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sabato 9 gennaio 2010

Piemonte: i cattolici non salgono in Mercedes

Piemonte: i cattolici non salgono in Mercedes
La Bresso: una vita per la Rivoluzione


di Massimo Introvigne

Nota: Una versione lievemente diversa di questo articolo appare su "Libero" del l'8 gennaio. Raccomando la lettura anche per chi non è piemontese: l'attuale presidentessa della Regione Piemonte, candidata alla riconferma, offre il raro esempio di una vita tutta consacrata al servizio di quel processo di negazione teorica e pratica delle verità naturali e cristiane che la scuola cattolica contro-rivoluzionaria chiama Rivoluzione. Da questo punto di vista, l'esempio è da manuale e il rilievo del personaggio è nazionale.

“Non sono interessata a partecipare a questa corsa per accreditarsi verso il mondo cattolico. Non sono credente e non ho cambiato idea. Se mai decidessi di convertirmi, ma lo escludo, non abbraccerei certo la religione cattolica. Diventerei valdese, Perché i Valdesi hanno il senso della differenza tra fede e morale religiosa e il ruolo dello Stato. Fede e morale religiosa sono un fatto privato”. Sono affermazioni di Mercedes Bresso, candidata alla riconferma alla presidenza della Regione Piemonte, in una famosa intervista a La Stampa del 30 settembre 2005. “Ero seria, non era una provocazione”, ha confermato la Bresso – con riferimento alla battuta sui Valdesi – confessandosi al Corriere della Sera del 24 febbraio 2009.

L’anticlericalismo della “zarina”, come la chiamano a Torino per il piglio autoritario, viene da lontano. Da un’antica militanza radicale e dalla collaborazione con Emma Bonino quando quest’ultima – racconta la Bresso – “era vicepresidente del CISA, l’associazione che assicurava alle donne diritto all’aborto”: “con Franca Rame facemmo una dichiarazione di aborto. Fummo incriminate per autocalunnia” (intervista a Gay TV, 5.6.2009). Scelte confermate da una vita privata francamente rivelata nelle interviste: “Mi sono sposata due volte. Entrambe con rito civile” (ibid.). “Non ho figli perché non ne ho voluti. Sensi di colpa? Pas du tout” (Corriere della Sera, 16.4.2008).

Nonostante gli sforzi dell’UDC, il prodotto Bresso risulta invendibile a una Chiesa piemontese che non sembra davvero intenzionata a salire sulla Mercedes. Su tutti i temi che il Papa indica come “non negoziabili” – e che invita a far prevalere nelle scelte politiche su ogni altro argomento – le posizioni della Bresso sono antitetiche a quelle cattoliche. Radici cristiane, identità? No: “Stato laico come garanzia di una società sempre più multiculturale e multireligiosa. Su questo non sono disposta a transigere” (La Stampa, 30.9.2005). Come logica conseguenza, abolizione del Concordato: “I Patti Lateranensi?... Sì, sarebbe il momento di abolirli” (Corriere della Sera, 24.2.2009).

Aborto? Dalla vecchia militanza con Emma Bonino e Franca Rame, la Bresso è passata alla battaglia per la RU486. “La scelta della pillola abortiva rientra fra le opzioni previste da una legge dello Stato, la 194. Una soluzione dal punto di vista medico che permette alle donne di soffrire di meno” (La Stampa, 30.9.2005), dichiara la zarina, benché giuristi e medici smentiscano tutte e due queste affermazioni. E la Bresso non bada a spese (dei contribuenti) pur di promuovere la pillola che uccide, senza ricovero ospedaliero: “Sono contraria all’obbligo di ospedalizzazione, una volta assunta la pillola abortiva Ru486, per le donne che decidono di interrompere la gravidanza. Sono convinta che, sotto il profilo etico, non ci siano differenze tra l’interruzione di gravidanza terapeutica e quella farmacologica. Da questo punto di vista, un eventuale aggravio di costi per la Regione è del tutto indifferente” (dichiarazione del 6.8.2009, sul suo sito).

Caso Eluana? A suo tempo la Bresso si è offerta per farle sospendere l’alimentazione e l’idratazione in Piemonte: “Ovviamente saranno utilizzate strutture pubbliche perché quelle private sono sotto scacco del ministro [Sacconi]” (La Stampa, 20.1.2009). “Tutti sappiamo che la vita di Eluana è artificiale. Si sostiene che alimentazione e idratazione non sono trattamenti medici e questo è un falso” (L’Unità, 23.1.2009). E alle critiche del cardinale arcivescovo di Torino Severino Poletto ha risposto: “A Poletto, che richiama i medici cattolici alla obiezione di coscienza, chiedo: quale è la differenza tra l'Italia di oggi e gli stati clericali, come quello degli Ayatollah?” (Repubblica, 22.1.2009).

“Il disporre della propria vita e della propria morte rappresenta un diritto di libertà assoluto per l’individuo” (appello della sorella della zarina, Paola Bresso, condiviso e diffuso sul proprio sito dalla presidente il 4.3.2009). Le posizioni del centro-destra e della Chiesa sono liquidate come “assurdità e “sciocchezze” perché Eluana fa parte di una “coorte crescente di persone che non sono più né vive né morte e che in qualche modo trascinano i vivi con sé verso la morte, verso la disperazione” (video diffuso sul sito, 22.4.2009).

Famiglia? “Era seria quando ha detto che il gay pride vale una processione religiosa?

«Possono essere entrambe manifestazioni di orgoglio identitario»” (Corriere della Sera, 24.2.2009). A La Stampa la Bresso dichiara che per le coppie omosessuali “per quanto riguarda la Regione ci muoveremo per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e per combattere ogni discriminazione” (30.9.2005). Che cosa questo significhi davvero lo rivela al canale omosessuale Gay TV: “Per il momento [corsivo mio] credo si debba introdurre un provvedimento simile al Pacs che garantisca diritti veri. In prospettiva, compatibilmente con il necessario cambiamento culturale, credo che si debba pensare ad un riconoscimento vero e proprio come il matrimonio” (5.6.2009).
No, la Chiesa non salirà sulla Mercedes. Del resto, la Mercedes non la vuole. La Chiesa – si legge nell’appello redatto dalla sorellina Paola, sottoscritto e diffuso dalla Bresso il 4 marzo 2009 – è un’istituzione che vuole “imporre agli altri il proprio punto di vista, chiamato anche «verità»”. La zarina lancia il suo appello contro la presunta “trasformazione del ruolo pubblico della religione in offensiva politica da parte delle gerarchie ecclesiastiche” (ibid.). Cattolici: comprereste una Mercedes usata da questa signora?

Postilla: Qualche amico politicamente perplesso cui ho anticipato il testo mi ha risposto: “D'accordo. Ma il centro-destra non candida forse in Piemonte un esponente della Lega? E la Lega non è in contrasto con la Chiesa sull'immigrazione?”. A questa domanda sul piano dei principi per fortuna non devo rispondere io. Ha già risposto la Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, in una lettera ai vescovi degli Stati Uniti in occasione della campagna elettorale del 2004 (http://www.cesnur.org/2004/04_ratzinger.htm). Qui si contrapponevano democratici – quasi tutti abortisti, molti favorevoli all'eutanasia e molti contrari alla guerra in Iraq e alla pena di morte – e repubblicani, il cui partito era a maggioranza contro l'aborto e l'eutanasia ed era anche tutto favorevole alla guerra in Iraq e alla pena di morte. Superficialmente si sarebbero potute considerare le due posizioni dal punto di vista dei cattolici sullo stesso piano: il Papa (allora Giovanni Paolo II) era naturalmente contrario all'aborto e all'eutanasia ma era contrario anche alla guerra in Iraq e alla pena di morte. Ma sarebbe stato un errore, spiegava la Congregazione per la Dottrina della Fede, senza fare nomi di partiti ma enunciando i principi. Infatti “ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia”. Quelli in materia di vita e di famiglia sono “principi non negoziabili” e obbligatori in modo assoluto per tutti i cattolici. Il resto – che comprende questioni gravissime come la guerra e la pena di morte e dunque senz’altro l'atteggiamento sull'immigrazione – è materia “negoziabile” su cui “ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici”.

Questo per quanto riguarda il principio. Quanto al fatto, occorrerebbe studiare meglio il complessivo magistero della Chiesa in tema d’immigrazione, che non coincide con le dichiarazioni del tale o talaltro monsignore. Si dirà che il centro-destra avanza talora tesi scandalose come quella secondo cui sarebbe meglio aiutare gli immigrati a casa loro anziché farli venire in così gran numero da noi. Tesi come questa, forse? “La soluzione fondamentale [al problema dell'immigrazione] è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine”, anziché nella terra d’immigrazione. Solo che queste parole non sono di un esponente del centro-destra italiano. Sono di Benedetto XVI, 15 aprile 2008, sull'aereo che lo portava negli Stati Uniti.

