sabato 27 settembre 2008

Scuola: la scelta di Veltroni

La settimana prossima si voterà alla Camera il decreto Gelmini per la scuola. Sul sito www.governoberlusconi.it si possono trovare le indicazioni dei provvedimenti e le loro motivazioni.
Dopo le rituali proteste di queste settimane, a Veltroni spetta una scelta.
Ripercorrere la strada battuta (con qualche successo, purtroppo per la scuola) tra il 2002 e il 2006 o scegliere di cambiare strada. Allora la sinistra scelse la scuola come il terreno privilegiato per la battaglia politica contro il governo, demonizzando le iniziative del ministro e della maggioranza, terrorizzando le famiglie con false notizie (tempo pieno abolito, insegnamenti tagliati, insegnanti di sostegno licenziati, attacco alla scuola statale, ecc.), strumentalizzando i bambini e usando gli edifici scolastici come strumenti per comunicare falsamente ai cittadini e ai media.
Lo stesso è accaduto purtroppo finora. Veltroni e i suoi sembrano non capire che la scuola è come l'Alitalia, un carrozzone destinato al fallimento se non si interviene subito e a fondo. I provvedimenti presi finora - educazione civica, voto in condotta, pagelle con i voti, maestro unico,riorganizzazione dell'impiego dei docenti nelle scuole elementari (potenziando il tempo pieno e mantenendo gli insegnati di sostegno) blocco della progressione della spesa - vanno nella direzione di creare nel giro di pochi anni le condizioni per una scuola migliore, più capace di istruire ma anche di educare, con insegnanti riconosciuti nel loro ruolo sociale e meglio pagati. Sono provvedimenti facili da comprendere, apprezzati dai cittadini, che mettono la sinistra davanti a un bivio. Oggi l’alternativa è quella di collaborare in una riforma non più rinviabile o continuare a lasciare le cose come stanno e giungere alla bancarotta economica, formativa ma soprattutto educativa.


Per il bene di tutti e per il futuro dell’Italia le auguriamo di avere la forza di scegliere la strada giusta, stavolta... ma, se il buon giorno si vede dal mattino, non abbiamo grandi speranze.

see u,
Giangiacomo

Caritas... ipocriti!!

L’Osservatore Romano, in un articolo firmato dal responsabile della Caritas, critica il “giro di vite” del governo italiano in materia di immigrazione e attacca le politiche europee che prevedono restrizioni.

Ancora una volta, monsignori in blue jeans che vogliono mettersi in mostra si atteggiano a maestri di solidarietà sulla pelle degli altri.
Queste affermazioni non hanno nulla a che fare con la carità cristiana e con la sincera solidarietà e sembrano piuttosto mosse solo da un pregiudizio politico e da un inguaribile protagonismo (vizi, questi, caratteristici degli “esperti” della Caritas).
Ma questi “professionisti del solidarismo” hanno mai conosciuto nelle nostre periferie il volto dell’immigrazione?

Propongo nei commenti una testimonianza molto cruda che dà il senso della distanza tra l’ideologia buonista e la realtà!

Le ultime della Caritas richiamano le riflessioni, più in generale, sulla Chiesa sinistrata

"Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E' venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di incertezze" (Paolo VI, 29 giugno 1972).

Church disfigurement "We thought that after the Council a day of sunshine would have dawned for the history of the Church. What dawned, instead, was a day of clouds and storms, of darkness, of searching and uncertainties." (Pope Paul VI, 29 June 1972).

see u,
Giangiacomo

giovedì 18 settembre 2008

Trattativa Alitalia

L’irresponsabilità di molti lavoratori, l’arroccamento dei privilegiati, l’ideologia dei sindacati...Speriamo che la vicenda almeno insegni dove conduce quell’economia in cui le aziende sono dello Stato: immani sprechi, schiere di intoccabili, posto assicurato, nessuna produttività.Ma prima o poi...

Lavoro o sindacato?
"Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente chiari. I salari aumentavano eccessivamente mentre le prospettive aziendali precipitavano con l'inizio della recessione" (diario di Margaret Thatcher nei primi giorni del suo governo, 1979).
Work or trade-union?
"The economic results of trade-union power were already painfully clear. The salaries increased excessively whilst the corporate perspectives fell over with the beginning of the recession" (Margaret Thatcher's diary in the first days of her government, 1979).

