domenica 30 settembre 2007

Birmania: chiamiamolo comunismo

di Massimo Introvigne. Il Giornale, 29 settembre 2007

Diceva Napoleone che ci vuole coraggio per chiamare gatto un gatto e sconfitta una sconfitta. Oggi ci vuole ancora più coraggio per chiamare comunista un comunista. La parola, giustamente, fa paura. Il maggiore specialista accademico mondiale del comunismo, Robert Service, nel suo recente Compagni! lo ha definito il peggiore cancro che abbia attaccato nella storia l'organismo umanità, esibendo come prova un costo umano certamente superiore ai cento milioni di morti. Perfino in Cina e in Vietnam si dibatte se il termine «comunista» designi ancora adeguatamente l'attuale regime misto di autoritarismo e mercato. Sono rimasti tre i Paesi in cui partiti che si definiscono
orgogliosamente comunisti tengono in piedi i governi: Cuba, la Corea del Nord e l'Italia.
L'anomalia italiana, unica in Occidente, spiega un curioso atteggiamento dei media e in particolare della televisione e della radio di Stato a proposito di quanto sta accadendo in Birmania (ribattezzata dal regime Myanmar). Mentre in America o in Francia si parla tranquillamente delle origini comuniste del regime di Rangoon, il telespettatore italiano che ignori tutto della Birmania ha scoperto negli ultimi giorni che è governata da una
«dittatura», così da essere autorizzato a pensare che nel lontano Paese asiatico siano al potere i nipotini di Pinochet. Un giornale radio ha perfino parlato di «dittatura fascista», forse inducendo qualcuno a controllare nei libri di storia se dopo la marcia su Roma i quadrumviri non abbiano fatto un salto in Birmania per fondare il fascio di Rangoon.
Non è proprio così. Dal 1962 al 1988 il regime birmano è un tipico regime comunista, guidato da un gruppo di militari marxisti il cui capo, il generale Ne Win (morto nel 2002), promuove una disastrosa «via birmana al socialismo», imponendo un'economia rigorosamente collettivista che riduce il Paese alla fame mentre la repressione fa qualche
migliaio di morti. Nel 1988 i birmani - già allora guidati dalla Lega per la Democrazia (NLD) di Aung San Suu Ky, figlia del padre dell'indipendenza nazionale - non ne possono più e scendono in piazza. Ne Win è estromesso dal potere, sostituito da una giunta militare che elimina prudentemente dal suo partito il nome «socialista» - sostituito da un richiamo vagamente minaccioso a «legge e ordine» - e promette libere elezioni. Quando nel 1990 la LND vince le elezioni, i generali ne arrestano i dirigenti e tornano a un sistema che
assomiglia come un fratello gemello al vecchio regime comunista, salvo che non si parla più di comunismo e s'incoraggiano gli investimenti stranieri offrendo anche il lavoro semi-gratuito di detenuti comuni e politici. Ma non è questione di nomi. Tutti gli uomini forti dell'attuale governo vengono dal vecchio Partito del Programma Socialista (cioè, dal Partito comunista birmano) di cui l'attuale presidente, il generale Than Shwe, è stato il braccio armato nella repressione del 1988. Dal punto di vista della retorica, dei diritti umani, della (non) libertà di stampa e di associazione la Birmania rimane un regime di matrice comunista. Se si eccettua la presenza delle multinazionali straniere, l'attività
economica resta ampiamente nelle mani dello Stato. I morti fatti dalle truppe che sparano sulla folla in Birmania non sono vittime di una generica «dittatura», ma di un regime post-comunista che è «post» solo in quanto almeno si vergogna d'invocare il nome del comunismo, pur mantenendone la sostanza. In Italia non ci si vergogna neppure del nome.

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Giangiacomo

giovedì 27 settembre 2007

Le verità nascoste sugli italiani a Kabul

di Massimo Introvigne, Il Giornale, 27 settembre 2007

La vicenda dei due agenti del Sismi rapiti da banditi alleati dei talebani ha riportato sulle
prime pagine l’Afghanistan, un tema che il governo Prodi ha tutto l’interesse a far dimenticare perché si tratta precisamente della buccia di banana su cui già una volta è scivolato. Purtroppo per Prodi, i talebani e i loro amici non aspettano di conoscere le ultime posizioni di Dini o Mastella e continuano a fare quello che hanno sempre fatto:
coltivano droga, rubano, torturano e uccidono sia i civili afghani sia (quando possono) i soldati della coalizione internazionale, italiani compresi. La vicenda ha dato
l’occasione al solito Diliberto per chiedere il ritiro immediato dei nostri soldati dall’Afghanistan. Rifondazione è invece tornata sulla vecchia idea di D’Alema di una conferenza di pace, senza chiarire se - dal momento che hanno le milizie più attive e meglio armate - si debbano invitare anche i trafficanti di droga, che non sono solo buoni amici dei talebani ma anche della mafia italiana e di quella colombiana. A questo punto, perché limitarsi ai manutengoli e non invitare direttamente qualche pezzo da novanta di Cosa Nostra, i cui interessi nell’oppio afghano sono diretti e cospicui?
Al di là delle sciocchezze, non sono solo Diliberto e Giordano a chiedersi perché stiamo in
Afghanistan. Le risposte di Prodi e D’Alema sul punto sono piuttosto vaghe, e descrivono la nostra missione come una via di mezzo fra la Croce Rossa e la costruzione di scuole, per cui però a rigore non servirebbero i militari, ma basterebbero i boy-scout. La paura di dire qualcosa che faccia votare contro il governo tre o quattro senatori dell’ultra-sinistra induce Prodi a non rivendicare neppure quel poco di buono che si fa. In Afghanistan tutti sanno che per localizzare i nostri agenti rapiti sono stati impiegati gli aerei senza pilota Predator. Il segreto, se c’è, è di Pulcinella. Sarebbe stata una buona occasione per far
notare al Paese che, contrariamente a quanto sostiene l’opposizione, si sta finalmente equipaggiando la missione italiana come si conviene. Peccato, però, che Prodi non possa dirlo pubblicamente. Perché Rifondazione e Comunisti Italiani, al momento di non far cadere il governo sul rifinanziamento alla missione afghana, avevano detto chiaro e tondo che dei Predator non volevano neppure sentir parlare. Del resto a che servono aerei da
guerra se lo scopo della missione è far fare ai militari le crocerossine o i boy-scout?
Qualche giornale ha scritto che è ipocrita Prodi ma è ipocrita anche il centrodestra, il quale tornando al governo non manderebbe certo i nostri soldati in Afghanistan a combattere in prima linea come gli inglesi o gli americani, a un ritmo di due o tre morti alla settimana. No, in effetti: ma non è questo che la coalizione ci chiede. All’Italia si chiede quello che sa fare meglio, come ha dimostrato in modo eccellente e anche eroico a Nassirya: un’azione di alta polizia militare in zona di guerra, e di contrasto alla criminalità comune che è legata a filo triplo al terrorismo. Non è la guerra in prima linea, ma neanche la Croce Rossa. Le milizie al servizio dei trafficanti di droga di tutto il mondo che percorrono l’Afghanistan non possono essere affrontate offrendo viveri o medicinali. D’altro canto anche lottando contro Cosa Nostra in Italia ci si presenta armati e si rischia la pelle. Si spieghi dunque agli italiani per che cosa in Afghanistan i nostri soldati (e agenti del Sismi) combattono, rischiano e muoiono. Senza aspettare il permesso di Diliberto.