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Giangiacomo

domenica 6 dicembre 2009

Il partito dei minareti

di Massimo Introvigne (Libero, 3 dicembre 2009)

È ufficiale: in Europa c’è un partito dei minareti. Parte dai neo-fondamentalisti islamici alla Tariq Ramadan – lupi travestiti da agnelli, meno solerti quando si tratta di chiedere libertà di culto per i cristiani in Arabia Saudita o in Pakistan –, passa per gli eurocrati di Bruxelles e di Strasburgo – quelli del no al crocifisso e del sì invece al minareto – e arriva fino all’immancabile Gianfranco Fini. Ma frequentando, come mi capita in questi giorni, qualche dibattito e talk show assisto pure a una strana rinascita di affetto e stima per la Chiesa cattolica da parte della sinistra nostrana. Zitti – ci intimano –: “il Vaticano” ha parlato e tutti i buoni cattolici devono stringersi intorno alla difesa dei minareti. L’antico motto “Roma locuta, quaestio soluta”, “Quando Roma ha parlato la questione è risolta” è invocato da comunisti, dipietristi e persino musulmani. Fateci caso: quando la Congregazione per la Dottrina della Fede – che, lei sì, esprime la posizione ufficiale della Chiesa – afferma che sospendere l’alimentazione e l’idratazione dei malati in coma è omicidio per molti media italiani si tratta dell’“opinione del cardinal Levada”, subito contraddetta nella colonna accanto dello stesso giornale da un altro cardinale, magari in pensione, anziano e milanese. Se invece un vescovo o un collaboratore dell’“Osservatore Romano” attacca gli elettori svizzeri sui minareti ecco che “il Vaticano” ha parlato e i cattolici devono stare zitti.

Non ignoro l’opinione dei vescovi della Svizzera. Ma il loro presidente eletto si è dichiarato anche contrario al celibato dei sacerdoti, ed è difficile presentare pure questa come opinione “del Vaticano”. Se poi dai titoli passiamo alla sostanza, vediamo che si fa una gran confusione tra tre questioni diverse. La prima riguarda la libertà di culto. Questa deve essere garantita anche ai musulmani, i quali hanno diritto di radunarsi in sale di preghiera – beninteso per pregare, non per reclutare (è successo) terroristi da inviare in Afghanistan – pulite, igieniche e note alle forze dell’ordine come tali. L’Occidente, che ha una cultura giuridica diversa, garantisce la libertà religiosa anche a chi non la offre in patria ai cristiani: anche se fa bene quando gli fa notare l’esigenza di reciprocità, come il Papa stesso ha fatto parlando agli ambasciatori dei Paesi islamici a Castel Gandolfo il 25 settembre 2006.

La seconda questione riguarda i minareti. Non sta scritto da nessuna parte che per esercitare la libertà di culto ci sia bisogno del minareto. La sua funzione propria è quella di chiamare i fedeli alla preghiera – oggi in genere tramite un altoparlante – ma questo di norma non avviene in Europa dove non ci sono muezzin, neppure elettronici. Pertanto il minareto è nel migliore dei casi un ornamento estetico, nel peggiore un’affermazione identitaria, volta a segnare la conquista di un territorio: di qui la corsa a minareti più alti dei campanili cristiani. Nel secondo caso quella che si risolve in una provocazione può essere vietata dallo Stato in nome del bene comune; nel primo, se del caso, in nome della tutela dell’identità architettonica e paesaggistica delle nostre città.

Ma c’è una terza questione, che viene prima del minareto: la moschea. Purtroppo si continuano a confondere moschee e sale di culto. A differenza della sala di culto, la moschea è un’istituzione globale dove la comunità musulmana si trova per affrontare questioni non solo religiose ma giuridiche, sociali e politiche. “È dunque scorretto – ha scritto l’islamologo gesuita padre Samir Khalil Samir su “Avvenire”, un quotidiano talora presentato anch’esso (erroneamente) come “il Vaticano” – parlando della moschea, parlare unicamente di ‘luogo di culto’. Com’è scorretto, parlando della libertà di costruire moschee, farlo in nome della libertà religiosa, visto che non è semplicemente un luogo religioso, ma una realtà multivalente (religiosa, culturale, sociale, politica, eccetera)”. Non si può escludere che ci siano in Europa situazioni locali in cui – dopo avere considerato con grande prudenza chi è che la propone, la finanzia e la gestirà – le dimensioni, la rilevanza e il contesto in cui si muove una comunità musulmana rendano accettabile che si prenda in esame l’idea della moschea. Ma non sempre e non dovunque. Non abbiamo bisogno di lezioni sulla libertà religiosa né da Fini né da Rosy Bindi. Si può essere a favore della libertà religiosa ma contro le autorizzazioni indiscriminate a costruire moschee. E minareti.

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Giangiacomo

sabato 7 novembre 2009

L'Europa e il crocifisso

L’Europa e il crocefisso, la cristianofobia al potere
di Massimo Introvigne

Ci siamo. Da diverso tempo si accumulavano i segnali di un prossimo colpo delle istituzioni europee contro il cristianesimo e la Chiesa Cattolica. Qualche mese fa, il 4 marzo 2009, avevo avuto occasione di partecipare come esperto a Vienna a una conferenza dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) dove era stato lanciato l’allarme su una montante «cristianofobia», che in diversi Paesi non si limitava più alla propaganda ma si esprimeva in leggi e sentenze contro la libertà religiosa e di predicazione dei cristiani e contro i loro simboli. L’attacco anticristiano si era finora svolto in modo prevalentemente indiretto, attraverso la proclamazione di presunti «nuovi diritti»: anzitutto, quello degli omosessuali a non essere oggetto di giudizi critici o tali da mettere in dubbio che le unioni fra persone dello stesso sesso debbano godere degli stessi riconoscimenti di quelle fra un uomo e una donna. Tutelando gli omosessuali non solo – il che sarebbe ovvio e condivisibile – da violenze fisiche, ma da qualunque giudizio ritenuto discriminante ed etichettato come «omofobia», le istituzioni europee violavano fatalmente la libertà di predicazione di tutte quelle comunità religiose, Chiesa Cattolica in testa, le quali hanno come parte normale del loro insegnamento morale la tesi secondo cui la pratica omosessuale è un disordine oggettivo e uno Stato bene ordinato non può mettere sullo stesso piano le unioni omosessuali e il matrimonio eterosessuale.

La sentenza Lautsi c. Italie del 3 novembre 2009 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo segna il passaggio della cristianofobia dalla fase indiretta a una diretta. Non ci si limita più a colpire il cristianesimo attraverso l’invenzione di «nuovi diritti» che, proclamando il loro normale insegnamento morale, le Chiese e comunità cristiane non potranno non violare, ma si attacca la fede cristiana al suo cuore, la croce. I giudici di Strasburgo – dando ragione a una cittadina italiana di origine finlandese – hanno affermato che l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane viola i diritti dei due figli, di undici e tredici anni, della signora Lautsi, li «perturba emozionalmente» e nega la natura stessa della scuola pubblica che dovrebbe «inculcare agli allievi un pensiero critico». Ove tornasse in Finlandia, la signora Lautsi dovrebbe chiedere al suo Paese natale di cambiare la bandiera nazionale, dove come è noto figura una croce, con quale perturbazione emozionale dei suoi figlioli è facile immaginare. Basta questa considerazione paradossale per capire come, per qualunque persona di buon senso, la croce a scuola o sulla bandiera non è uno strumento di proselitismo religioso ma il simbolo di una storia plurisecolare che, piaccia o no, non avrebbe alcun senso senza il cristianesimo. In Italia la signora Lautsi intascherà cinquemila euro dai contribuenti – un piccolo omaggio della Corte di Strasburgo – e avrà diritto di far togliere i crocefissi dalle aule dove studiano i figli. Certo, ci sarà l’appello, e giustamente il nostro governo rifiuterà di applicare questa sentenza ridicola e folle. Ma le «toghe rosse» italiane si sentiranno incoraggiate dai colleghi europei. Che non sono tutti «stranieri» dal momento che uno dei firmatari della sentenza è il giudice italiano a Strasburgo, il dottor Vladimiro Zagrebelsky, campione – insieme al fratello minore Gustavo – del laicismo giuridico nostrano.