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Giangiacomo

sabato 13 settembre 2008

Due anni fa, la morte di Oriana Fallaci

Due anni fa, la morte di Oriana Fallaci (15 sett. 2006)
“La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’entro. C’entro, ahimè c’entro”

Islam ed Europa: Oriana Fallaci (1929-2006)
"Sveglia, Occidente, sveglia! Ci hanno dichiarato la guerra, siamo in guerra! E alla guerra bisogna combattere" (Oriana Fallaci)

Occident: Oriana Fallaci (1929-2006)
"Wake up Occident, wake up! They declared war on us and war is what they got. We have to hang tough!" (Oriana Fallaci)

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Giangiacomo

lunedì 8 settembre 2008

La rendita dei comuni

di Francesco Giavazzi

L'Italia è il Paese, dopo gli Stati Uniti e l'Australia, che consuma il maggior numero di litri d'acqua per abitante: quasi 600 litri al giorno negli Usa, 500 in Australia, 400 in Italia. In Gran Bretagna se ne consumano solo 150, in Germania 190. In parte ciò è dovuto al fatto che la nostra rete idrica è un colabrodo, con una perdita media del 30% e punte del 50%; ciononostante per migliorare i nostri acquedotti investiamo meno della metà di quanto investono gli inglesi (in realtà non tutta l'acqua persa è sprecata: una buona parte viene rubata, spesso per irrigare i campi con acqua potabile. Ad Agrigento, quando i carabinieri hanno sequestrato alcuni invasi illeciti, le cisterne in città quasi scoppiavano tanta acqua arrivava). L'elevato consumo dipende anche dal fatto che nelle nostre città il prezzo dell'acqua è fra i più bassi al mondo: circa 80 centesimi al metro cubo a Roma, contro 4,30 euro a Berlino, 3,50 euro a Copenaghen, 2 euro a Londra. La nostra acqua costa poco, ma illudendoci che sia pressoché gratuita ne consumiamo troppa e alla fine le nostre bollette non sono molto inferiori a quelle inglesi o tedesche. Ciò che accade per l'acqua accade per i rifiuti: oneri di smaltimento molto bassi e quindi, con rare eccezioni (Trento ad esempio), un eccesso di rifiuti. Un altro esempio è il trasporto pubblico locale. I biglietti coprono un terzo del costo: non c'è da stupirsi se i passeggeri, non conoscendo quanto costa davvero il servizio, trattino male gli autobus. Dovrebbero bastare questi esempi per convincerci che vi è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui sono gestiti i nostri servizi locali.
Essi dipendono, pressoché senza eccezioni, dalla politica e i politici, anche i meglio intenzionati, si illudono che il modo per aiutare i cittadini — e ottenere i loro voti — sia far pagare poco i servizi. In realtà così facendo contribuiscono al degrado dell'ambiente e, come abbiamo visto nel caso dell'acqua, alla fine non riescono neppure a mantenere basse le bollette. Solo il 5% dei nostri acquedotti è gestito da privati ai quali il servizio è stato affidato in seguito a un'asta competitiva. Gli altri sono gestiti direttamente dagli enti locali, o comunque da società controllate dagli enti locali a cui sono stati affidati senza mai chiedersi se esistesse qualcuno disposto a offrire il servizio a condizioni migliori. Nella scorsa legislatura il ministro Linda Lanzillotta cercò, invano, di condurre in porto una riforma. Per superare il veto di Rifondazione dovette accettare che gli acquedotti rimanessero pubblici. Ma per gli altri servizi quella legge aveva il merito di porre i Comuni di fronte a una scelta chiara: o gestivano il servizio direttamente, o lo affidavano tramite una gara a società terze. Deroghe alla procedura di assegnazione tramite gara dovevano essere approvate dall'Antitrust. La legge non passò non per l'opposizione di Rifondazione, che si accontentò dell'acqua pubblica, ma perché fu considerata un attentato alla tranquilla sopravvivenza del nuovo «capitalismo pubblico locale», le centinaia di aziende a partecipazione pubblica create negli ultimi anni per gestire i servizi locali.
Queste società sono diventate il fulcro del potere politico locale: non c'è fusione che non sia accompagnata dal passaggio al modello societario duale in modo che non un solo presidente, non un solo consigliere di amministrazione perda il suo posto. Oggi, grazie alla Lega hanno ottenuto ciò che volevano: l'art. 23-bis del decreto fiscale approvato l'1 agosto prevede che le deroghe alla procedura di gara siano solo comunicate all'Antitrust. Tolte di mezzo le gare, la sopravvivenza del capitalismo pubblico locale è assicurata. La Lega ha definito l'approvazione del 23-bis una vittoria del federalismo. In realtà anziché parte di un grande progetto di riforma delle istituzioni, sembra piuttosto la misera difesa di qualche poltrona alle spalle dei cittadini. All'interno della maggioranza l'opposizione al 23-bis è venuta soprattutto da Alleanza nazionale che ha inutilmente difeso le gare e ora annuncia la presentazione di un nuovo disegno di legge per rivedere in senso più rispettoso del mercato l'intero assetto dei servizi locali. Ma vi sarebbe un modo più concreto per segnalare la propria diversità: An gestisce Roma, una città dove i servizi pubblici sono tutti assegnati senza gara. Quale lezione ai propri colleghi, e anche all'opposizione, se il sindaco Alemanno annunciasse che d'ora in poi a Roma tutti gli affidamenti avverranno tramite gara.