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Giangiacomo

mercoledì 26 settembre 2007

Hey, my name is...

melodia irresistibile!

HEY MY NAME IS GIANNI
I WUON TO NOURRY
I WUON TO NAU





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Giangiacomo

La massima di Gigidag

Oggi, 26 Settembre 2007, all'interno del suo programma "Il Cammino", su M2O (www.m2o.it), Gigi D'Agostino, nel pubblicizzare un'iniziativa degna di nota a cui parteciperà, ha comunicato il suo sdegno contro lo Stato italiano per mancanza di interventi seri e ragionevoli rispetto ai problemi giovanili.

"Questo sabato 29 settembre 2007, Gigi d'Agostino, che sono io, ha
organizzato una "gita da ballo". Una "gita da ballo" contro l'uso delle droghe e
contro l'abuto degli alcolici.
Sì, lo so, io dovrei fare il deejay e queste
cose dovrebbe organizzarle il nostro governo, lo Stato italiano. Solo che
purtroppo i politici sono impegnati a screditare un comico...
poveri!

Un grande condottiero non ha paura di un
saltimbanco


Circa 300 ragazzi itialiani partiranno da
sud centro e nord italia, viaggeranno su bus che attraverseranno l'Italia,
destinazione Vienna. Io darò dei fiori a tutti i ragazzi italiani che
parteciperanno a questa gita benefica e ognuno di noi donerà delle rose ai
giovani austriaci.
Sabato sera lì a vienna durante la serata, io farò il mio
concerto e danzeremo tutti uniti"

spettacolare come massima.
spettacolare la presa in giro di Prodi-Mortadella.
spettacolare la definizione relativa al comico ligure.

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Giangiacomo

mercoledì 19 settembre 2007

Il pacifismo di D’Alema studiato per salvare Prodi

di Massimo Introvigne (il Giornale, 19 settembre 2007)
Le dichiarazioni del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, secondo cui è prudente prepararsi a una guerra in Iran, hanno scandalizzato il suo omologo italiano D’Alema che lo ha poco diplomaticamente invitato a stare zitto.
Povero D’Alema: neanche di Kouchner, già «medico senza frontiere» e uomo vicino
alla sinistra ci si può più fidare. Ma in realtà è di D’Alema - e Prodi, che sull’Iran la pensa come lui - che l’Occidente ha smesso di fidarsi da tempo.
Prima di recitare una parte non sua nel disperato tentativo di tenere in piedi il governo Prodi, compiacendo la sinistra radicale per evitare brutti scherzi in Senato, D’Alema non è mai stato un pacifista senza se e senza ma. Ha organizzato l’intervento italiano in Kosovo ed è stato favorevole a quello in Afghanistan. Certamente è stato
contrario alla guerra in Irak, ma con ragioni che dovrebbero precisamente renderlo favorevole a un intervento in Iran. Anzitutto, D’Alema ha sostenuto che in Irak le armi di distruzione di massa non c’erano e Bush mentiva. Se ci fossero state, una guerra con timbri e bolli dell’Onu sarebbe stata legale e legittima. D’Alema - sull’onda del Partito Democratico americano - quando dice «armi di distruzione di massa» intende «armi nucleari». Le convenzioni internazionali distinguono tre tipi di armi di distruzione di massa: nucleari, chimiche e batteriologiche. È del nucleare di
Saddam che non si sono trovate le prove. Certamente il tiranno di Baghdad disponeva di armi chimiche con cui gasava i curdi, come testimoniano fosse comuni e efferatezze varie. Quanto alle armi batteriologiche il necessario per decimare con un’epidemia una città come Milano può essere contenuto in una valigetta, facilmente trasportabile. D’Alema, dunque, si emoziona solo di fronte al nucleare. Ed è del nucleare che si parla in Iran. Non servono prove, c’è la confessione: Ahmadinejad rivendica il diritto ad avere la bomba islamica e a usarla per distruggere Israele una settimana sì e l’altra pure. I Democratici americani - acriticamente ripresi da D’Alema - sostengono pure che non c’era bisogno di invadere l’Irak. Per impedire che destabilizzasse tutta la regione bastava bombardare chirurgicamente le sue
installazioni militari. La soluzione non sarebbe piaciuta al popolo iracheno, particolarmente alla maggioranza sciita e alla minoranza curda, contro cui Saddam si sarebbe sfogato come già dopo la sconfitta del 1991. Ma non è dell’Irak che ora si parla. Nessuno pensa a invadere l’Iran con truppe di terra. Si tratterebbe di bombardamenti mirati, come quelli che forse Israele ha già cominciato in quella Siria che ha sospetti traffici nucleari con la Corea del Nord. Escludere i bombardamenti per principio serve a imbaldanzire gli ayatollah di Teheran, i loro clienti terroristi di Hamas ed Hezbollah, e Putin che gioca anche la carta iraniana per dar fastidio agli
Usa. D’Alema ci guadagna molto meno. Neppure gli applausi di un Grillo, ma forse il soccorso rosso di Giordano e Diliberto per l’accanimento terapeutico con cui cerca di tenere in vita un governo che assomiglia sempre più a uno yogurt di cattiva qualità. Prima era scadente: adesso è scaduto.