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Giangiacomo

domenica 20 settembre 2009

L’Honduras, i cattolici e il finto golpe

di Massimo Introvigne (Articolo pubblicato su Libero del 17 settembre 2009, p. 25, con il titolo “I cattolici italiani si sono divisi pure sulla presidenza dell’Honduras”)

Per capire dove si situano le linee di faglia che dividono i cattolici italiani ogni tanto, oltre che a Fini e a Casini, sarebbe bene dare uno sguardo alla politica estera. In particolare a un Paese piccolo, bellissimo (provare per credere: io ci sono stato) e dimenticato, l’Honduras. Qui nel giugno scorso è venuto al pettine il nodo di uno scontro che da mesi vedeva contrapposti da una parte il presidente, Manuel Zelaya, dall’altra la maggioranza del Parlamento, la magistratura, l’Esercito e la Chiesa Cattolica. La materia del contendere era una modifica costituzionale che avrebbe permesso a Zelaya di farsi rieleggere presidente, cosa che la Costituzione gli vietava. Zelaya voleva imporre la modifica per decreto e farla ratificare da un referendum. Ma in realtà in Honduras il presidente non può modificare la Costituzione: può farlo solo il Parlamento. La Corte Suprema ha dichiarato illegale il decreto di Zelaya, e l’Esercito lo ha deposto e mandato in esilio, nominando capo dello Stato provvisorio il presidente del Parlamento. Si tratta dell’imprenditore di origini bergamasche Roberto Micheletti – peraltro dello stesso partito di Zelaya –, il quale ha subito indetto nuove elezioni per novembre, assicurando che abbandonerà la carica non appena sarà stato eletto un nuovo presidente.

Una virulenta campagna di stampa internazionale ha presentato il civile Micheletti come l’ennesimo militare golpista latino-americano. Dietro questa campagna c’è il presidente venezuelano Hugo Chavez, che ha perso un pezzo – l’Honduras – della sua alleanza anti-americana e filo-castrista ALBA (Alleanza Bolivariana delle Americhe), di cui con Venezuela e Cuba rimangono parte Bolivia, Ecuador, Nicaragua e le isole caraibiche di Antigua e Dominica. Zelaya, in effetti, voleva seguire Chavez sulla strada che porta a diventare presidenti a vita. Il vero golpista era lui. L’arcivescovo della capitale dell’Honduras, Tegucigalpa, cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga e i vescovi del Paese hanno giustificato la deposizione di Zelaya. Ma la propaganda di Chavez e Castro urla così forte che nessuno dà loro retta. Anche gli Stati Uniti e l’Europa esitano a riconoscere il governo provvisorio di Micheletti. E pure un certo numero di cattolici e di ecclesiastici europei critica il presunto golpe.

In Italia, mentre un bel pezzo della sinistra cattolica ha aderito a un “Comitato pro Zelaya”, altri scendono in campo contro l’ex-presidente, dalla rivista “Tempi”, vicina a Comunione e Liberazione, al blog “Comunità Ambrosiana”, la voce milanese di Alleanza Cattolica, che riprendono le posizioni dei vescovi honduregni e condannano Zelaya. Caduti altri miti rossi, come si è visto nella sua passeggiata trionfale a Venezia, quello del Sudamerica di Chavez – e dei suoi alleati – è l’ultimo sogno che scalda i cuori comunisti: e anche quelli catto-comunisti. Passa per il giudizio sull’Honduras, e su Chavez, la linea di discrimine fra i cattolici che amano la libertà e i nostalgici di Che Guevara e di Castro.

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Giangiacomo

domenica 21 giugno 2009

Ma non c'era il silenzio elettorale?!?

Ieri sera, sabato 20 giugno 2009, ho partecipato alla processione della Madonna della Consolata, patrona della Diocesi di Torino.
Alcune ore di preghiera per migliaia di persone, di devoti, da ogni dove, stretti stretti in Chiesa con un caldo umido soffocante.
Al termine il Cardinale S. E. Severino Poletto prende la parola allo scopo di sottolineare alcune nostre povertà per cui pregare e chiedere aiuto alla Madonna.
La prima riguarda la povertà materiale di molti di noi, considerato la crisi economica che ha colpito aziende e famiglie in particolar modo della provincia torinese, legato all'indotto dell'automotive.
La seconda qual'era? Esattamente uguale alla prima, ma espressamente dedicata agli immigrati dove il Cardinale ci chiedeva un dialogo, un rispetto, un adeguamento, ecc ecc.
E' chiaro, ed è sembrato a molti con cui mi sono paragonato, un forte monito anti Lega Nord (e anti PdL) nel giorno precedente il ballottaggio tra Antonio Saitta e Claudia Porchietto per la poltrona di Presidente della Provincia di Torino.
Due considerazioni finali.
Mi viene da sperare che il Cardinale Poletto abbia confuso Antonio Saitta con Sant'Antonio e per questo lo abbia supportato in veste ufficiale ad una cerimonia religiosa. Anche perchè, presumo che Poletto lo sappia, il primo e i suoi compagni dietro sono figli del cattocomunismo e non sono certo fedeli ai principi del cristianesimo, ai valori non negoziabili della vita, della famiglia, della proprietà e della libertà economica che la Chiesa (quella non legata a logiche di potere torinese) sostiene a spada tratta...
La seconda: ora capisco il "provvidenziale" diluvio universale di ieri sera, che ha costretto le parole di Poletto a rimanere sotto il tetto del Santuario della Consolata e non arrivare per le strade del centro torinese.


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Giangiacomo

domenica 17 maggio 2009

Perchè la Chiesa ha condannato il comunismo

1989-2009. Perché la Chiesa ha condannato il comunismo
di Massimo Introvigne

http://www.cesnur.org/2009/mi_1989.htm

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Giangiacomo

domenica 15 febbraio 2009

La Chiesa dopo Eluana: una risposta a Giuliano Ferrara

La Chiesa dopo Eluana: una risposta a Giuliano Ferrara. "La domanda di Eliot"
di Massimo Introvigne (il Foglio, 12 febbraio 2009)

