mercoledì 16 giugno 2010

Donne vanno in pensione più tardi: è meglio per tutti (soprattutto per loro)

Tanto tuonò che piovve. Giovedì, la Commissione Ue ha trasmesso al Governo una nuova lettera di messa in mora sull’antica e sempre attuale questione delle pensioni di vecchiaia nel pubblico impiego (quelle pagate dall’Inpdap).

La riforma 2009 sull’età pensionabile delle donne del pubblico impiego – ammonisce l’Ue – non costituisce «esecuzione completa e adeguata della sentenza della corte di giustizia europea» (causa C-46/07), perché durante il periodo di transizione, da 60 (2009) a 65 anni (dal 2018) per equipararla a quella degli uomini, persiste il trattamento discriminatorio (penalizzati gli uomini). Cosa succederà adesso? La via obbligata sembra quella dell’accelerazione del processo d’innalzamento del requisito d’età di pensionamento alle donne (informalmente, pare che la Commissione sia d’accordo ad aspettare al massimo il 2012).

Un punto sul quale ha messo le mani avanti il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, spiegando che prima intende «discutere, perché è giusto dare alle donne il tempo di organizzare il proprio percorso di vita». Qualcosa di più si saprà lunedì prossimo, quando incontrerà il commissario Vivian Reding a cui chiederà «una preventiva consultazione di tutte le parti sociali».

Il ministro della funzione pubblica, Renato Brunetta, ha evidenziato come «si sapesse già che la nostra risposta non era stata considerata sufficiente» e non ha escluso, invece, interventi rapidi: «abbiamo il veicolo della manovra e vedremo come rispondere alla commissione e alla corte di giustizia Ue». Ha rassicurato tuttavia che «il governo risponderà in maniera collegiale» riservandosi prima di leggere le motivazioni.

Se è vero che l’esperienza insegna, questa lunga storia sul pensionamento delle donne del pubblico impiego è una lezione spicciola ma efficace: le “iniziative” di riforma non portano da nessuna parte. Cinque anni di discussioni tra Ue e Governi italiani per risvegliarci stamattina di nuovo al punto di partenza. Anzi, in una situazione peggiore perché la Commissione adesso ha fatto la voce grossa e, senza mezzi termini, ha chiesto l’eliminazione della differenza di trattamento. Ciò che occorre(va) è un “progetto” di riforma, non interventi “spot” come è stato l’anno scorso e come in un primo momento era previsto anche nella manovra correttiva appena entrata in vigore. Perché è soltanto con un “progetto” di riforma che si può evitare «di concedere alle persone della categoria sfavorita (gli uomini, ndr) gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata (le donne, ndr)» – cioè abbassare l’età di pensionamento agli uomini o calcolare le pensioni agli uomini in considerazione della stessa età pensionabile delle donne (gli anni in più saranno risarciti?), come è sottolineato nella nuova lettera di contestazione della Commissione.

La questione è relativa alla pensione di vecchiaia del solo settore pubblico, nonostante lo stesso regime pensionistico viga pure nel settore privato ritenuto però legittimo. Ma perché la differenza? Perché c’è una differenza nella “natura” delle due pensioni: quella pubblica è “retributiva”; quella privata “assicurativa” (tipica cioè del sistema previdenziale). Con quella natura, la pensione erogata dall’Inpdap rientra pienamente nel campo di applicazione dell’articolo 141 del trattato Ue, in base al quale ciascuno Stato membro è tenuto ad assicurare la parità di retribuzione, tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, per uno stesso lavoro o per lavori di pari valore.

Nel 2005, la Commissione rileva che in Italia tale parità non è garantita nel settore pubblico (Inpdap) dalla presenza di diverse età di accesso alla pensione nel settore pubblico (60 anni le donne e 65 gli uomini). Per questo il 13 novembre 2008 arriva la condanna ufficiale della corte di giustizia. La Commissione chiede chiarimenti il 23 dicembre dello stesso anno e il 26 giugno 2009 invia la prima lettera di costituzione in mora. Il Governo risponde il 7 luglio 2009 spiegando di avere elevato l’età di pensione alle donne con una legge che introduce gradualmente, fino al 2018, l’innalzamento a 65 anni come prevista per gli uomini.

Per la Commissione la soluzione è inadeguata: durante il periodo transitorio continua a persistere il trattamento discriminatorio. Il Governo già sapeva. Sarà forse anche per questo se, nella manovra correttiva di questi giorni, ha fatto capolino una norma di accelerazione (un anno ogni 18 mesi, in luogo di due anni come previsto oggi) dell’equiparazione a 65 anni (dal 2018 al 2016), che poi però non è entrata nel testo finale di legge. A marzo scorso, infatti, il Governo viene informato che l’Ue è orientata a non archiviare la procedura d’infrazione, sulla base del fatto che l’intervento legislativo del 2009, pur se apprezzato perché avente effetti migliori rispetto a quelli delle misure prese da altri paesi coinvolti nello stesso contenzioso (Francia e Grecia), lascia tuttavia persistere la disparità di trattamento. E viene avvertito che, per questa ragione, l’Ue invierà una nuova lettera di messa in mora complementare (quella arrivata giovedì), ultimo stadio della procedura d’infrazione prima del deferimento alla corte di giustizia per la richiesta di sanzioni pecuniarie. Adesso che la lettera è arrivata, rincuora sapere che la Commissione nulla ha contestato sulla rimozione retroattiva della discriminazione, aspetto che in un primo momento pure era stato preso in considerazione. Rincuora perché, se fosse stato contestato, adesso c’era da ragionare sugli effetti retroattivi a risalire dal mese di maggio del 1990.