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Giangiacomo

lunedì 17 settembre 2007

Italia, un Paese in crisi morale

Il Paese sta attraversando una grave crisi morale in cui sono diffusi comportamenti criminali che non trovano soluzione ed è «illusorio sperare in un improvviso quanto miracolistico rinsavimento», c'è invece bisogno di «una ricentratura profonda dei singoli soggetti e degli organismi sociali, sul senso e sulla ragione dello stare insieme come comunitá di destini e di intenti», in questo quadro è importante anche il ruolo della religione.
È questo l'allarme lanciato oggi pomeriggio da mons. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nella prolusione con la quale ha aperto i lavori del Consiglio episcopale permanente. Bagnasco ha sottolineato come vi siano «comportamenti criminali che non riescono a trovare una soluzione», fra questi ha indicato «il dramma recente e crescente degli incendi boschivi, provocati dall'uomo che in quest'ultima estate hanno messo in ginocchio intere zone del Paese». E proprio alla luce di fatti come questi, ha spiegato l'arcivescovo di Genova, «sembra che diventi sempre più friabile il vincolo sociale e si prosciughi quel tipo di solidarietà su cui una comunità strutturata deve fare affidamento se vuol essere un Paese non spaesato». Tuttavia, ha detto Bangasco, nonostante i fenomeni più deleteri enfatizzati dall'opinione pubblica, «la componente sana della società è ampiamente maggioritaria nel silenzio dignitoso e in spirito di sacrificio con ancoraggio nella fede cristiana».
CASA E LAVORO LE URGENZE - Di fronte al «problema particolarmente acuto» della casa, «la collettività ai vari livelli deve darsi uno slancio, e approntare quelle soluzioni di edilizia popolare che per vaste zone e in una serie di città appaiono veramente urgenti». È il forte appello di Bagnasco che «anche agli istituti bancari e di credito» fa presente questa emergenza perchè, «tenendo conto delle condizioni internazionali e secondo le loro possibilità e competenze, vogliano maggiormente contribuire con senso di equità ad una concreata soluzione del problema». Nella sua prolusione, l'arcivescovo di Genova ha voluto soffermarsi in particolare sul «dramma di coloro, pensionati o famiglie con un solo reddito, che sono raggiunti da provvedimenti di sfratto e non trovano altre opportunità». Ma, ha aggiunto, «pensiamo anche ai giovani fidanzati che vorrebbero sposarsi e nei loro progetti sono annichiliti per il problema dell'abitazione che non si trova oppure è inavvicinabile per le loro risorse. Ci sono inoltre situazioni di promiscuità, dove famiglie diverse sono costrette a vivere in uno stesso appartamento, magari fatiscente, e per ciò stesso non in grado di garantire un vicendevole rispetto».

I Vescovi italiani sono vicini al Papa messo sotto accusa da «cattedre discutibilissime». Lo ha voluto ribadire Mons Bagnasco a nome di tutti presuli, «pronta e incondizionata collaborazione sempre, e in modo particolare quando emergono nell'opinione pubblica voci critiche e discordanti». «Nel corso degli ultimi mesi - ha ricordato l'arcivescovo di Genova - sono venuti dalla Sede Apostolica interventi importanti sotto il profilo ecclesiologico e pastorale, e che bene esprimono la sollecitudine di Benedetto XVI. È un'azione che trova nei Vescovi italiani una ricezione speciale». Quanto alle critiche, Bagnasco ha sottolineato che «a ben guardare, sono episodi che in nessuna stagione hanno risparmiato i romani Pontefici». «È singolare peraltro - ha scandito - quella ricorrente pretesa, mossa da 'cattedre' discutibilissime, di misurare la fedeltà altrui, Papa compreso, facendola coincidere ovviamente con i propri stilemi e le proprie evoluzioni». «La premura del Papa per l'Italia - ha infine annunciato mons. Bagnasco - apparirà ancora una volta domenica prossima, nella visita che ha in programma alla diocesi suburbicaria di Velletri, e fra un mese nel viaggio apostolico che lo porterà a Napoli, dove andrà a rinforzare il desiderio di rinascita che quella gente esprime in una tribolata realtà sociale ed economica».

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Giangiacomo

L 'Europa, la Turchia e un olocausto

Il dramma del popolo armeno

di Carmelo Ferlito, "Rinascita", 15 settembre 2007

Nell'arco di pochi mesi l'editore Solfanelli ha lanciato sul mercato due opere fondamentali per meglio comprendere e giudicare alcuni fatti di politica internazionale; si tratta di Sulla Turchia e l'Europa e L'olocausto armeno, vergati entrambi dal giornalista storico Alberto Rosselli.
Sono entrambi libri snelli, 150 pagine il primo e 80 il secondo, ma chiari e illuminanti per chi volesse formarsi un'idea più precisa rispetto a temi che cominciano ad essere trattati dai mass-media con una certa insistenza. Anzitutto, il dibattito sull'ingresso della Turchia in Europa: Rosselli sa che noi conosciamo molto poco la storia turca; per cui ha condensato in poche pagine numerose informazioni utili dalla caduta dell'Impero Ottomano ai giorni nostri, aggiungendo una attenta cronologia ed una ricca bibliografia. Quindi passa ad affrontare le due visioni che si scontrano nel Vecchio Continente: chi immagina una gigantesca area europeo-mediterranea, in cui far confluire anche il Nord Africa ed Israele, e chi invece ritiene fondamentale ancorare l'Europa alle proprie radici culturali e religiose.
Nell'analisi Rosselli, che si confronta con scritti di autori importanti come Introvigne e Cardini, non manca di osservare come peraltro vi siano stati dei passi di avvicinamento compiuti da Ankara verso l'Europa occidentale. Ma essi non bastano; rimangono ancora delle questioni irrisolte, posto che la Turchia voglia veramente entrare a far parte dell'Unione Europea: il riconoscimento del massacro degli armeni, la persecuzione contro i curdi, la vicenda cipriota.
Al primo di questi punti è dedicato il secondo pamphlet del giornalista genovese. Anche qui non manca un'attenta ricostruzione storica: del resto, la «persecuzione scatenata nel 1915 dai turchi nei confronti del popolo armeno […] rappresenta forse il primo esempio dell'epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall'ideologia panturchista e panturanista del sedicente partito progressista dei "Giovani Turchi", ma che trasse le sue origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrapposizioni tra la maggioranza musulmana turca e curda e la minoranza cristiana armena» (p. 5).
A cavallo tra storia e attualità è delineata tutta la vicenda dell'Armenia contemporanea: ricostruzione utile non solo a far luce su quello che l'Onu ha dichiarato essere il primo genocidio del xx secolo, non solo a ricordarci la storia di un popolo poco conosciuto, non solo a sollevare dubbi sulla legittimità della richiesta di ingresso turco nell'Ue, ma anche, e soprattutto, a ricordare i massacri dimenticati, quelli non ricordati dai programmi televisivi a scadenza annuale, quelli cui alcune istituzioni, anche nostrane, non vorrebbero concedere la dignità di esistere.


Schede:
Alberto Rosselli, Sulla Turchia e l'Europa, Chieti, Solfanelli, 2006

Alberto Rosselli, L'olocausto armeno, Chieti, Solfanelli, 2007

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"I nostri soldi: fonte inesauribile?"

Dopo averlo conosciuto personalmente a Luglio, con alcuni amici abbiamo pensato di invitarlo a Torino per un incontro sull'economia italiaa (dalle tasse alla fusione Intesa-San Paolo, dalla vendita Alitalia ai "soliti nomi" seduti sulle poltrone che contano).

Lunedì 24 Settembre 2007 alle ore 21.30 presso la Sala Cabrini in Via Montebello 28 bis a Torino


"I nostri soldi: fonte inesauribile?"

dialogo con Oscar Giannino, autore del libro "Contro le Tasse" (Mondadori 2007) e direttore di Libero Mercato.

La partecipazione è ovviamente gratuita ed è previsto un dibattito al termine dell'incontro.
Invito pubblico e da diffondere

Scarica l'invito.