see u,
Giangiacomo

domenica 7 settembre 2008

Il questionario

liberamente ispirato al famoso gioco di Marcel Proust

Risponde: Giangiacomo

Il tratto principale del suo carattere?
Le pubbliche relazioni

La qualità che preferisce in un uomo?
Sincerità.

E in una donna?
Essere donna.

Il suo principale difetto?
Desiderare di fare meglio e quindi essere avero negli elogi... sopratutto nei miei confronti.

Il suo sogno di felicità?
Un mondo senza falsi e ipocriti.

Il suo rimpianto?
Politicamente parlando... tante.

L'ultima volta che ho pianto?
Al termine del film "L'albero degli zoccoli".

L'incontro che le ha cambiato la vita?
1999, Comunione e Liberazione.

Sogno ricorrente?
Essere un giocatore dell'Inter.

Il giorno più felice della sua vita?
Arriverà presto...

E il più infelice?
Politicamente parlando... elezioni universitarie 2004.

Quale sarebbe la disgrazia più grande?
Non poter essere più utile.

Il suo primo ricordo?
Nella mia cameretta a disegnare.

Materia preferita?
Matematica

Libro preferito di sempre?
Fratelli di sangue di Chacour Elias

Libro preferito degli ultimi anni?
Oscar e la dama in rosa

Autori preferiti in prosa?
Colto impreparato...

Poeti preferiti?
D'Annunzio, Marinetti.

Cantante preferito?
Nessuno... ascolto solo Gigi D'Agostino.

Il suo eroe e la sua eroina?
Sono cose da piccoli...

I suoi pittori preferiti?
...

Film cult?
Bad boys

Attore preferito?
Sean Connery

Attrice preferita?
Sharon Stone.

Se potesse cambiare qualcosa nel suo aspetto fisico, che cosa cambierebbe?
I capelli

Personaggio storico più ammirato?
Benito Mussolini

Personaggio politico più detestato?
Stalin

Il suo primo amore?
Chiara, alle elementari

Cosa detesta di più?
L'ipocrisia e la prepotenza

L'alternativa al mestiere che ha fatto?
Il poliziotto della scientifica... negli States

Stato d'animo attuale?
Preoccupato

Il suo motto?
Due!
"Che io possa vincere, a se non dovessi riuscire che io possa provare con tutte le mie forze"
"Non per mestiere, ma per passione"