Caro Direttore, La ringrazio per avere posto con l'abituale lucidità sul Foglio dell'11 febbraio quella che è forse - dopo Eluana - l'unica domanda veramente importante: se con Eluana siano morti in Italia i valori di fede e di ragione che hanno dato all'Europa le sue radici e la sua anima, e se la Chiesa, non avendo potuto impedire questa morte, abbia imboccato la strada che porta all'irrilevanza. La domanda è ancora quella di Eliot: "è la Chiesa che ha abbandonato l'umanità o è l'umanità che ha abbandonato la Chiesa?".
Giacché però non sono un poeta ma un sociologo, sono abituato a considerare i processi sociali complessi come sempre aperti a diverse interpretazioni. Lei propone un impressionante inventario delle ragioni per cui il bicchiere della Chiesa - quando non si è più potuto dare da bere a Eluana - si è rivelato mezzo vuoto. Preti (come quelli del Friuli di cui parla lo stesso numero del Foglio), laici e anche qualche vescovo dissenzienti o colpevolmente silenziosi evidenziano un problema, le cui radici stanno nel pontificato di Giovanni Paolo II. Nessuno come il Pontefice polacco ha avuto la consapevolezza che l'Europa e l'Italia sono ormai terra di missione, bisognosa di "nuova evangelizzazione". Per questa missione Giovanni Paolo II ha privilegiato l'appello diretto ai fedeli, soprattutto ai giovani, rispetto agli atti di governo relativi all'amministrazione della Chiesa. Da un certo punto di vista la strategia ha avuto uno straordinario successo, sollevando un entusiasmo imprevedibile e diffuso, che non ho avuto bisogno di verificare con strumenti sociologici perché l'ho constatato giorno per giorno nei miei figli e nel loro amore affettuoso e contagioso per Papa Wojtyla. D'altro canto, anche gli intellettuali più vicini a Giovanni Paolo II - come George Weigel, il compianto Richard John Neuhaus o Ralph McInerny - hanno fatto notare i pericoli insiti nella scarsa attenzione rivolta al governo della Chiesa e alle nomine episcopali, alcune delle quali non sono state particolarmente felici. Non si tratta, naturalmente, di criticare Papa Wojtyla - anche perché, per molti versi, la sua strategia di contatto diretto con il popolo dei fedeli era, in una situazione di grave e diffusa scristianizzazione, l'unica possibile - ma di rilevare un problema. Nessuno ne è più consapevole di Benedetto XVI, che ha scelto di dedicare all'azione di governo della Chiesa la parte maggiore del suo tempo e delle sue energie. Ma il caso Eluana può forse suggerire, per quanto riguarda l'Italia, un'ulteriore accelerazione. Può darsi - senza pretendere, naturalmente, di voler dare suggerimenti al Papa - che non sia più sufficiente attendere che vescovi inadeguati vadano in pensione e che occorra sostituirli prima, e che su alcune situazioni particolarmente imbarazzanti la severità debba sostituire la paziente attesa di improbabili ravvedimenti.
E tuttavia, per altro verso, il bicchiere è mezzo pieno. Le statistiche ci dicono che la rilevanza della Chiesa nella società italiana - misurata dal consenso dei cittadini e anche dalla frequenza alla Messa -, per quanto certo non corrispondente a quanto il Papa o i vescovi potrebbero auspicare, è comunque assai maggiore rispetto alle vicine Francia, Germania o Spagna. Il referendum sulla legge 40 ha mostrato che la sconfitta non è l'unico esito possibile della sua azione di testimonianza ai valori non negoziabili. Il caso Eluana smentisce tutto questo? Non completamente. L'azione della Chiesa - e dei laici di buona volontà, naturalmente - ha persuaso la maggioranza degli italiani che l'alimentazione e l'idratazione non sono cure mediche, e che far morire una disabile di fame e di sete è profondamente ingiusto. Lo rivelano i sondaggi, che sono cambiati di segno rispetto agli inizi della vicenda di Eluana, e anche le reazioni di tanti politici, a cominciare da quello straordinario interprete della sensibilità comune degli italiani che è il presidente Berlusconi. Magra consolazione, si dirà, perché Eluana è morta. Certo: e tuttavia se nella maggioranza di governo la chiarezza prevarrà sulla tentazione del compromesso e del pasticcio (un rischio che come Lei ha spesso sottolineato non è mai assente, neppure all'interno del centro-destra) può darsi che questo maggioritario consenso trovi qualche eco in Parlamento e contribuisca ad allontanare l'abominio dell'eutanasia dalle nostre leggi.
Le settimane e i mesi che vengono ci diranno se il bicchiere è mezzo pieno o piuttosto, in effetti, mezzo vuoto. I bicchieri, però, non si riempiono né si svuotano da soli. Chi ha a cuore i valori della fede e della ragione che hanno fatto dell'Europa quello che è non può solo lamentarsi del fatto che i vescovi o i sacerdoti non agiscano: deve agire lui. Questo - non un presunto diritto al dissenso morale e teologico - è il vero significato dell'autonomia dei laici cattolici nell'instaurazione dell'ordine temporale di cui parla il Concilio Vaticano II. Il Papa fa, in modo ammirevole, la sua parte. A noi - senza pensare di delegare ad altri - fare la nostra. Io rappresento una piccola - ma non piccolissima - associazione come Alleanza Cattolica che da decenni giorno per giorno, settimana dopo settimana, diffonde i valori non negoziabili della vita, della famiglia, delle radici cristiane dell'Europa attraverso centinaia di riunioni, incontri, conferenze, seminari. Non ci dà certo fastidio, anzi ci fa molto piacere, che altri operino nella stessa direzione. Perché, rovesciando il proclama blasfemo di Osama bin Laden, siamo orgogliosi di amare la vita quanto gli avversari della fede e della ragione amano la morte.

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Giangiacomo

domenica 18 gennaio 2009

Gli extracomunitari paghino le tasse!

Non mi sembra che l'Italia sia Babbo Natale e debba fare caritativa...

Non male l'idea della Lega Nord di far pagare le tasse anche agli extracomunitari

Un oscuro ufficio della Cei (tale "Fondazione Migrantes") vuole parlare a nome di tutta la Chiesa?

Da cattolici rispondiamo: bene la proposta del ministro Maroni!

Perchè le tasse devono essere sempre considerate doverose quando a pagarle sono gli italiani, mentre poi a diventano "inaccettabili" quando vengono (una tantum) proposte anche agli stranieri che lavorano nel nostro Paese?
Ma ecco la "risposta teologica": esse sarebbero una penalizzazione del processo di integrazione.

Attualità: Islam e immigrazione
L'immigrazione massiccia verso i Paesi europei, specie verso l'Italia, fa parte di un disegno di costruire una grande comunità islamica anche in Occidente e fare progressivamente dell'Europa una terra islamica. Non bisognerà attendere molto: la sottomissione degli occidentali alla sacralità coranica è già avviata grazie ad un errata concezione di tolleranza.

Actuality: Islam and immigration
The massive immigration to European Countries, especially to Italy, is a part of a plan to build a great Islamic community in Occident too and make of Europe an Islamic land.We don't need to wait too long: the Occidental submission to the sacrality of Koran is already started thanks to a wrong conception of tolerance.

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Giangiacomo

sabato 27 settembre 2008

Caritas... ipocriti!!

L’Osservatore Romano, in un articolo firmato dal responsabile della Caritas, critica il “giro di vite” del governo italiano in materia di immigrazione e attacca le politiche europee che prevedono restrizioni.

Ancora una volta, monsignori in blue jeans che vogliono mettersi in mostra si atteggiano a maestri di solidarietà sulla pelle degli altri.
Queste affermazioni non hanno nulla a che fare con la carità cristiana e con la sincera solidarietà e sembrano piuttosto mosse solo da un pregiudizio politico e da un inguaribile protagonismo (vizi, questi, caratteristici degli “esperti” della Caritas).
Ma questi “professionisti del solidarismo” hanno mai conosciuto nelle nostre periferie il volto dell’immigrazione?

Propongo nei commenti una testimonianza molto cruda che dà il senso della distanza tra l’ideologia buonista e la realtà!

Le ultime della Caritas richiamano le riflessioni, più in generale, sulla Chiesa sinistrata

"Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E' venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di incertezze" (Paolo VI, 29 giugno 1972).

Church disfigurement "We thought that after the Council a day of sunshine would have dawned for the history of the Church. What dawned, instead, was a day of clouds and storms, of darkness, of searching and uncertainties." (Pope Paul VI, 29 June 1972).

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Giangiacomo

martedì 19 agosto 2008

Famiglia Cristiana nuovamente sconclusionata

Forse è tramontata la moda del cattocomunismo (tanto spesso abbracciata dal settimanale venduto nelle parrocchie), ma pare rafforzarsi il catto-idiotismo

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Giangiacomo

giovedì 17 gennaio 2008

Università La Scemenza di Roma

D'ora in poi sarà per sempre L'Università La Scemenza di Roma.

C'è da dire che in un paese serio, con una classe politica con un briciolo di dignità, il governo sarebbe già caduto (opposizione, dove sei?).
Almeno Mussi avrebbe dovuto già dare le dimissioni, insieme al Rettore della Scemenza, e a 67 personaggi che non possono neanche dedicarsi ai lavori socialmente utili, come il recupero e la rieducazione di soggetti svantaggiati, per esempio i teppisti. Ne abbiamo visti tanti, in questi giorni, alla Scemenza. Non possono educare, quei 67, sono "educatori" tutti da rieducare, e d'altra parte, come fanno a non venir fuori teppisti, alla Scemenza, con cotanti educatori?
Cosa ha a che fare con l'università tutta questa gente?
E che ti dice invece, Mussi, il peggior ministro (ma perchè il meno contestato?) dell'Università che la storia italica ricordi? "Spero che questo errore l'Università italiana non lo commetta mai più". Cioè: la prossima volta che viene un Papa, speriamo vada meglio.
Strepitoso. Commovente. Profondo. Soprattutto, molto significativo.
Insomma, la monnezza da Napoli è salita a Roma, ed eccoci qua. E pensare che proprio sul viaggio del Papa avevamo intenzione di giudicare la Turchia. Dicevamo che se quel paese si fosse dimostrato intollerante in occasione della visita di Benedetto XVI, non se ne sarebbe dovuto accettare l'ingresso in Europa. E adesso, che si fa? Esportiamo La Scemenza in Turchia? Non la vogliono. Là sono più civili.

Due proposte:

Per capire l'antefatto, un pezzo di Renato Farina: www.clonline.org/articoli/ita/libero130108farina.pdf

La seconda. Visto che a Benedetto XVI è stato impedito di parlare, domenica prossima, tutti in Piazza San Pietro ad ascoltarlo! La piazza deve essere più piena del solito: tutti quanti là, dobbiamo trovarci, domenica mattina all'angelus.