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Giangiacomo

domenica 16 settembre 2007

L’Europa che vuole il Papa è fondata sulla ragione

Nel suo viaggio in Austria Benedetto XVI è idealmente tornato a Ratisbona e al memorabile discorso che lì tenne un anno fa. Un discorso che molti ricordano solo per la critica all’islam, che in realtà era assunto come elemento di contrasto per mostrare come l’Europa dovrebbe essere e come purtroppo non è.
La «questione essenziale» per Benedetto XVI non riguarda la fede ma la ragione. La grande domanda è - come ha detto il Papa a Vienna - se la ragione «stia al principio di tutte le cose e a loro fondamento o no». Questa domanda ha una risposta positiva, che nasce dall’eredità greca, dall’ebraismo e dal cristianesimo.
La cultura laica europea ha certamente dato nuovi significati - non tutti accettabili per la Chiesa - alla parola libertà. Ma questa idea di libertà - ha ricordato Benedetto XVI in Austria con le parole del filosofo non credente Jürgen Habermas - nasce sulle fondamenta ebraiche e cristiane del primato della ragione: «È un’eredità immediata della giustizia giudaica e dell’etica cristiana dell’amore», un lascito - aggiunge Habermas - cui «fino ad oggi non esiste alternativa». Solo se si crede che la ragione sia un principio e fondamento universale si può credere nella verità.
Credere, cioè, che alcune norme e valori siano veri per tutti gli uomini in quanto tali. La stessa fede cattolica può avanzare la sua pretesa unica di verità, che il Papa ha ricordato sabato a Mariazell precisando che «non significa disprezzo per le altre religioni», solo se, prima di cominciare a parlare di Dio, si è d’accordo sul fatto che esiste la verità e che la ragione può conoscerla.
Ma, ha aggiunto, alla domanda cruciale sulla ragione purtroppo non tutti rispondono di sì. C’è un’ampia parte della cultura europea che oggi pensa che «la ragione sia un casuale prodotto secondario dell’irrazionale e nell’oceano dell’irrazionalità, in fin dei conti, sia anche senza un senso». A Vienna e a Mariazell, il Papa ha mostrato come per l’Europa l’abbandono del primato della ragione porta a una «rassegnazione che considera l’uomo incapace della verità». Se non esiste «la» verità, non esistono «le» verità, né valori universali.
Nasce da qui la grande lezione del Papa sulla domenica, che o è occasione per mettere nel nostro tempo un «ordine interiore» intorno alla verità, o è semplice «tempo libero» che diventa «tempo vuoto». E «se per l’uomo non esiste una verità egli non può neppure distinguere tra il bene e il male». Si penserà così che il Papa sia contro l’aborto, l’eutanasia, le manipolazioni di una scienza che, senza limiti morali, diventa una «terribile minaccia» capace di «distruggere l’uomo» per un suo «interesse specificamente ecclesiale», senza comprendere che la Chiesa difende la vita in nome della ragione prima ancora che della fede. E si perderà anche la speranza, costruendo un’Europa ricca di beni materiali ma «povera di bambini». Contro questo «invecchiamento spirituale» il Papa chiede a tutti, anche ai non cristiani e ai non credenti, di tornare a riconoscere il primato della ragione.


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sabato 15 settembre 2007

Ramadan, l'islam che piace a sinistra

di Massimo Introvigne (il Giornale, 12 settembre 2007)
Molti giornali italiani negli ultimi giorni hanno dato ampio spazio a Tariq Ramadan, intellettuale islamico neo-fondamentalista residente a Ginevra, nipote per parte di madre di Hasan al-Banna, il fondatore egiziano dei Fratelli Musulmani, cioè della casa madre del fondamentalismo islamico internazionale.
Si deve dialogare con Tariq Ramadan? O ha ragione chi pensa che si tratti solo del volto sorridente ma ingannevole della stessa cultura che ha prodotto l’11 settembre?
Ramadan per il momento ha ottenuto dal dibattito quello che vuole da parecchi anni: conquistare comunque le prime pagine dei giornali europei. Avrà pure capito poco dell’Occidente, Ramadan - come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi - ma una cosa l’ha capita, e molto bene. La pubblicità è l’anima anche del commercio ideologico, l’importante non è il contenuto della notizia ma che la notizia arrivi sui giornali. Non si tratta di un risultato modesto. Ci sono esponenti del mondo neo-conservatore e di quello neo-fondamentalista islamico molto più importanti di Ramadan. Pensiamo al turco Fethullah Gülen, il cui movimento conservatore ha milioni di seguaci nel mondo, molti di più di quanti Ramadan ne possa anche soltanto sognare. Pensiamo alla marocchina Nadia Yassine, leader del movimento neo-fondamentalista marocchino «Giustizia e Benevolenza» che oggi afferma - con molti torti e qualche ragione - di avere vinto le elezioni dell’ultimo week-end in Marocco, dal momento che predicava l’astensione e gli astenuti sono stati il sessanta per cento, privando così tra l’altro gli odiati rivali del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, che rappresenta un islam politico meno radicale, della vittoria prevista dai sondaggi. Eppure questi personaggi restano sconosciuti al grande pubblico europeo, mentre si continua a parlare di Ramadan. Dov’è il trucco? Certo, Ramadan è un buon agente pubblicitario di se stesso, ma non è neppure un grande oratore. Quando non era ancora candidato alla presidenza, Sarkozy lo fece a pezzi in Francia in un dibattito televisivo. Il motivo principale del suo successo mediatico è un altro. All’interno dei Fratelli Musulmani è in atto da anni uno scontro generazionale. Ai leader storici egiziani, molti dei quali hanno più di ottant’anni, si contrappongono i quarantenni e i cinquantenni come Tariq Ramadan, che innalzano la bandiera dell’incontro fra le vecchie idee di Hasan al-Banna e la scienza politica occidentale. Ma questa seconda generazione neo-fondamentalista, è a sua volta divisa. Vi è chi guarda al neo-conservatorismo americano (e dialoga sottobanco con la diplomazia di Condi Rice), chi all’esperienza delle democrazie cristiane degli anni 1950, e chi al marxismo e ai no global: una destra, un centro e una sinistra. Tariq Ramadan ha scelto con molta chiarezza l’estrema sinistra.
Sbaglia chi pensa che - se le sue idee dovessero prevalere - nell’islam egiziano e in quello dell’emigrazione nascerebbero dei nuovi Bin Laden. Emergerebbero piuttosto tanti piccoli Hugo Chavez musulmani: neo-marxisti no global riveduti e peggiorati dall’incontro con l’islam fondamentalista. Ramadan è pericoloso non tanto perché voglia conservare elementi della tradizione musulmana, ma perché il cocktail di fondamentalismo e ultra-sinistra può diventare esplosivo, in più di un senso. Nell’attesa, dove in Europa votano, Ramadan incita gli immigrati musulmani a votare a sinistra. Per questo le sinistre europee hanno interesse a tenerlo in prima pagina.
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15 Settembre 2006, la morte di Oriana Fallaci

Un anno fa...