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venerdì 5 settembre 2008

Induismo: identità e fanatismo

Le recenti tragiche violenze contro i cristiani in India hanno riportato agli onori delle cronache un dibattito che ferve da anni fra politologi e sociologi delle religioni. Ci si chiede se possa davvero essere definita “fondamentalista” la grande organizzazione indiana Rashtriya Swayamsevak Sangh (Associazione dei Volontari della Nazione, RSS), che a diverso titolo è alle origini dell’associazione internazionale di propaganda dell’induismo Vishva Hindu Parishad (VHP) e del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito politico che – dopo una lunga marcia dall’emarginazione al centro della scena politica, apertasi con la partecipazione a governi di coalizione – nel 1998 è diventato il partito di maggioranza relativa in India e ha espresso il primo ministro, Atal Binari Vajpayee, che è stato in carica fino al 2004. Nelle elezioni del 2004 una coalizione laica guidata dal Partito del Congresso dell’indiana di origine piemontese Sonia Gandhi ha sconfitto, contro tutti i sondaggi, il BJP, che è tornato all’opposizione. Il partito BJP, la VHP e molte altre organizzazioni fanno parte del Sangh Parivar, la “famiglia” di organizzazioni che derivano dal RSS e ne condividono gli ideali. Il Sangh Parivar propone una difesa intransigente dell’identità indù dell’India, con campagne contro i missionari cristiani e musulmani, che purtroppo non di rado trascendono in violenze, e gesti simbolici come la distruzione da parte della folla, nel 1992, della moschea eretta in epoca Mogul sul luogo, ad Ayodhya, dove la tradizione indù colloca la nascita di Rama, una delle più popolari incarnazioni di Vishnu.
Si tratta di “fondamentalismo”? La tesi è stata sostenuta sia nella dialettica politica indiana (dagli avversari del BJP), sia da specialisti come Andreas Schworck, ed è stata vigorosamente rifiutata non solo da alcuni studiosi occidentali che hanno evidenti simpatie per il Sangh Parivar come Koenraad Elst ma anche da altri che hanno cercato una definizione accettabile del fondamentalismo come “tipo ideale”, fra i quali lo storico svizzero Jean-François Mayer. Al di là di assonanze innegabili con i fondamentalismi protestante e islamico, il problema sottolineato da Mayer – per quanto riguarda l’induismo – sembra quello di identificare in modo chiaro quale sia il plesso di principi e dottrine religiose da cui dedurre senza mediazioni una cultura e una politica. L’induismo è un mosaico di principi e di correnti diverse, che la VHP ha tentato di unificare in una sorta di “Chiesa” induista, senza però riuscire a costruire più di una federazione di gruppi che rimangono diversi e che comunque rappresentano solo una parte del variegato mondo induista. Le parole d’ordine intorno alle quali il Sangh Parivar raduna un numero cospicuo di seguaci fanno riferimento a un’immagine essenziale e mitica dell’induismo quale elemento unificatore della nazione indiana e bastione contro il colonialismo culturale “straniero” (cioè musulmano e cristiano). Perché questa immagine tenga, occorre ridurre al minimo i dettagli, così che il riferimento alla religione (senza volerlo necessariamente squalificare come strumentale o posticcio) costruisce più un “nazionalismo religioso” che non un autentico fondamentalismo.
Ultimamente, decidere se si tratti di “fondamentalismo” o di “nazionalismo” è certamente importante per gli studiosi, ma non fa molta differenza per le vittime di violenze contro la minoranze cristiana e quella musulmana – senza dimenticare che tra queste due c’è una differenza, che è forse poco “politicamente corretto” ma è obbligatorio ricordare: i cristiani non hanno mai reagito alla violenza con la violenza, mentre i musulmani si sono organizzati per rispondere al sangue con il sangue, alimentando vari conflitti regionali e locali che hanno fatto migliaia di morti. La condanna della violenza – come ha ricordato Papa Benedetto XVI – non può che essere intransigente e assoluta. La violenza contro i cristiani non può essere giustificata o “compresa” – come purtroppo talora si legge anche su qualche giornale occidentale – in nome dell’anticolonialismo o della difesa dell’identità indiana minacciata dalla globalizzazione.
Resta tuttavia un grande problema culturale o politico. Tutto il Sangh Parivar – un immenso movimento il cui braccio politico, il BJP, nelle elezioni indiane del 2004 ha preso (pure arretrando rispetto alla tornata elettorale precedente) ottantacinque milioni di voti – può essere squalificato come una congrega di “fondamentalisti” e di assassini di cristiani? C’è chi lo pensa, con buone ragioni che derivano dalle dichiarazioni di alcuni suoi esponenti, i quali sono almeno “cattivi maestri” rispetto alle folle ubriache di slogan nazionalisti che assaltano le parrocchie e gli orfanotrofi. Di fatto, però, la coalizione che si esprime nel Sangh Parivar e nel partito BJP comprende una ricca varietà di correnti e gruppi che vanno da un ultra-fondamentalismo indù radicale a forme di conservatorismo piuttosto pragmatico. Il partito regionalista Shiv Sena, con base a Bombay (Mumbai) e guidato da Bal Thackeray (con cui ho avuto un’interessante conversazione qualche anno fa) non manca di accenti pressoché razzisti contro i non indù e gli immigrati. Altre componenti del movimento e del partito sono assai più moderate e pragmatiche. Di fatto sono state queste ultime a prevalere (anche se non senza compromessi con le tendenze più estremiste) nella classe dirigente del BJP. Il primo ministro Vajpayee aveva saputo coniugare ultra-antico e ultra-moderno: simboli che risalgono ai Veda e ai poemi epici e una decisa modernizzazione dell’economia in direzione del libero mercato, con risultati economici da molti definiti straordinari.
Il rivale storico del BJP, il Partito del Congresso di Sonia Gandhi oggi al potere, guida un’eterogenea coalizione di forze unite dal richiamo al secolarismo e al laicismo anch’essi tipici di una certa tradizione indiana. Sonia Gandhi ha beneficiato del voto della minoranza cattolica promettendo l’abolizione delle leggi anti-missionarie: tuttavia in molti Stati queste rimangono in vigore, e la Gandhi ha potuto vincere solo mettendo insieme decine di partiti alcuni dei quali a loro volta fieramente anti-cattolici. Quanto al BJP, i suoi oltre ottanta milioni di elettori non sono certo tutti “fondamentalisti” con la bava alla bocca: molti votano BJP perché considerano i nazionalisti più competenti in economia e più onesti della coalizione guidata dal Partito del Congresso, la cui storia è segnata da gravi episodi di corruzione. Il BJP insieme rappresenta e in qualche modo controlla gli elementi più facinorosi della rinascita induista. La comunità internazionale deve chiedere a voce alta e con la necessaria severità a questo grande partito (che potrebbe tornare presto al potere in India) di condannare e isolare i violenti. Ma tagliare i ponti e interrompere il faticoso dialogo con il BJP che gli Stati Uniti e l’Europa hanno avviato da anni sarebbe invece un errore.