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Giangiacomo

mercoledì 16 gennaio 2008

Articolo 21 della Costituzione Italiana

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”

Non è una dichiarazione di qualche personalità, bensì l'art. 21 della Costituzione repubblicana, che compie 60 anni in questi giorni e ieri è stata clamorosamente sbugiardata e vilipesa dai facinorosi che non hanno reso possibile la visita del Papa alla “Sapienza”.

Credo di interpretare il sentimento comune nel dire che oggi ci vergogniamo di essere italiani, di essere ostaggio di una minoranza di ignoranti e intolleranti, che stanno facendo perdere la dignità a questo paese.
Abbiamo sempre pensato che la Cuba di Fidel Castro fosse l'emblema moderno di un’ideologia totalitaria, sconfitta dalla storia. Ebbene, dieci anni fa la “comunista” Cuba e il suo “lider maximo” hanno ricevuto con tutti gli onori Papa Giovanni Paolo II. Oggi, l'Italia guidata da Prodi non è in grado di garantire l'ordine pubblico per una visita del Santo Padre all'Università più grande di Roma e (fino a ieri) tra le più prestigiose d'Europa.
La deriva che sta seguendo questo Paese è pericolosissima: dal crocifisso alle battaglie etiche, dalla moratoria sull'abortoalla difesa delle nostre tradizioni stiamo cedendo sui valori, ostaggi di una cultura laicista che rifiuta il confronto, che non accetta posizioni diverse dalle proprie. Si sta facendo strada un messaggio devastante: la cultura della tolleranza vale per fare parlare un imam musulmano che predica il fondamentalismo e la guerra santa contro l'occidente, non vale quando il capo della religione più radicata, da millenni in questo Paese, è invitato a esprimere i propri pensieri in un luogo che dovrebbe essere per antonomasia sede di confronto di idee.
La rabbia per quanto accaduto aumenta pensando in quali ambienti e di fronte a quali “cattivi maestri” i nostri figli rischiano di formarsi e venire magari emarginati perché portatori di valori e ideali che questi massimalisti e giacobini degli anni 2000 ritengono ormai retaggio della storia.

In pochi giorni questo Paese somma due vergogne planetarie (i rifiuti di Napoli e l'intolleranza laicista), che ci pongono nel ridicolo di fronte alla comunità internazionale.

Non può passare inosservata o sotto silenzio questa ennesima prova della peggior cultura liberticida di un “branco di asini” (libera citazione dall’intellettuale Giuliano Ferrara), che ha pure la pretesa di formare le nostre coscienze.

W la libera espressione (di tutti!)

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Giangiacomo

martedì 15 gennaio 2008

Sapienza, un'altra vergogna per l'Italia

I Papi hanno potuto parlare ovunque nel mondo (Cuba, Nicaragua, Turchia, etc.).
L'unico posto dove il Papa non può parlare è La Sapienza, un'università fondata, tra l'altro, proprio da un pontefice.

Questo mette in evidenza due fatti gravissimi:

1) l'incapacità del governo italiano a garantire la possibilità di espressione sul territorio italiano di un Capo di Stato estero, nonché Vescovo di Roma e guida spirituale di un miliardo di persone. Piccoli gruppi trovano, di fatto, protezioni anche autorevoli nell'impedire ciò che la stragrande maggioranza della gente attende e desidera;

2) la fatiscenza culturale dell'università italiana, per cui un ateneo come La Sapienza rischia di trasformarsi in una "discarica" ideologica.

Come cittadini e come cattolici siamo indignati per quanto avvenuto e siamo addolorati per Benedetto XVI, a cui ci sentiamo ancora più legati, riconoscendo in lui il difensore - in forza della sua fede - della ragione e della libertà.

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Giangiacomo

sabato 8 dicembre 2007

Ehi, laiconi, provate a rispondere al Papa

di Giuliano Ferrara
La lettera enciclica sulla speranza cristiana ha avuto l’effetto di una bomba intelligente e edificante. Ha centrato
l’obiettivo, colpendo l’impalcatura autoreferenziale del razionalismo soggettivista incurante della urgenza di verità e di fede (troppo umana) coltivata dagli uomini, ma con autorevole dolcezza, senza fare vittime.
L’impressione è che partendo di lì, da una discussione adulta e non scontata, non inquinata dal correttismo e cioè dai luoghi comuni sul dialogo, e invece incline a una discussione effettiva, tra moderni secolaristi e moderni cristiani si possa ricostruire qualcosa di sensato.L’enciclica sull’amore poteva essere assimilata dai secolaristi moderni senza troppi drammi e danni, e letta in modo automanipolatorio, perché il radicamento dell’amore nel problema della verità non è autoevidente, anzi. Spesso l’amore, non l’agape cristiana, non l’eros cristiano, ma la cura degli altri e di se stessi come umanitarismo, si confonde con sentimentalismo e bontà delle intenzioni, con il nutrimento del desiderio e l’affermazione di un mondo di diritti che si autogiustificano nel diritto al benessere. Ma con la speranza non si scherza. Come notava Péguy (il Foglio, venerdì 30 novembre), è una virtù bambina che trascina tutte le altre in una spirale teologale che è anche il culmine assoluto della filosofia, della vera filosofia viandante con tanto di bastone, e in un certo senso della vera religione, della vera fede, della nostra identità culturale radicale in quanto credenti o non credenti che appartengono al cristianesimo o ne dispongono come di un tesoro nascosto.Ai primi vespri del tempo di Avvento, Benedetto XVI, citando il nullismo dell’ideologia pagana contemporanea, ha detto, presentando l’anno liturgico e l’enciclica: “Tutto perde di ‘spessore’. E’ come se venisse a mancare la dimensione della profondità ed ogni cosa si appiattisse, privata del
suo rilievo simbolico, della sua ‘sporgenza’ rispetto alla mera materialità”. A questa critica schiettamente filosofica, in cui la parola “sporgenza” spiega tutto quel che c’è da spiegare in termini di ragione e dall’interno della storia, Benedetto aggiunge quel che è suo, e che è cardinale nella funzione apostolica e nella libera fede della chiesa, cioè Dio: “L’uomo è l’unica creatura libera di dire di sì o di no all’eternità, cioè a Dio. L’essere umano può spegnere in se stesso la speranza eliminando Dio dalla propria vita”. Programma troppo ambizioso e destinato al fallimento nella libertà, aggiunge il Papa, perché “all’umanità che non ha più tempo per Lui, Dio offre altro tempo”, il tempo liturgico dell’Avvento, e continua a rivelarsi” (attenzione! ndr) e a farlo “mediante la Parola e i Sacramenti”, “mediante la Chiesa” che “vuole parlare all’umanità e salvare gli uomini di oggi”, attraverso “questa luce che promana dal futuro di Dio” e che “si è già manifestata nella pienezza dei tempi”
con l’avvenimento del Cristo morto e risorto. Coloro che si sentono investiti da queste parole, da questa Parola, come da una minacciosa tempesta di vento in mare aperto, non hanno da preoccuparsi né da intristirsi, devono semplicemente rispettare le premesse laiche e secolariste della loro fede nell’immanenza, nell’autonomia dell’uomo e della storia, e domandarsi che cosa Benedetto abbia voluto dire, che cosa significhino per loro le sue parole su questa sostanza delle cose che si sperano e su questa prova di quelle che non si vedono che è la
fede cristiana; domandarsi che cosa ha detto il Papa e quanto possa essere significativo, non che cosa avrebbero voluto sentirsi dire nella forma rassicurante di un compromesso o dialogo all’insegna dello scambio tra una modernità furbamente accolta e un’intemporalità, un’inattualità, un’eternità che giudica rinunciando a se stessa (è questa la pretesa che avanza con garbo Orlando Franceschelli, che conosco come storico intelligente e militante del darwinismo e pubblicista laico sufficientemente attrezzato, anche più di Scalfari, per leggere una lettera enciclica di argomento teologico, il Riformista martedì 4 dicembre). Se l’ufficio della chiesa, sempre avida di riforme e aggiornamenti, è pur sempre “evangelizzare la storia dall’interno”, senza appartenerle interamente, e non piuttosto farsi convertire per inerzia dalle religioni immanentiste, ciò che mi sembra non solo vero da duemila anni compresi gli anni del Concilio Vaticano II, ma anche ragionevole e utile al mondo, compreso il mondo moderno e in specie esso, allora nasce o rinasce la responsabilità dello spirito secolare: pensare, pensare se stesso, i propri approdi, le proprie certezze e incertezze, la propria idea di speranza, anzi la propria fede- speranza come sostanza, substantia, radicamento in ciò che si è più che opinione su ciò che si è. In molti si domandano molte cose, e dialogano. Il pensiero cristiano, che da sempre è coscienza razionale del mondo e coscienza credente nel sopramondo incarnato, nel “plusvalore” del cielo (come scrive Benedetto), nell’àncora lanciata in tempesta verso il trono di Dio, nella stretta di mano del Padre e nella sua fedeltà, si permette il lusso di offrire risposte. Criticarlo e respingerlo è possibile, ovviamente, ma non più, nel tempo che viviamo, in nome dell’affettazione del dubbio, ponendo mere questioni di metodo. Il libro di Sofri, che sto leggendo, gira intorno al problema della risposta, intanto su chi è il mio prossimo, poi si vede, e gira con efficacia e costrutto senza naturalmente trovarla. D’Alema, parlando con gli studenti, fa il suo giretto. E Bertinotti il suo aggraziato passo di danza, presentando un libro su Giovanni Paolo II. Abbiamo passato l’estate a chiedere appunti per il dopo, e cioè: che cosa sperate? Torniamo a farlo. Io speriamo che me la cavo è una risposta tenera, terrestre e non necessariamente pedestre, ma palesemente insufficiente. La storia e lo spirito assoluto del reale razionale hanno
smesso di parlarci, con il Novecento e oltre. Questo mutismo dei tempi la chiesa lo registra e contrattacca. Un argomento, per cortesia, che parli di una qualche sostanza inattaccabile dalla fede e sia prova di cose che si vedono. Provate a vedere se vi riesca. Grazie.