“La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’entro. C’entro, ahimè c’entro”.





Occidente: Oriana Fallaci (1929-2006)







"Sveglia, Occidente, sveglia! Ci hanno dichiarato la guerra, siamo in guerra! E alla guerra bisogna combattere" (Oriana Fallaci).


"Wake up Occident, wake up! They declared war on us and war is what they got. We have to hang tough!" (Oriana Fallaci).



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Giangiacomo

martedì 11 settembre 2007

9/11: per non dimenticare


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domenica 9 settembre 2007

Quel che non sanno di Rudy Giuliani

Segnalato da un Amico, Piccolo Baccelliere, ve lo propongo perchè è la Santa Verità!

Blame America first, per prima cosa prenditela con l'America, look up to America when you are lost, ricorri all'America quando sei alla frutta. Solo così riesco a spiegarmi la spudoratezza con la quale il governo Prodi, nella persona del ministro Giuliano Amato, con una piroetta da acrobata sia passato dal lassismo del «meglio il velo delle veline», dalle pacche sulle spalle ai fondamentalisti dell'Ucoii, dai colti dibattiti sui piromani terroristi, insomma da una politica di indifferenza e lassismo verso i crimini enormi, alla tolleranza zero, sul modello di Rudy Giuliani.

O forse è proprio per questo, perché di quel modello prima i sindaci dell'alleanza di governo, poi lo stesso governo, hanno pretestuosamente deciso di prendere solo le scelte pur sacrosante sulla microcriminalità, facendole passare per sufficienti, pensando così di ottenere un duplice risultato: allontanare l'attenzione dalla grande criminalità organizzata e dalla resa del Paese all'Islam estremista, riguadagnare consensi popolari che sono confermati ogni giorno in perdita anche nei numeri dei loro sondaggisti. Questa disinvolta operazioncina avviene naturalmente nell'ulteriore finzione sulla natura composita e fortemente radicalizzata dell'alleanza di governo. Tacerò sul paragone che Walter Veltroni ha sognato di fare tra il Partito Democratico chissà come nascituro e la vittoria di Bill Clinton nel 1992, non per pudore, perché spero presto di dedicargli un articolo tutto suo.Qui vorrei solo ricordare chi è stato Rudy Giuliani per New York, chi potrebbe ancora essere nel 2008, tanto per cominciare un avversario all'altezza di Hillary Clinton, se il partito repubblicano non lo farà stupidamente fuori, ascoltando i bigotti e i teocon che infestano pure casa nostra.

1) Spesa pubblica: Rudy Giuliani da sindaco ha risanato le casse di New York, eliminando programmi inutili. Ha ridotto del 20 per cento la burocrazia cittadina, ma non ha toccato il numero di insegnanti e poliziotti.

2) Tasse: Giuliani ha tagliato 23 volte le tasse cittadine. I contribuenti hanno risparmiato oltre 9 miliardi di dollari. Anche oggi Rudy Giuliani è l'unico campione della reaganomics, «perché l'ha attuata e ha visto che funziona».

3) Guerra al terrorismo: la pensa proprio come Bush, si deve insistere e andare avanti perché «la libertà vincerà questa guerra di idee, l'America vincerà la guerra contro il terrorismo».

4) Irak: proprio per questo, Giuliani pensa che «fissare un calendario artificioso per il ritiro dall'Irak sarebbe un errore gravissimo, perché incoraggerebbe i nostri nemici. L'Irak è solo un fronte del più ampio conflitto contro il terrorismo. Un fallimento in Irak condurrebbe a una guerra regionale ancora più estesa e più sanguinosa».

5) Sicurezza: siamo al punto che tanto piace ad Amato, come se potesse essere estrapolato, sradicato da tutto il resto. Quando nel novembre del 1993 Giuliani è stato eletto sindaco, a New York c'erano 2000 omicidi all'anno. Mandando molti poliziotti nelle strade, sottratti a lavori d'ufficio, scorte neanche a parlarne, e molti più delinquenti in carcere, Rudy ha dimezzato i crimini e ridotto di due terzi i morti. I vagabondi che nelle amministrazioni democratiche precedenti si piazzavano gratis nei dormitori e mangiavano a sbafo con i food-stamps, i buoni gratuiti della City, sono stati invitati ad andare a lavorare, a pulire parchi e strade, oppure a trovarsi un altro posto. Scomparsi. Sotto l'amministrazione Giuliani, New York è diventata la metropoli più sicura degli Stati Uniti, ma se la cava molto bene anche nelle classifiche mondiali. Da allora i molto liberal abitanti di New York hanno scelto un altro repubblicano, Michael Bloomberg, per due volte.

6) Educazione: come sindaco, Giuliani ha riformato il più grande sistema scolastico pubblico del Paese, più di un milione di studenti. Lo ha fatto sostenendo la libertà di scelta nell'educazione, pubblica e privata sullo stesso piano, perché è uno dei più importanti diritti civili contemporanei.

7) Aborto: Giuliani è favorevole, anzi è pro choice, a favore della scelta della donna, che ritiene un dilemma morale da rispettare. Perciò la destra religiosa non lo ha mai amato. Da sindaco non se ne preoccupava, oggi tiene a ricordare che durante i suoi due mandati «è orgoglioso di aver visto aumentare del 66 per cento il numero delle adozioni e diminuire gli aborti del 16 per cento».

8) Diritto al porto d'armi: Giuliani si dichiara un deciso sostenitore del diritto al porto d'armi dei cittadini americani.

10) Matrimonio gay: pur preservando la santità del matrimonio tra un uomo e una donna, Giuliani sostiene che debbano essere garantiti diritti e tutele a quelle coppie che convivono in modo stabile.

Potrei anche raccontare di quella volta che c'era l'Assemblea delle Nazioni Unite e Yasser Arafat era invitato d'onore, con il rango di presidente. Ma la sera a teatro l'ospite era il sindaco di New York, e Giuliani non lo fece entrare. «Per me lei è un capo terrorista, che ha ordinato l'uccisione di un cittadino americano». Si misero in mezzo diplomatici di mezzo mondo, Washington in testa. Niente da fare. Di tutte le volte che ha marciato con Israele e per Israele con la kippa in testa, lui cattolico, quando nel resto del mondo non era ancora di moda. Di quando ingaggiò un braccio di ferro che sapeva suicida con il Moma, il museo d'arte moderna, per una Madonna con sterco d'elefante che a lui sembrava solo oltraggio e oscenità, altro che arte. Infine, di una volta che a passo di marcia percorremmo la Fifth Avenue per una delle tante parate. Lui era stato appena eletto, conservo la fotografia, discutiamo animatamente sulla pena di morte. Lui argomenta bene, anche raccontando il suo mito americano, la vita del padre venuto da Avellino a scavare per costruire la ferrovia, a vivere fra la polvere nella strada, perché il figlio doveva diventare un grande avvocato. Io me la cavai bene a controbattere, oggi ho molte meno certezze di allora. Meglio che non ne coltivi anche Giuliano Amato. La teoria delle finestre rotte,a partire dal basso per colpire in alto, non si ferma a lavavetri e graffitari.