see u,
Giangiacomo

mercoledì 3 settembre 2008

Se i tagli sono una nuova sfida

Sono giustificati i tamburi di guerra di molti esponenti politici e rappresentanti di vari settori contro i tagli del ministro Tremonti, contenuti nella manovra economica in approvazione in questi giorni? Chi osservi il sistema italiano, anche prescindendo dal noto rapporto debito-Pil, vede alcune apparenti contraddittorie situazioni. La spesa pubblica per i servizi sociali, in percentuale sul Pil, è superiore in Italia rispetto ai principali Paesi europei, ma sta crescendo la disuguaglianza tra ricchi e poveri. Siamo il quarto Paese nell'Ocse per spesa per l'istruzione fino alla secondaria, ma la qualità della scuola italiana continua a peggiorare. La spesa per la sanità in Italia è in linea con quella dei Paesi più sviluppati, ma, se si eccettuano alcune Regioni virtuose, il rapporto risorse impiegate-qualità del servizio lascia spesso a desiderare. La spesa per le pensioni in Italia, rispetto al totale della spesa sociale, è molto più elevata se paragonata alla media europea, ma si dubita di poter assicurare la pensione alle generazioni future. E parlando del sistema produttivo, mentre l'impresa italiana continua ad aumentare la sua capacità di esportazione, il Pil non cresce. Perché?Quello che si dimentica, quando si è toccati in prima persona, è che lo statalismo centralista che affligge l'Italia significa rendita: politica di chi moltiplica i dipendenti pubblici e i finanziamenti a pioggia per assicurarsi il consenso; sindacale e associativa, di chi, nel corso degli anni, ha costruito privilegi per le sue corporazioni; di comodo, in chi rifiuta di essere valutato per quel che fa; da oligopolio, per le imprese decotte protette in modo artificioso. In diversi settori si spende male: si maschera come spesa per lo sviluppo e la solidarietà la spesa per alimentare la rendita, con il risultato che ad aumenti di spesa si associa un aumento dell'inefficienza e dell'iniquità. Certo, semplicemente tagliare non può bastare. Può però essere salutare se, mossi dalla necessità, si è spinti a una rivoluzione culturale che rifiuti lo statalismo e sposi il merito, l'iniziativa personale, la competizione virtuosa, la valutazione, la sussidiarietà, la costruzione di reti dal basso, la possibilità di reperire fondi privati per realtà pubbliche e soprattutto una nuova idealità che senta il bene comune come parte del proprio interesse. È una sfida che non possiamo rimandare perché perdendo tutto il Paese perderà anche la nostra vita personale, familiare, sociale.
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazioneper la Sussidiarietà