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Giangiacomo

sabato 15 settembre 2007

Ramadan, l'islam che piace a sinistra

di Massimo Introvigne (il Giornale, 12 settembre 2007)
Molti giornali italiani negli ultimi giorni hanno dato ampio spazio a Tariq Ramadan, intellettuale islamico neo-fondamentalista residente a Ginevra, nipote per parte di madre di Hasan al-Banna, il fondatore egiziano dei Fratelli Musulmani, cioè della casa madre del fondamentalismo islamico internazionale.
Si deve dialogare con Tariq Ramadan? O ha ragione chi pensa che si tratti solo del volto sorridente ma ingannevole della stessa cultura che ha prodotto l’11 settembre?
Ramadan per il momento ha ottenuto dal dibattito quello che vuole da parecchi anni: conquistare comunque le prime pagine dei giornali europei. Avrà pure capito poco dell’Occidente, Ramadan - come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi - ma una cosa l’ha capita, e molto bene. La pubblicità è l’anima anche del commercio ideologico, l’importante non è il contenuto della notizia ma che la notizia arrivi sui giornali. Non si tratta di un risultato modesto. Ci sono esponenti del mondo neo-conservatore e di quello neo-fondamentalista islamico molto più importanti di Ramadan. Pensiamo al turco Fethullah Gülen, il cui movimento conservatore ha milioni di seguaci nel mondo, molti di più di quanti Ramadan ne possa anche soltanto sognare. Pensiamo alla marocchina Nadia Yassine, leader del movimento neo-fondamentalista marocchino «Giustizia e Benevolenza» che oggi afferma - con molti torti e qualche ragione - di avere vinto le elezioni dell’ultimo week-end in Marocco, dal momento che predicava l’astensione e gli astenuti sono stati il sessanta per cento, privando così tra l’altro gli odiati rivali del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, che rappresenta un islam politico meno radicale, della vittoria prevista dai sondaggi. Eppure questi personaggi restano sconosciuti al grande pubblico europeo, mentre si continua a parlare di Ramadan. Dov’è il trucco? Certo, Ramadan è un buon agente pubblicitario di se stesso, ma non è neppure un grande oratore. Quando non era ancora candidato alla presidenza, Sarkozy lo fece a pezzi in Francia in un dibattito televisivo. Il motivo principale del suo successo mediatico è un altro. All’interno dei Fratelli Musulmani è in atto da anni uno scontro generazionale. Ai leader storici egiziani, molti dei quali hanno più di ottant’anni, si contrappongono i quarantenni e i cinquantenni come Tariq Ramadan, che innalzano la bandiera dell’incontro fra le vecchie idee di Hasan al-Banna e la scienza politica occidentale. Ma questa seconda generazione neo-fondamentalista, è a sua volta divisa. Vi è chi guarda al neo-conservatorismo americano (e dialoga sottobanco con la diplomazia di Condi Rice), chi all’esperienza delle democrazie cristiane degli anni 1950, e chi al marxismo e ai no global: una destra, un centro e una sinistra. Tariq Ramadan ha scelto con molta chiarezza l’estrema sinistra.
Sbaglia chi pensa che - se le sue idee dovessero prevalere - nell’islam egiziano e in quello dell’emigrazione nascerebbero dei nuovi Bin Laden. Emergerebbero piuttosto tanti piccoli Hugo Chavez musulmani: neo-marxisti no global riveduti e peggiorati dall’incontro con l’islam fondamentalista. Ramadan è pericoloso non tanto perché voglia conservare elementi della tradizione musulmana, ma perché il cocktail di fondamentalismo e ultra-sinistra può diventare esplosivo, in più di un senso. Nell’attesa, dove in Europa votano, Ramadan incita gli immigrati musulmani a votare a sinistra. Per questo le sinistre europee hanno interesse a tenerlo in prima pagina.
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domenica 26 agosto 2007

Gelmini, i cattolici spezzano l’assedio

«Sudditanza al laicismo, ora basta»

Articoli su articoli, dissertazioni sullo spinosissimo tema della pedofilia, balbettii autocritici da parte di autorevoli tonache. Il caso Gelmini sembra mostrare il lato debole della Chiesa italiana e ripropone un quesito ricorrente: c’è in Italia una cultura laicista che sfrutta tutte le occasioni per mettere in difficoltà il già fragile popolo di Dio?
Vittorio Messori, lo scrittore cattolico più noto al mondo, non fa sconti a nessuno: «Noi abbiamo importato dagli Usa l’ossessione per la pedofilia. La Chiesa americana, quella politicamente più corretta, più all’avanguardia, più liberal, ha aperto a tutto: dal sacerdozio delle donne ai preti gay. Risultato: il conformarsi alla logica del mondo ha portato nei seminari tanti omosessuali, che da sempre cercano ambienti maschili come i seminari e le caserme, con relativa, inevitabile esplosione degli scandali. D’altra parte laggiù l’attacco alla Chiesa è diventato un business a colpo sicuro. Molti avvocati invitano i fedeli a denunciare preventivamente i preti, che a differenza dei pastori protestanti hanno alle spalle diocesi ricche: le diocesi, spaventate, pagano anche quando si sa che i sacedoti sono innocenti».
Un meccanismo perverso, a sentire l’autore di Ipotesi su Gesù, che è costato al clero americano cifre stratosferiche. «Da noi - riprende Messori - il caso don Gelmini dà ovviamente voce ai tanti moralisti laici e laicisti su piazza che colgono l’occasione per puntare il dito contro la Chiesa cattolica. Ma questo credo sia normale». Nessun complotto, dunque. «Piuttosto, - riprende Messori - come mai la pedofilia emerge con percentuali uguali nelle chiese protestanti dove tutto è permesso? Invece, qua da noi si parla di don Gelmini e dello scandalo dei preti di Torino per dire che è tutta colpa della Chiesa retriva e conservatrice che impone il celibato. Purtroppo il matrimonio fra i preti non risolve il problema, perché l’ottanta per cento dei casi riguarda pratiche omosessuali».
Forse, il tema di fondo è un altro: la Chiesa deve tornare ad annunciare Cristo, senza se e senza ma come si dice oggi? E forse, quando lo fa, rischia l’emarginazione? Ruota intorno a questi quesiti la riflessione di don Luigi Negri, vescovo di San Marino: «Io noto che don Gelmini è uno che ci crede. Nel senso che porta la fede fino alle estreme conseguenze sociali e culturali. Per lui la fede non è un fatto privato, personale, ma un modo di affrontare la vita. Questo obiettivamente dà fastidio ad una mentalità laicista che mal digerisce un cristianesimo integrale». Ma c’è di più; per il vescovo di San Marino c’è un’ala nella Chiesa che si presta a questo gioco distruttivo: «Un conto è il popolo di Dio che ha ben saldi i suoi riferimenti, altra cosa è l’ecclesiasticità che talvolta va in ordine sparso. Tante vicende, anche questa di don Gelmini, dimostrano, al di là delle eventuali responsabilità di don Pierino di cui non so nulla, una subalternità, consapevole o no, di parte dell’ecclesiasticità al pensiero dominante, un desiderio sconfortante di compiacere la cultura laica».
Monsignor Negri non fa nomi, ma certo il retropalco del caso è stato affollato in questi giorni da personalità del mondo ecclesiastico: il cardinal Francesco Marchisano ha invitato don Pierino a farsi da parte in attesa di un chiarimento, don Ciotti si è detto equidistante dal sacerdote e dalle sue presunte vittime, don Mazzi è stato addirittura convocato dalla Procura di Terni come teste dell’accusa. La vicenda ha provocato contraccolpi anche all’interno del mondo cattolico, anche se in superficie è più difficile leggere i segni di questo conflitto. E allora affiora il disagio, la speranza che tutto finisca in fretta senza altri danni. Come dice Salvatore Nummari, arcivescovo di Cosenza: «Da amico invito don Pierino ad avere fiducia nella magistratura. Senza troppe esternazioni».