Maria Giovanna Maglie, giovedì 06 settembre 2007, Il Giornale

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Giangiacomo

Sempre più vicino il dominio islamico sull’Europa

Negata a Bruxelles la manifestazione contro l’invasione musulmana organizzata nell’anniversario dell’11 settembre. Quale libertà in Eurabia?

Proibita dimostrazione anti-islamica
Il Giornale, 31.8.2007
Il Consiglio di Stato belga ha confermato la decisione del Comune di Bruxelles di vietare una manifestazione contro «l’islamizzazione dell’Europa», in programma nella capitale belga il prossimo 11 settembre. «Stop the Islamisation of Europe» (Sioe), aveva annunciato a luglio l’intenzione di organizzare una protesta davanti alla sede del Parlamento europeo, proprio nel giorno del sesto anniversario dei tragici attentati perpetrati negli Stati Uniti.Il 9 agosto il sindaco di Bruxelles aveva vietato la manifestazione evocando il rischio di scontri con la vasta comunità islamica. Il Consiglio di Stato ha confermato ora la decisione, dopo che Ugo Ulfkotte, uno degli organizzatori dell’evento, aveva presentato ricorso contro il no del Comune. «Stop the Islamisation of Europe» riunisce, in particolare, il partito danese anti-islamico «Siad», il gruppo olandese «No Sharia Here» e quello tedesco «Pax Europa». L’iniziativa ha ricevuto in Belgio il sostegno di alcuni alti responsabili della formazione fiamminga di estrema destra Vlaams Belang.In un comunicato diffuso a Bruxelles il capo delegazione della Lega Nord a Strasburgo, l’europarlamentare Mario Borghezio, sostiene che con il divieto «vengono violati i diritti fondamentali dell’Unione europea» e ha annunciato una conferenza stampa sul caso con i colleghi di Vlaams Belang. Borghezio assicura che «i promotori dell’iniziativa hanno tutta l’intenzione di non farsi imbavagliare da questo assurdo provvedimento».

In piazza contro l’islam nonostante i divieti
Il Giornale, 2.9.2007
Bruxelles. Le associazioni contro l’islamizzazione dell’Europa si stanno preparando a marciare su Bruxelles l’11 settembre prossimo, in occasione dell’anniversario degli attacchi alle Torri gemelle di New York, sfidando la decisione del sindaco Freddy Thielemans di rifiutare il permesso per «ragioni di ordine pubblico». Il primo cittadino viene criticato per avere contemporaneamente deciso di concedere l’autorizzazione alla manifestazione dell’associazione «Uniti per la verità», che mette in discussione la versione ufficiale sulle responsabilità di Al Qaida per gli attacchi dell’11 settembre 2001. Un esposto è stato presentato all’Alta Corte che deciderà con procedura di urgenza. Il raduno dei movimenti anti-islam è previsto davanti alla sede del Parlamento europeo, nella cittadella comunitaria.
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Giangiacomo

One - U2

Grazie al mio amico Stefano di Roma che mi ha ricordato una delle mie canzoni preferite, conosciuta nell'estate del 1997 a Dublino.
Potrebbe diventare la colonna sonora di un mio futuro matrimonio.

Is it getting better?
Or do you feel the same?
Will it make it easier on you now?
You got someone to blame
You say

One love
One life
When it's one need
In the night
One love
We get to share it
Leaves you baby if you
Don't care for it

Did I disappoint you?
Or leave a bad taste in your mouth?
You act like you never had love
And you want me to go without
Well it's

Too late
Tonight
To drag the past out into the light
We're one, but we're not the same
We get to
Carry each other
Carry each other
One

Have you come here for forgiveness?
Have you come to raise the dead?
Have you come here to play Jesus?
To the lepers in your head

Did I ask too much?
More than a lot.
You gave me nothing,
Now it's all I got
We're one
But we're not the same
Well we
Hurt each other
Then we do it again
You say
Love is a temple
Love a higher law
Love is a temple
Love the higher law
You ask me to enter
But then you make me crawl
And I can't be holding on
To what you got
When all you got is hurt

One love
One blood
One life
You got to do what you should
One life
With each other
Sisters
Brothers
One life
But we're not the same
We get to
Carry each other
Carry each other

One
One


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Giangiacomo

Date a Cesare quello che è di Cesare... e a Dio?

il mio amico, Carmelo Ferlito, mi segnala un suo articolo accattivante che vi riporto!

Il recente intervento del Cardinal Bertone al Meeting per l'amicizia fra i popoli, l'importante kermesse culturale riminese organizzata da Comunione e Liberazione, ha riaperto il dibattito circa il dovere per un cattolico di pagare le tasse; la questione, lo ricordiamo era stata sollevata qualche mese fa quando il premier Prodi si era lamentato del fatto che vescovi e parroci durante l'omelia domenicale poco si prodigano per sollecitare i fedeli a versare l'obolo allo Stato. Dal palco di Cl il Segretario di Stato Vaticano ha invitato i cattolici a pagare le tasse, così il Presidente del Consiglio si è affrettato a dichiararsi in sintonia con la gerarchia ecclesiastica. Di sicuro scordandosi che poco più di un anno fa, durante la campagna referendaria per la fecondazione assistita, aveva voluto marcare le sue distanze da S. Pietro, definendosi cattolico adulto…
Peraltro, non ci accoderemo nella lista dei commentatori della vicenda. Piuttosto, vogliamo provare a svolgere una riflessione circa il noto passo evangelico in cui Gesù invita a rendere a Cesare quel che è di Cesare: «Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?". Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: "Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo". Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: "Di chi è questa immagine e l'iscrizione?". Gli risposero: "Di Cesare". Allora disse loro: "Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio"» (Mt, 22, 15-21). Questi versetti non sono mai risparmiati da coloro che sostengono il dovere morale di pagare le tasse. Ma, in realtà, cosa intendeva dire Gesù? Fu la sua una lezione di educazione civica? Intendeva invitare i suoi discepoli ad essere cittadini modello?
Nulla di tutto questo, a nostro modestissimo avviso. Ipocriti, perché mi tentate? osserva Gesù… Infatti, sa benissimo che rispondendo positivamente, affermando cioè che è lecito pagare il tributo, i farisei potevano accusarlo di non sostenere la causa di Israele nei confronti di Roma; sarebbe stato considerato al servizio del potere imperiale. D'altro canto, se avesse invitato allo sciopero fiscale l'avrebbero attaccato perché sobillatore e rivoluzionario. Così, come al solito, scelse una risposta dialetticamente e praticamente inoppugnabile. Ma, di nuovo, cosa intendeva dire? Ci pare di poter scorgere nelle parole di Gesù un atteggiamento sprezzante; come a dire, ci si consenta: «non avete proprio capito nulla del perché Io sia qui; davvero secondo voi può importarMi delle tasse? Sulla moneta c'è Cesare? Rendete a lui ciò che è suo, cosa Me ne può importare? Però, badate, rendete a Dio ciò che è di Dio». Quello di Gesù è un atteggiamento di compassione nei confronti dell'uomo. I farisei sono intenti a coglierlo in fallo attraverso tattiche meschine, neanche provando a scendere sul piano della scommessa che Lui poneva. È un'altra la cosa importante che il Cristo chiede di verificare: «Sono il Figlio di Dio, venuto a dirti che la tua vita ha un senso ed è eterna. Ti interessa?». Il resto sono cose di Cesare, cioè del mondo, al massimo strumento, come tante altre cose, per la Salvezza.
Deve quindi un cristiano interrogarsi sulla necessità di pagare le tasse? Un cristiano, se desidera essere tale, deve prima di tutto preoccuparsi di essere in rapporto mistico con Gesù e di cogliere quale stile di vita, quale attitudine lo può condurre alla Salvezza, alla vita eterna. Si tratta di una predisposizione dell'anima, un percorso di conoscenza reale del Mistero. All'interno di una simile esperienza sta anche il pagare le tasse: ma perché ci si trova in questa realtà concreta, fatta di queste cose che vanno fatte perché si vive qui ed ora e non da un'altra parte. Però, reso a Cesare quel che è di Cesare, forse è più interessante per un cristiano iniziare a capire la portata del rendere a Dio ciò che è di Dio…
E che cosa, dunque, è di Dio? Questa, nella visione cristiana, è la grande battaglia dell'Io, della scelta dell'uomo su se stesso. In ballo non ci sono le tasse, i soldi, le cose, ma se stessi. Di chi sono io? Di Cesare o di Dio? Del mondo o di qualcun Altro? A chi appartengo? Per cosa do la vita? Per Cesare, per i soldi, per le donne, per il lavoro, per la carriera o per Dio? In definitiva, dietro la chiusura Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio è sottintesa una domanda: il mio Io a chi lo do? A Cesare o a Dio?
Le tasse si pagano perché, come dice Paolo, siamo nel mondo. A Gesù, però, non interessa a chi pago le tasse. Ma a chi concedo me stesso. Cioè, se siamo Suoi o del mondo.