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Giangiacomo

Ecco come la finanziaria inciderà sul sistema universitario

Riporto un articolo del mio amico Tommaso Agasisti...

Il recente D.L. n. 112 contiene alcune disposizioni che incidono, in misura anche rilevante, sul sistema universitario. In particolare, le norme principali riguardano tre aspetti: (1) il blocco del turnover nell’assunzione di personale a tempo indeterminato, (2) la conseguente riduzione di fondi per il finanziamento ordinario (FFO) delle università, (3) la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
Il blocco del turnover appare una norma in forte controtendenza rispetto al processo di conferimento di maggiore autonomia alle università: impedire agli atenei di utilizzare liberamente le proprie risorse per l’assunzione a tempo indeterminato del proprio personale docente sembra configurare un ritorno della regolazione centrale in un sistema dove, invece, l’autonomia appare oramai un principio irrinunciabile. La legge attualmente vigente (legge 27 dicembre 1997, n. 449) impone un limite di buon senso, prevedendo che la spesa per assegni fissi per il personale non possa eccedere il 90% del trasferimento di FFO annuale; in altre parole, le università non possono spendere in stipendi più del 90% delle risorse trasferite dallo Stato. Molte università hanno oltrepassato questo limite, spesso con politiche di assunzioni irriguardose dei limiti finanziari, generando di fatto una rigidità dei loro bilanci che appare insostenibile (alcune università spendono il 100% dei loro fondi statali in stipendi!). La stessa legge 449/97 prevedeva che, in caso di superamento della soglia del 90% del FFO, scattasse un blocco automatico per le nuove assunzioni; tuttavia, poco è stato fatto dal lato dei controlli e la situazione è spesso degenerata. La norma contenuta nel DL n. 112 probabilmente vuole porre un rimedio a questo fenomeno, ma le modalità pratiche appaiono generiche e inefficaci, perché si applicano a tutti gli atenei in modo indifferenziato. Nei fatti, il provvedimento penalizza non le università che hanno speso male negli ultimi anni, ma quelle virtuose; quelle, cioè, in cui i costi del personale hanno una incidenza limitata sui bilanci. Questi atenei, che pure avrebbero la possibilità di assumere nuovo personale, con politiche di sviluppo anche mirate, si trovano invece limitate nella propria capacità di spesa. A questi atenei andrebbero lasciati margini di autonomia maggiore, non posti nuovi vincoli!
Il ragionamento di cui sopra si lega anche con il tema dei tagli finanziari. Il fatto che all’orizzonte si profilasse una riduzione dei finanziamenti statali per gli atenei era ampiamente prevedibile e, sotto il profilo della dinamica della spesa pubblica, si tratta di una prospettiva ineludibile anche per il prossimo futuro. In tutti i paesi industrializzati il trend in atto è quello di un contenimento della spesa pubblica nel settore universitario. Tale trend è giustificato sia dalle politiche restrittive di finanza pubblica comuni a tutti i paesi europei (e non solo); sia dalla natura di “investimento” dell’istruzione universitaria che rende opportuno un aumento dei contributi degli studenti sotto forma di maggiori tasse. I laureati, infatti, ottengono benefici in termini di migliori retribuzioni e di migliore status sociale che giustificano una loro ampia partecipazione ai costi della propria istruzione - a questo ovviamente affiancando strumenti efficaci per sostenere un reale diritto allo studio per studenti meritevoli a basso reddito. Inoltre, con riferimento alla spesa pubblica nel settore, i paragoni con i livelli di spesa degli altri paesi europei sono inutili: nessun altro paese ha un debito pubblico come il nostro, e l’esigenza di risanare e riqualificare la spesa pubblica richiede di effettuare tagli in tutti i settori, compreso dunque quello universitario. Richiedere più spesa pubblica, oppure richiedere di non includere il comparto universitario nei tagli, appare inutile e irrealistico. Il