di Stefano Zurlo, Il Giornale, lunedì 13 agosto 2007

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mercoledì 22 agosto 2007

Lo statalista Prodi tradisce la Chiesa

Il balletto dei politici di centro-sinistra intorno all'intervento del cardinale Bertone a Rimini - che ha definito un dovere «pagare le tasse», ma a condizione che corrispondano a «leggi giuste» - per cercare di dimostrare che in realtà il segretario di Stato vaticano voleva dare ragione a loro ha davvero raggiunto il colmo dell'ipocrisia con la dichiarazione vacanziera di Prodi, il quale si è detto «d'accordo su tutto» con il porporato. Come già a proposito delle uscite su Hamas e sui Rom, il gioco dell'estate è capire se il premier «ci è» o «ci fa». Ma siccome il cardinale Bertone ha fatto ampi riferimenti nel suo discorso alla dottrina sociale della Chiesa, che Prodi conosce, è difficile stavolta accordargli la buona fede.
Su quali leggi fiscali siano «giuste» il patrimonio di documenti pontifici noto come dottrina sociale della Chiesa non è avaro d'indicazioni, anzi è molto preciso. Fa riferimento a tre principi: solidarietà, moralità e sussidiarietà. Il principio di solidarietà è quello secondo cui tutti devono contribuire al bene comune, specie a vantaggio dei più deboli e dei più poveri, e non è lecito tirarsi indietro per ragioni egoistiche. Qui si situa la tradizionale critica cattolica dell'evasione fiscale, dove tra l'altro la parola «evasione» assume anche un significato analogo a quello che ha in espressioni come «letteratura di evasione» e simili. La Chiesa condanna una mentalità in cui non solo e non tanto si evadono le tasse, ma - nei casi di leggi ingiuste e di governi iniqui - si finge di poter evadere dalle tasse, rifugiandosi in una immaginaria dimensione «apolitica» dove l'evasione fiscale, come mentalità e come costume, è alternativa rispetto a una più consapevole ed efficace «protesta fiscale». Più che «evadere» individualmente, di fronte a forme di persecuzione fiscale il cittadino consapevole dovrebbe protestare collettivamente e operare per far cessare la persecuzione cambiando il governo.
La critica dell'evasione - nei due sensi del termine - si accompagna però alla condanna delle «leggi ingiuste». Qui entrano in gioco gli altri due principi. Per il principio di moralità il governo che chiede tasse elevate deve dimostrare di spendere il denaro pubblico secondo altrettanto elevati principi morali e criteri di oculatezza. Diversamente, il suo diritto alla solidarietà dei cittadini viene meno e, come insegnava Giovanni Paolo II, «il crollo della moralità porta con sé il crollo della società». Per il principio di sussidiarietà, cui i governi sono - sempre secondo Papa Wojtyla - «gravemente obbligati ad attenersi», lo Stato non deve assorbire attività e risorse che non gli competono e che una corretta valutazione del bene comune indurrebbe a lasciare ai privati. Se lo Stato non rispetta questo principio, nasce lo statalismo che - secondo la classica e ancora valida formula di Pio XII - è «l'estensione smisurata dell'attività dello Stato, dettata da ideologie false e malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di un ordine diverso».
Il governo Prodi rispetta il principio di moralità spendendo con giustizia e senza sprechi? Rispetta il principio di sussidiarietà ripudiando le politiche stataliste e illiberali tipiche dell'estrema sinistra? Prodi sa che la risposta è «no», e che questo «no» fa sì che le sue leggi fiscali non siano, dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, le «leggi giuste» evocate dal cardinale Bertone.


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venerdì 10 agosto 2007

La corsa alle moschee: una ogni 4 giorni!

Che strano Paese è l'Italia dove nasce una moschea ogni quattro giorni e le istituzioni si affannano a permetterne la continua crescita; dove si ha la certezza dell'attività terroristica nelle moschee e i terroristi vengono regolarmente assolti; dove si è consapevoli che l'attività dell'intelligence è fondamentale per prevenire gli attentati terroristici e si indebolisce e disincentiva l'operato dei servizi segreti. Ecco i fatti. Nella relazione del 1˚agosto del Cesis, ribattezzato Dis (Dipartimento per le informazioni per la sicurezza), si chiarisce che le moschee in Italia sono più che raddoppiate in meno di 7 anni.
Sono passate da 351 nel 2000 a 735 nel primosemestre di quest’anno. Con un’impressionante accelerazione del tasso di diffusione che registra la nascita di 39 nuove moschee negli ultimi cinque mesi. Se si considera che la percentuale dei fedeli che frequentano abitualmente le moschee potrebbe oscillare tra il 5 e l’8 per cento del circa un milione di musulmani in Italia, se ne deduce che al massimoogni 100 fedeli dispongono di una moschea. Eppure sembra che le moschee non bastino mai. È in atto una vera e propria offensiva per l’accaparramento di nuove moschee, sempre più grandi, a Genova, Firenze, Bologna, Torino, Roma, Napoli, Colle Val d’Elsa (in Toscana).
E molte di queste moschee sorgono grazie alla disponibilità delle amministrazioni locali di sinistra, pronte a concedere il terreno, lo stabile e anche i finanziamenti per la costruzione. Il caso più recente è stato documentato da Alessandra Erriquez sul Corriere del Trentino di ieri, che cita la dichiarazione del sindaco diessino Alberto Pacher: «Garantire a una comunità che opera correttamente il diritto di professare la propria religione è un segno di civiltà. Tanto più che non chiedono finanziamenti ma solo uno spazio urbanistico compatibile». Dal canto suo il sedicente imam di Trento, il vicepresidente dell’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia) Abulkheir Breigheche, ha spiegato che dal momento che la raccolta di fondi in seno alla moschea non è in grado di soddisfare la richiesta di acquisto di una nuova moschea che sia di almeno 500 metri quadri, «a questo punto il Comune dovrebbe venirci incontro e indicarci uno stabile, anche già esistente, che sia consono all’attività che svolgiamo».
Ebbene per il sindaco e l’imam l’offerta di uno stabile è da considerarsi un’operazione a costo zero. Secondo Breigheche «le moschee sono luoghi di convivenza, insegnamento, ascolto e assistenza. Per tutto questo è necessario uno spazio più grande». Peccato che non sia passato molto tempo da quando a Ponte Felcino, alle porte di Perugia, è stata scoperta l’ennesima moschea trasformata in una scuola di aspiranti terroristi islamici e in un arsenale di armi chimiche che avrebbero potuto essere utilizzate per inquinare gli acquedotti e provocare stragi tra gli italiani. Peccato che l’Ucoii sia ideologicamente l’emanazione dei Fratelli Musulmani, un movimento estremista che predica la distruzione di Israele, inneggia ai kamikaze palestinesi e persegue l’obiettivo di imporre un califfato islamico globalizzato.
Altro fatto. Due giorni fa sono stati assolti «perché il fatto non sussiste» il sedicente imam di Varese, Abdelmajid Zergout, e due suoi collaboratori, nonostante sia stato riconosciuto che tutti appartengono al Gruppo islamico combattente, e nella sentenza si sottolinea che «mostrano una chiara adesione alla ideologia islamica fondamentalista; raccolgono denaro per la causa comune e esaltano la lotta contro gli infedeli». L’assoluzione è stata conseguente al ritardo con cui è stata presentata una richiesta di rogatoria in Marocco, da addebitare al ministero della Giustizia. E per un errore burocratico ci ritroviamo in libertà tre persone di cui abbiamo la certezza che appartengono a un gruppo terrorista e di cui ne condividono il pensiero e l’attività.
E ancora. Il Sole 24 Ore di ieri preannuncia, in un’ampia inchiesta sui servizi segreti a firma di Marco Ludovico, che inizia così: «Per gli 007 italiani oggi il rischio più alto non è il terrorismo islamico o il ritorno brigatista: è quello di perdere il posto ». Si spiega che tra i 500 e gli 800 agenti, su un totale di 3.700, potrebbero essere esonerati dai loro incarichi. Si specifica che gli agenti «operativi», quelli che effettivamente sono impegnati sul terreno nell’opera di contrasto del terrorismo o dell’eversione, sono solo 400. E che oltretutto, con la riforma che ne ha modificato le sigle, i servizi segreti saranno fortemente limitati nella loro attività dal controllo del Parlamento e delle Procure.