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martedì 4 settembre 2007

L'egiziano e la fatwa negata

Lo scorso 20 Agosto ero presente all'incontro di Magdi Allam presso il Meeting dell'Amicizia tra i popoli, a Rimini.
Siccome lo scrittore di "Salviamo i cristiani" aveva presentato il caso di un giovane egiziano, oggi vi ripropongo l'articolo dello scorso Venerdì su Il Corriere della Sera sullo stesso caso. Sconcertante la situazione egiziana!

"Il caso del giovane egiziano Mohamed Hegazi condannato a morte perché convertito al cristianesimo che vi ho raccontato sul Corriere lo scorso 20 agosto sarebbe dunque un falso. E lui sarebbe solo un «mitomane prezzolato». Un «mitomane prezzolato» che avrebbe venduto la sua anima a una «organizzazione criminale» dedita a sobillare la guerra religiosa in un Paese, l'Egitto, dove musulmani e cristiani andrebbero d'amore e d'accordo. Lei, Suad Saleh, preside della Facoltà di studi islamici e arabi dell'Università islamica di Al Azhar, non avrebbe mai emesso alcuna fatwa, un responso giuridico islamico, legittimante la morte dell'apostata. Sono rimasto incredulo nel leggere, riportato integralmente da due siti italiani di spiccata simpatia islamica, l'articolo pubblicato il 22 agosto dal Riformista con il titolo «Caso Higazi. Ma la fatwa dov'è?», a firma di Paola Caridi, che inizia così: «Al Cairo cadono dalle nuvole. Studiosi d'islamismo e persone della maggioranza silenziosa che segue l'islam politico moderato. Nessuno sa nulla della fatwa di Al Azhar contro Mohammed Hegazy, il 25enne egiziano convertitosi al cristianesimo nove anni fa, che ha richiesto la modifica della sua appartenenza religiosa sui documenti d'identità. Perché, finora, nessuna fatwa è stata emessa. E cadono dalle nuvole anche quando si spiega che sui giornali italiani, invece, il caso sta montando come panna. Sulla stampa egiziana, anche su quella indipendente — invece — poco si legge. E quello che si legge, a dire il vero, è decisamente moderato ». Bene. Cominciamo dai fatti. Hegazi, 25 anni, è un militante politico dell'opposizione, rappresentante a Port-Said del movimento Kifaya (Basta!). Ha rilasciato delle dichiarazioni pubbliche, raccolte anche dal corrispondente del quotidiano francese Le Figaro, Tangi Salaun, in cui denuncia che «ricevo delle minacce di morte sul mio cellulare».
Quanto alla Saleh, piaccia o meno, le viene riconosciuto il titolo di «mufti», giureconsulto abilitato a rilasciare dei responsi legali islamici, così come è formalizzato sul sito islam-online.net, legato ai Fratelli Musulmani, in data 21 febbraio 2007, che pubblica una sua fatwa in cui prescrive che «la donna può accedere alla carica di capo dello Stato ma a condizione che non sia in contrasto con il suo ruolo fondamentale in seno alla società, ovvero di essere madre e moglie ». Ed è proprio l'alto incarico che detiene in seno all'università-moschea, che viene considerata una sorta di «Vaticano dell'islam sunnita», che accredita i suoi responsi giuridici e li trasforma in sentenze per coloro che prestano obbedienza cieca e assoluta alla sharia, la legge islamica. Ebbene il responso giuridico con cui la Saleh legittima la condanna a morte di Hegazi, a condizione che la pena venga attuata dallo Stato e non dai singoli, è stato reso noto nel corso di un suo incontro pubblico con delle militanti islamiche pubblicato dal quotidiano indipendente Al Dostour lo scorso 14 agosto. La stessa fatwa di condanna a morte di Hegazi è stata da lei reiterata in una dichiarazione rilasciata al quotidiano Al Quds Al Arabi del 20 agosto. Suffragata da fatwe simili emesse da altri esponenti di primo piano di Al Azhar, tra cui Abdel Sabbur Shahine, Youssef Al Badri, Mohammad Hosam, Amina Nasir. Questi stessi personaggi avevano sostenuto la condanna a morte dell'apostata in dichiarazioni raccolte dal quotidiano indipendente Al Masri Al Youm l' 11 agosto. Così come il caso Hegazi è stato al centro di inquietanti inchieste dei settimanali Rose El Yossef del 25 agosto e Al Ahram Al Arabi del 18 agosto. Come si fa a sostenere che nessuna fatwa di condanna a morte di Hegazi sarebbe stata emessa quando ce ne sono diverse, tutte di autorevoli esponenti di Al Azhar, pubblicate dalla stampa egiziana? E come si fa a sostenere che il regime egiziano sarebbe moderato dal momento che è lui che designa gli alti gradi di Al Azhar e paga gli stipendi a tutti i suoi dipendenti? E come si fa a negare la persecuzione e l'esodo a cui sono sottoposti i cristiani in Egitto, documentato da fatti e da cifre incontestabili? Evidentemente nell'era del negazionismo dell'Olocausto, del genocidio armeno e dell'11 settembre, non ci si fa scrupoli a negare l'evidenza e a mistificare la realtà, anche quando la posta in gioco è la sacralità della vita di tutti noi".

