma dell’art. 29 della Costituzione già citato legittima addirittura, nell’interesse dell’unità familiare, interventi legislativi di limitazione dell’ “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, con una curiosa deroga al principio fondamentale di cui all’art. 3 della Costituzione.
L’equivoco cui accennavo sopra consiste proprio nell’obnubilamento di questa distinzione, il cui effetto immediato è la confusione tra i diritti dei coniugi e quelli della famiglia, oltre al disconoscimento di una particolarità di cui significativamente non vi è traccia alcuna nei DDL citati dedicati alla regolamentazione delle convivenze more uxorio, incentrati prevalentemente sul riconoscimento di uno status, ovvero di un fascio di situazioni giuridiche riconosciute ai partecipanti alla convivenza.
Nella “famiglia tradizionale” la coesistenza dei due distinti interessi comporta un fenomeno particolare, per cui il contenuto stesso dei “diritti dei coniugi” viene ad essere inestricabilmente e inscindibilmente vincolato a quello della famiglia.
Non a caso nell’unica norma dell’ordinamento dedicata ai “diritti e doveri reciproci dei coniugi”, il già citato art. 143 cod. civ., non è possibile distinguere tra i coniugi e la famiglia quali soggetti attivi interessati – in senso sostanziale – all’adempimento degli obblighi di fedeltà, assistenza e collaborazione.
In questa sede a noi non interessa precipuamente identificare la natura e l’origine di questo interesse cui i coniugi sono chiamati a subordinare le proprie esigenze.
Certo, se la rilevanza di questo interesse discende dall’essere connesso con il “nucleo fondamentale della società”, non può stupire che la sua promozione e tutela trascenda i limiti dei partecipanti a ciascun nucleo familiare, appartenendo di diritto ad ogni soggetto seriamente impegnato con la cura del bene comune (anche un single impenitente).
Come si diceva, invece, questa duplicazione di interessi non è rinvenibile in alcun modo nella disciplina delle convivenze more uxorio così come risulta delineata nei DDL attualmente giacenti nelle commissioni parlamentari.
I limiti della relazione non consentono una verifica puntuale e analitica di questa affermazione, che affido al riscontro di chiunque abbia la pazienza e buona volontà di dedicarvisi.
Mi preme evidenziare però il fatto che i vari istituti immaginati (unione civile, PACS, contratto d’unione solidale) vengono sempre descritti come accordi fra due persone con funzione genericamente regolativa e organizzativa dei propri rapporti patrimoniali e personali e il riferimento costituzionale adottato è sempre quello agli artt. 2 e 3 della Costituzione, inerenti come noto i diritti fondamentali della persona.
Pertanto, posto che sotto un certo profilo, un po’ provocatoriamente, si può dire che il diritto è sempre “discriminazione”, dal momento che una delle operazioni essenziali del giurista è quella di distinguere in funzione di una corretta attuazione della giustizia distributiva – suum cuique tribuere – si può considerare ingiusto rifiutare l’assimilazione sotto un unico genere, la “famiglia”, tanto delle famiglie fondate sul matrimonio, quelle “tradizionali”, e le altre forme di convivenza?
A me pare proprio di no, dal momento che è al contrario ingiusto e irragionevole assimilare alla famiglia ciò che famiglia non è, e sulla base di tale ingiusta assimilazione estendere prerogative specifiche della realtà familiare.
In questo senso mi pare debbano essere lette le pronunce della Corte Costituzionale che sino ad oggi, ogni qual volta è stata chiamata a pronunciarsi sulla comparazione tra famiglia e convivenza more uxorio, si è espressa nel senso di “riconoscere alla famiglia legittima una dignità superiore, in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio” (Corte Cost. n. 310 del 26.5.1989).
E’ proprio l’art. 3 della Costituzione ed il principio di eguaglianza ivi sancito che impone di trattare diversamente realtà tra loro distinte.
L’assimilazione della famiglia, fondata sul matrimonio, con altre forme generiche di convivenza, fondate su vincoli di mero affetto, proprio perché sancita sulla negazione di quella specificità che ne giustifica la “superiore dignità”, potrebbe rappresentare anche sotto il profilo dei principi generali un abbraccio mortale: è facile intuire che, una volta celata la ragione del riconoscimento di tale dignità, vengono poste le basi per il superamento – o quanto meno per la definitiva concreta disapplicazione – del riconoscimento stesso: quale differenza tra famiglia e ogni altra forma di legame latu sensu affettivo? Nell’un caso come nell’altro lo Stato non dovrebbe entrare, dal momento che la vita dei rapporti personali appartiene alla sfera giuridica dell’autonomia privata .
Tra i DDL depositati ve ne è uno, per la verità, la cui relazione accompagnatoria evidenzia un punto di vista assai vicino a quello sin qui esposto: si tratta del DDL n. 589, d’iniziativa del Sen. Biondi, “Disciplina del contratto d’unione solidale” . La proposta di legislazione, in questo caso, viene giustificata con l’esigenza di colmare un “vuoto legislativo”.