problema, dal punto di vista della finanza pubblica (e il DL . n. 112 assume questo punto di vista), non è “se” tagliare, ma “come” e “quanto” tagliare. Se sul “quanto” ovviamente è il dibattito politico che deve guidare le scelte, sul “come” la norma desta qualche perplessità. Infatti, ipotizzare un taglio lineare che colpisce tutti gli atenei indiscriminatamente significa definire un incentivo perverso: gli atenei che hanno speso meglio negli anni precedenti otterranno una riduzione del proprio finanziamento, esattamente proporzionale a quella degli atenei che hanno speso in modo dissennato. Ritengo, invece, che si dovrebbero differenziare i criteri di riduzione delle risorse statali destinate alle università, tagliando di più agli atenei che hanno speso male e mantenendo invece stabili i livelli di finanziamento delle università “virtuose”. Il problema diviene così quello di definire i criteri migliori per effettuare questa selezione; inutile, invece, sprecare tempo a chiedere più soldi. Se anche le forme di protesta riuscissero ad evitare i tagli quest’anno, che ne sarebbe l’anno prossimo? E l’anno ancora venturo? Ipotizzare una reiterazione negli anni della protesta, per avere qualche milione di euro in più all’anno (su un fondo di oltre 7 miliardi di euro…) sembra una strada francamente poco produttiva. Se si cominciasse a ragionare su criteri di spesa ritenuti “virtuosi” il dibattito sarebbe, probabilmente, più costruttivo.
Infine, la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni private può rappresentare uno stimolo al ripensamento di alcuni problemi delle nostre università. Prima di entrare nel merito è importante ricordare che questa proposta è stata avanzata, negli anni scorsi, da numerosi accademici nonché da vari esponenti politici di destra e di sinistra; è dunque ragionevole ipotizzare che questa idea abbia alcuni aspetti positivi. Così non è, chiaramente, per coloro che vedono nella trasformazione in fondazioni lo “smantellamento dell’università”; per essi infatti qualunque provvedimento in questa direzione sarebbe lesivo della natura “pubblica” dell’istruzione. I vantaggi che si potrebbero ottenere dalla trasformazione in fondazione sono, fondamentalmente, quelli di una maggiore flessibilità nella gestione e di un coinvolgimento di soggetti terzi, pubblici e privati, al finanziamento degli atenei. Occorre però non nascondersi dietro un dito: non è sufficiente ipotizzare la soluzione delle fondazioni per risolvere i vari problemi del sistema universitario, che rimangono aperti: modalità di reclutamento dei docenti, sistemi incentivanti di finanziamento per le performance della produttività scientifica, valutazione della qualità della didattica e della ricerca, ecc. Allo stesso tempo, però, occorre riconoscere che la trasformazione in fondazioni (che, ricordiamo, deve avvenire su base volontaria) potrebbe rappresentare, per le università più intraprendenti, la prima opportunità per differenziarsi, ricercando una maggiore autonomia ed una maggiore qualità.
Per concludere, ritengo dunque che il DL. n. 112 contenga, tutti assieme, elementi ineludibili (il contenimento della spesa pubblica), elementi discutibili e negativi (il blocco indiscriminato del turnover), ed elementi potenzialmente positivi (la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni). La natura del provvedimento, però, è di natura finanziaria e come tale deve essere trattato; la vera discussione intorno al settore universitario non può limitarsi ai soldi e alle regole amministrative, ma deve concentrarsi sugli aspetti “core”, come la qualità della didattica, della ricerca, della gestione delle proprie attività, la rilevanza internazionale dei nostri atenei, la valutazione dei docenti e delle strutture.
Quando si (ri)comincerà a parlare, ma soprattutto a riformare, in relazione a questi aspetti? Il timore è che, a forza di decidere (il Governo) o di lamentarsi (le università) avendo a mente solo la questione delle risorse finanziarie, si dimentichi che l’università è un’altra cosa.