Magdi Allam


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Giangiacomo

lunedì 3 settembre 2007

La Chiesa esigente che piace ai giovani

Il messaggio del Papa ai quattrocentomila giovani italiani di Loreto è che la Chiesa cattolica rimane una Chiesa esigente. Non viene a compromessi con i «modelli di vita» dominanti, non fa sconti, non ha paura di proclamare «ciò che può sembrare perdente o fuori moda» ma che invece è «il risultato della vittoria dell'amore sull'egoismo». Anche sui temi più delicati - la sobrietà, l'umiltà, la castità - il Papa ricorda che «la pienezza di umanità» è nel Vangelo, e ne mostra i frutti attraverso il fiorire di buone opere di cui giustamente va orgogliosa la Chiesa in Italia.
Il Papa non cita le piccole miserie della politica italiana, ma l'evento stesso di Loreto è la più bella risposta agli attacchi. Dopo il Ferragosto delle accuse di pedofilia - che in alcuni casi si sono già sgonfiate in pochi giorni - il rientro dalle vacanze ha portato tre nuovi attacchi alla Chiesa. Qualche suggeritore italiano ha convinto l'Unione Europea - già normalmente maldisposta verso la Chiesa - a chiedere al nostro governo se le esenzioni dall'Ici di cui godono gli immobili ecclesiastici non permettano alla Chiesa una concorrenza sleale nei confronti dei proprietari di altri immobili. Bruxelles si è convinta facilmente che le mense Caritas per i barboni fanno concorrenza al ristorante dell'angolo, e le case per il soggiorno estivo degli handicappati alla vicina Pensione Miramonti.
Due quotidiani nazionali hanno sbattuto un altro prete in prima pagina, uno stimato parroco di Torino che ha rifiutato l'assoluzione a una signora che dichiarava di convivere e di voler continuare a farlo. Anche qualche «cattolico adulto» si è scagliato contro il parroco, quasi che tra i nuovi diritti ci sia ormai anche il diritto all'assoluzione. Sabato - in coincidenza con l'apertura dell'Agorà dei giovani di Loreto - buona parte del centrosinistra si è felicitata con le comunità valdesi e metodiste che, chiudendo il loro sinodo, hanno annunciato l'avvio di un percorso che dovrebbe portarle a riconoscere e benedire le unioni omosessuali. Troppo facile la contrapposizione fra le «buone» comunità protestanti tanto moderne e comprensive e la «cattiva» Chiesa di Benedetto XVI.
Ma - con tutto il rispetto per le buone opere delle istituzioni caritative valdesi - è più vicina alle attese dei giovani la Chiesa di Benedetto XVI delle comunità protestanti che tollerano l'aborto, l'eutanasia e le unioni gay. Lo dicono le cifre note ai sociologi. All'interno stesso del mondo protestante - negli Stati Uniti come in Europa e in Italia - le comunità conservatrici che sui temi morali sono più vicine alla Chiesa cattolica che ai valdesi crescono in modo spettacolare, mentre chi si adatta alla cultura dominante perde membri e rischia perfino di sparire. La triste parabola del declino del protestantesimo nel Nord Europa e il successo dei protestanti conservatori negli Stati Uniti ne sono la conferma. Le udienze di Benedetto XVI sono più affollate di quelle, già da record, di Giovanni Paolo II. I giovani, certo, non seguono sempre l'insegnamento della Chiesa. Ma non saprebbero che farsene di una Chiesa che gli dicesse che tutto quello che fanno va bene. Sono più attratti da una Chiesa esigente, capace quando è necessario di dire loro di no e di ammonirli, come ha fatto il Papa a Loreto, a non seguire chi privilegia «l'apparire e l'avere a scapito dell'essere». Sarà forse per questo che i sondaggi confermano che in Italia la Chiesa è considerata dai giovani più autorevole della scuola, dei media e del governo.


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Proibita dimostrazione anti-islamica

Il Consiglio di Stato belga ha confermato la decisione del Comune di Bruxelles di vietare una manifestazione contro «l’islamizzazione dell’Europa», in programma nella capitale belga il prossimo 11 settembre. «Stop the Islamisation of Europe» (Sioe), aveva annunciato a luglio l’intenzione di organizzare una protesta davanti alla sede del Parlamento europeo, proprio nel giorno del sesto anniversario dei tragici attentati perpetrati negli Stati Uniti.Il 9 agosto il sindaco di Bruxelles aveva vietato la manifestazione evocando il rischio di scontri con la vasta comunità islamica. Il Consiglio di Stato ha confermato ora la decisione, dopo che Ugo Ulfkotte, uno degli organizzatori dell’evento, aveva presentato ricorso contro il no del Comune. «Stop the Islamisation of Europe» riunisce, in particolare, il partito danese anti-islamico «Siad», il gruppo olandese «No Sharia Here» e quello tedesco «Pax Europa». L’iniziativa ha ricevuto in Belgio il sostegno di alcuni alti responsabili della formazione fiamminga di estrema destra Vlaams Belang.In un comunicato diffuso a Bruxelles il capo delegazione della Lega Nord a Strasburgo, l’europarlamentare Mario Borghezio, sostiene che con il divieto «vengono violati i diritti fondamentali dell’Unione europea» e ha annunciato una conferenza stampa sul caso con i colleghi di Vlaams Belang. Borghezio assicura che «i promotori dell’iniziativa hanno tutta l’intenzione di non farsi imbavagliare da questo assurdo provvedimento».


In piazza contro l’islam nonostante i divieti, in Il Giornale, 2.9.2007.

Bruxelles. Le associazioni contro l’islamizzazione dell’Europa si stanno preparando a marciare su Bruxelles l’11 settembre prossimo, in occasione dell’anniversario degli attacchi alle Torri gemelle di New York, sfidando la decisione del sindaco Freddy Thielemans di rifiutare il permesso per «ragioni di ordine pubblico». Il primo cittadino viene criticato per avere contemporaneamente deciso di concedere l’autorizzazione alla manifestazione dell’associazione «Uniti per la verità», che mette in discussione la versione ufficiale sulle responsabilità di Al Qaida per gli attacchi dell’11 settembre 2001. Un esposto è stato presentato all’Alta Corte che deciderà con procedura di urgenza. Il raduno dei movimenti anti-islam è previsto davanti alla sede del Parlamento europeo, nella cittadella comunitaria.

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