Dal momento che tale espressione ricorre anche nelle relazione di accompagnamento ad altri DDL, val la pena soffermarcisi sopra un attimo giusto per far notare che, significativamente, l’intero DDL Biondi dimostra poi in concreto quale sia la portata del vuoto legislativo: dei dieci articoli che lo compongono, ben otto sono destinati alla disciplina del contratto stesso, mentre solo due introducono nuove situazioni soggettive a favore dei conviventi (la successione nel rapporto di locazione in caso di decesso del coniuge intestatario del contratto anche in assenza di figli e il diritto di reversibilità in materia pensionistica). Anche ammessa l’esistenza di un vuoto legislativo, il suo superamento potrebbe essere conseguito attraverso semplici aggiustamenti delle normative di settore, con considerevole economia normativa.
Da ultimo, veniamo brevemente ai nostri “DICO”.
Come è noto, il DDL di iniziativa governativa è stato presentato come un compromesso tra due distinte posizioni culturali, quella cattolica e quella laica-radicale.
Quali sarebbero i cardini di questo compromesso?
L’elemento caratterizzante del DDL n. 1339 sarebbe il rifiuto della qualificazione del fatto costitutivo dell’istituto in termini di “accordo”, sostituito dalla situazione di fatto della convivenza . Ciò consentirebbe di salvaguardare la preoccupazione di marca cattolica di non introdurre nell’ordinamento un surrogato di matrimonio (il c.d. “matrimonio di serie B”). Sempre in quest’ottica di rifiuto dell’assimilazione della convivenza more uxorio alla famiglia fondata sul matrimonio va letta la destinazione della normativa ad ogni forma di stabile convivenza, a prescindere dalla natura specifica delle implicazioni affettive coinvolte : ciò consentirebbe di annacquare la legittimazione delle convivenze more uxorio in una più vasta e generica categoria di “persone stabilmente conviventi”.
Per il resto l’articolato ricalca nella sostanza gli altri DDL, distinguendosene solamente per l’attribuzione alle convivenze di un minus di tutele e facoltà rispetto a quelli già riconosciuti alla famiglia (una minor quota di successione legittima del convivente rispetto al coniuge) e per il rinvio ad interventi normativi futuri o regolamentari per ciò che riguarda l’assistenza per malattia e ricovero, l’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica e il trattamento previdenziale di reversibilità.
Che dire?
Innanzitutto l’escamotage di sostituire all’accordo il fatto della convivenza non introduce un elemento di discrimine sufficientemente univoco: non è nemmeno necessario richiamare il fatto che sin nel diritto romano l’usus, ossia la convivenza protratta per la durata di un anno, era uno degli atti costitutivi del rapporto matrimoniale, né richiamare le tematiche della teoria generale del negozio relative ai rapporti negoziali di fatto e della manifestazione della volontà per fatti concludenti; è sufficiente evidenziare che la coabitazione di due soggetti, salvi i casi di incapacità di agire espressamente esclusi dalla stessa disciplina dei DICO, implica necessariamente l’esistenza di un accordo in tale senso. E’ la classica foglia di fico la pretesa di attribuire rilevanza al fatto della convivenza e non all’accordo ad esso sotteso: l’effetto ottenuto è solo quello di escludere ogni requisito formale nella manifestazione dell’accordo. Ed infatti l’ulteriore espediente dell’invio della lettera raccomandata quale mero atto dichiarativo dell’inizio “anagrafico” della convivenza ha destato un coro pressoché unanime di irrisione da parte dei commentatori di ogni estrazione culturale.
In secondo luogo l’articolato del DDL, richiamando espressamente istituti propri della famiglia fondata sul matrimonio, (le esclusioni di cui all’art. 2 che richiamano gli impedimenti del matrimonio, la previsione espressa della convivenza tra un cittadino italiano e uno straniero, la previsione della possibilità di figli comuni nell’art. 8, l’analogia con la successione del coniuge nella disciplina dei diritti successori di cui all’art. 11 ecc.) evidenziano come di fatto la disciplina sia disegnata a misura della convivenza more uxorio, non prospettandosi alcuna concreta previsione applicativa al di fuori di tale ipotesi.
In terzo luogo occorre tener presente che, in presenza di una forte pressione sociale di natura emotiva volta alla legittimazione morale, prima ancora che giuridica, delle convivenza di fatto , l’approvazione di una normativa che importi il riconoscimento giuridico delle convivenze more uxorio innesterebbe inevitabilmente un meccanismo a catena tale per cui, nell’arco di un breve periodo, l’equiparazione con il matrimonio, in teoria esclusa, verrebbe ad imporsi nel diritto vivente.
E’ quindi il caso che il nostro “padre di famiglia”, e chi ancora crede in lui, non ceda a compromessi di sorta, e rivendichi a gran voce i diritti indisponibili della famiglia fondata sul matrimonio".

see u,
Giangiacomo