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Giangiacomo

Lo scontro di civiltà con la fede al dito

La Chiesa cattolica italiana ha ormai una vasta esperienza di matrimoni misti fra cattolici e musulmani. Ha condotto diverse indagini interne, e dispone di enti come il Centro Federico Peirone a Torino che da anni sono vicini alle coppie miste. La disponibilità all’aiuto in tutti i casi concreti non significa che la Chiesa non segnali con realismo i rischi. Del resto, su questo punto la posizione dei vescovi italiani non è lontana da quella di un combattivo apologista dell’islam come Tariq Ramadan, il quale usa parole piuttosto severe nei confronti di quei musulmani che sposano un coniuge cristiano con una buona dose di superficialità, andando incontro nella maggior parte dei casi a un inevitabile fallimento.
Il problema è anzitutto teologico. La nozione del matrimonio non è la stessa nel cristianesimo e nell’islam. Il diritto islamico – sia pure con precisazioni e limitazioni – ammette la poligamia, e permette al marito di ripudiare la moglie semplicemente dichiarandolo, mentre la donna per divorziare deve passare attraverso un tribunale. Una musulmana non può sposare un uomo di un’altra religione; un musulmano può sposare una cristiana o un’ebrea ma dev’essere chiaramente stipulato che i figli saranno educati nella religione islamica. L’idea soggiacente è che il matrimonio non è, come per i cristiani, anzitutto un’istituzione di diritto naturale, per quanto elevata da Gesù Cristo alla dignità di sacramento. Per l’islam il matrimonio è un contratto rigorosamente normato dal Corano e dal diritto islamico, e l’idea che un musulmano sia coinvolto in un legame matrimoniale meramente “naturale”, non regolato dalla sua religione, non ha senso.
Quando questa mentalità entra in contatto con il diritto occidentale iniziano i problemi. Per cominciare, in Italia una donna ha diritto di sposare chi vuole, prescindendo dalla religione. Ma una donna musulmana che non sia cittadina italiana in pratica avrà molte difficoltà a sposare un non musulmano. Il suo consolato, nella maggior parte dei casi, le negherà il nulla osta matrimoniale. Se il fidanzato italiano non ha una forte identità cristiana si presenterà al consolato per una “falsa” conversione all’islam, che dimenticherà poco dopo il matrimonio, salvo però esporsi a un’accusa di apostasia ove dovesse tornare alla pratica del cristianesimo. In mancanza di conversione dello sposo più o meno fasulla, ci sono oggi sentenze dei nostri tribunali che permettono a donne musulmane straniere di sposarsi in Italia anche senza il nulla osta del Paese di origine. Ma per il loro Paese questo matrimonio è illecito, e se tornano in patria le conseguenze possono essere molto serie.
In realtà, in Italia sono più spesso donne cristiane a sposare immigrati musulmani. Non mancano casi di poligamia, i più gravi, perché il matrimonio poligamo per la legge italiana non esiste e la seconda (o terza, o quarta) moglie potrà essere ripudiata senza godere di alcuna tutela giuridica. La Chiesa sa però che anche i matrimoni misti monogamici spesso falliscono. L’uomo musulmano ha difficoltà a rinunciare all’idea del ripudio facile, evidentemente incompatibile con la nozione cattolica di matrimonio, e certamente non accetta che nel percorso educativo ai figli sia proposto il cristianesimo. Ha ragione – per una volta – Tariq Ramadan: il romanticismo non è un sostituto per la prudenza, e i richiami all’amore non bastano a superare una differenza culturale che si rivela nella maggior parte dei casi insormontabile.


see u,
Giangiacomo