Magdi Allam

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domenica 5 agosto 2007

Le sacre scritture di Prodi: i contribuenti sono schiavi

Romano Prodi si è lamentato perché i parroci italiani nelle prediche domenicali non invitano i cittadini a pagare le tasse. Giustamente, diversi teologi e vescovi lo hanno - con tutta la cortesia clericale del caso - mandato a quel paese. In particolare l’arcivescovo di Chieti Bruno Forte gli ha ricordato che per potere convincere i cittadini a pagare le tasse i governanti devono essere credibili. Prodi ha risposto con una lettera al Corriere della Sera, dove scrive: «Se non ricordo male, anche San Paolo esorta all’obbedienza nei confronti dell’autorità. Credo che utilizzi l’espressione “quoque discolis”, a significare che si deve obbedire alle regole dello Stato anche se dettate da “lazzaroni”». Come questo giornale ha già fatto rilevare, Prodi ricorda male. La citazione - che recita «etiam discolis» e non «quoque discolis» - non è di san Paolo, ma di san Pietro nella sua prima lettera (2, 18).
Ma c’è di peggio. San Pietro sta parlando dei «servi», cioè degli schiavi. Anche chi traduce «domestici» sa che ai tempi di san Pietro la maggioranza dei domestici erano schiavi. I primi cristiani non avevano ancora la forza per reclamare l’abolizione della schiavitù, un’idea che ha le sue basi nel Nuovo Testamento, ma che verrà a pratica maturazione solo gradualmente. Chiedevano ai padroni di trattare gli schiavi con umanità, e agli schiavi di obbedire ai padroni, ritenendo che le rivolte peggiorassero la loro situazione. È in questo contesto che san Pietro esorta gli schiavi a rimanere pazientemente «sottomessi ai padroni», «non solo a quelli buoni e miti», ma anche a quelli «discoli». L’implicazione che il presidente del Consiglio ne vuole trarre è che monsignor Forte ha torto: non si devono pagare le tasse solo ai governanti «buoni e miti», ma anche a quelli «discoli» o, come Prodi traduce, «lazzaroni», il che dimostra che forse non si fa illusioni su che tipo di compagine governativa si trovi a guidare.
Tuttavia don Prodi nella sua predica non riflette sull’insulto, oltre che al buon senso, ai cittadini italiani insito nel paragone. San Pietro sta parlando infatti della schiavitù, cioè di un’istituzione che considera ingiusta e che si è costretti a tollerare in attesa di poterla abolire. Oggi la Chiesa ha vinto la sua secolare battaglia e, salvo che in qualche remota zona islamica, la schiavitù non esiste più. I contribuenti italiani non sono schiavi del fisco - per quanto la cosa forse piacerebbe a Visco e ad altri fondamentalisti delle imposte - ma liberi cittadini, che non sono obbligati a seguire i governanti «discoli» e «lazzaroni», ma possono del tutto legittimamente cercare di mandarli a casa.
I cittadini cattolici possono - anzi, secondo la dottrina sociale della Chiesa, devono - anche criticare le politiche fiscali ingiuste e vessatorie e l’ipertrofia dello Stato assistenziale, che crea solo costosi carrozzoni burocratici. Anziché san Pietro confuso con san Paolo, Prodi avrebbe potuto citare per esempio questa frase significativa: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese» (e quindi delle tasse). Non è una frase di Berlusconi, ma di Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus Annus.

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martedì 1 maggio 2007

Per l'Europa, il vero nemico è la Chiesa

Io l'ho trovato un po' difficile, ma sicuramente apprezzabile.

Editoriale di Marcello Pera, 30 Maggio 2007, La Stampa (questa volta non l'ho comprata... l'ho letta gratis al bar!)

La questione dell’omofobia è come quella del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto. Si mira da una parte per colpire dall’altra. Sulle coppie di fatto non esiste un vero problema. Non lo hanno le stesse coppie di fatto, le quali, avendo liberamente scelto di essere di fatto, non chiedono di diventare di diritto. Né lo ha la società, perché nessun movimento è mai nato per protestare contro presunte discriminazioni in materia di unioni. In realtà, con la scusa della protezione delle coppie uomo-donna, si vuole arrivare al matrimonio uomo-uomo e donna-donna.
Lo stesso vale per la condanna dell’omofobia. Non esiste un problema sociale degli omosessuali, salvo che nei Paesi islamici (che però, al momento, non fanno parte dell’Unione europea), perché né di fatto né di diritto essi sono discriminati in Europa e in Occidente. Vale addirittura il contrario: da quando si sono liberati dal condizionamento sociale e dalla propria autorepressione psicologica e hanno cominciato a fare outing, non solo gli omosessuali sono stati accettati come tali (salvo i normali pettegolezzi che si riservano a tutti), ma addirittura sono diventati i nuovi eroi portatori di nuovi diritti, nuova cultura e nuova civiltà. Al punto che, se c’è, la discriminazione è a loro favore: ad esempio, mentre è possibile oggi bloccare strade e città per una manifestazione di gay pride, non è più possibile intralciare il traffico per una processione del Corpus Domini.
E allora contro chi ce l’ha il Parlamento europeo? Ce l’ha con la Chiesa cattolica, la quale, come tanti, i più, ritiene che l’omosessualità sia un disordine morale e una a-normalità, per ragioni culturali, genetiche, fisiologiche o che altro. Oltre a ciò, il Parlamento europeo ce l’ha con quei credenti e con quei non credenti (che solo in italiano e francese si chiamano «laici»), i quali, benché non abbiano problemi riguardo ai diritti degli omosessuali, ne hanno di irriducibili contro la loro richiesta di congiungersi in matrimonio, o comunque si chiami l’istituto giuridico a seconda delle fantasie dei vocabolari europei.
E perché il Parlamento europeo ce l’ha tanto con la Chiesa cattolica e coloro che, sul punto, ne condividono la posizione? Perché il Parlamento europeo è la punta avanzata del laicismo europeo, il quale è una delle due valvole mitraliche del cuore dell’ideologia europeista (l’altra, come è noto, è il pacifismo, ma solo se antiamericano e preferibilmente filoislamico).
Morti il fascismo, il nazismo e, alla fine e per grazia di Dio, anche il comunismo, l’europeismo è l’ultimo (nel senso di più recente) rifugio ideologico dell’Europa, soprattutto quella di sinistra e soprattutto quella che, da sinistra, l’aveva sempre osteggiata quando era atlantica e voleva essere cristiana.A questa ideologia il laicismo fa così tanto da cemento che attorno a esso si edifica quel poco di identità europea che ancora è ammessa (l’Europa laica contro l’America bigotta) o su di esso si costruiscono partiti politici postcomunisti o postcattolici (in Europa, quella Margherita che si chiama partito liberale, in Italia il partito democratico, che non a caso si è definito «partito laico» e, al primo punto programmatico, ha posto il riconoscimento dei matrimoni omosessuali).
L’odio contro la Chiesa e le sue gerarchie (pericolosissimo perché finirà con l’armare ideologicamente la mano di qualche criminale) e l’apostasia del cristianesimo è ciò su cui oggi si basa l’Europa. Non sapendo più che cosa è, né avendo chiara idea di che cosa vuole essere (se non zona di pace e di ferie), l’Europa fugge da se stessa. Ma poiché senza un interlocutore o un avversario, anche immaginario, che consenta di distinguere «noi» da «loro» non si può esistere, l’Europa, per mostrare che invece esiste, ha fatto la sua scelta: ha puntato al fantasma degli omofobi per combattere il cristianesimo.
Trovato il nemico, fascismo, nazismo, comunismo si inventarono confini, campi e gulag per rinchiudercelo. Ma l’ideologia europeista, come ha scritto un Tale, è «una forza gentile»: al momento si limita alle minacce culturali e alle censure parlamentari.

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Giangiacomo