La nuova contestazione non riguarda il principio di gradualità, o per lo meno non esso in via esclusiva. La questione è una: la discriminazione deve essere eliminata. Ed eccoci di nuovo al punto di partenza.

E qui, cinque anni (il tempo in cui la querelle va avanti), è un periodo sufficientemente lungo per permettersi di ipotizzare e mettere in atto un “progetto” di riforma, cosa che adesso il Governo dovrà mettere giù in un paio di mesi (guarda caso, è lo stesso tempo a disposizione per la conversione in legge della manovra correttiva).

La Commissione Ue ha fornito all’Italia l’indirizzo giurisprudenziale esistente in materia, quasi ad avvertire sul come muoversi.

La Corte Ue ha già detto, per esempio, che «(…) una volta che una discriminazione in materia di retribuzione sia stata accertata dalla Corte, e fintantoché non siano state adottate dal regime misure che ripristinano la parità di trattamento, l'osservanza dell'art. 119 può essere garantita solo concedendo alle persone della categoria sfavorita gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata». E anche che «(…) qualora, dopo aver constatato una discriminazione, un datore di lavoro ripristini la parità per il futuro, riducendo i vantaggi della categoria privilegiata, la parità da conseguire non può essere soggetta a condizioni di gradualità, che si risolverebbero, anche se solo temporaneamente, in una conservazione della discriminazione». Ed infine che «(…) l'elevazione dell'età pensionabile delle donne al livello di quella degli uomini, decisa da un datore di lavoro per eliminare una discriminazione in materia di pensioni aziendali, per quel che riguarda le prestazioni dovute per periodi lavorativi futuri, non può essere accompagnata da provvedimenti, sia pure transitori, destinati a limitare le conseguenze sfavorevoli che tale elevazione può avere per le donne».

Come dire: a buon intenditore poche parole. Con questi avvertimenti, in conclusione, è il caso di correre ai ripari della rapida equiparazione dell’età pensionabile: 65 anni, alle donne, già dal prossimo anno. Le donne capiranno; e poi, è risaputo, il settore del lavoro pubblico è un ottimo ammortizzatore sociale.

see u,
Giangiacomo

Stato e mercato, tandem virtuoso

(L’articolo è stato pubblicato dal quotidiano “Avvenire” del 16 giugno 2010)

Dario Antiseri

«Come è possibile che un ignorante come Hitler possa governare la Germania?», chiedeva esterrefatto Karl Jaspers a Martin Heidegger nel corso del loro ultimo incontro nel giugno del 1933. E Heidegger rispose: «La cultura è del tutto indifferente […] Basta guardare le sue meravigliose mani!». Qualche mese dopo, il 3 novembre dello stesso anno, in occasione del referendum popolare per l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni, Heidegger – rettore dell’Università di Friburgo – concludeva il suo Appello agli studenti tedeschi con queste parole: «Non teoremi e 'idee' siano le regole del vostro essere. Il Führer stesso, e solo lui, è la realtà tedesca dell’oggi e del domani, e la sua legge». Tredici anni più tardi, il 23 luglio del 1945, nella Friburgo occupata, Heidegger è chiamato a rispondere per la prima volta davanti alla Commissione di epurazione istituita dall’Autorità militare francese. E in questa Commissione l’impegno maggiore nell’accusa contro Heidegger venne sostenuto da pensatori come Constantin von Dietze, Walter Eucken, Adolf Lampe e Franz Böhm – rappresentanti di quell’economia sociale di mercato, che è stata a fondamento della rinascita della Germania e di cui oggi, da più parti, sempre più si scorge la portata etica, la validità teorica e la praticabilità politica. E proprio sulla genesi, sui principi e sull’eredità dell’economia sociale di mercato verte la serie di saggi inclusi nel volume Il liberalismo delle regole, appena edito da Rubbettino e arricchito da due preziose introduzioni dei due curatori, Francesco Forte e Flavio Felice. Delineano l’opera dei fondatori e gli sviluppi della tradizione friburghese dagli anni Trenta ai nostri giorni le istruttive pagine di Nils Goldschmidt e Michael Wohlgemuth. E ben scelti sono gli scritti teorici di Walter Eucken, Adolf Lampe, Constantin von Dietze e Wilhelm Röpke, come anche il saggio di Alfred Müller-Armack sulla politica economica realizzata, in base ai principi dell’economia sociale di mercato, da Ludwig Erhard. Il volume, che si chiude con una lunga recensione di Luigi Einaudi sul libro Civitas humana di Röpke, si apre con l’importante Manifesto dell’ordoliberalismo (1936) dal titolo Il nostro compito – scritto in collaborazione da Böhm, Eucken e Grossmann-Dörth. L’idea centrale sostenuta dai friburghesi è che il sistema economico deve funzionare in conformità con una 'costituzione economica' posta in essere dallo Stato. Scrive Eucken: «Il problema dell’economia non si risolve da se stesso, semplicemente lasciando che il sistema economico si sviluppi spontaneamente […]. Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito». Pensato e costruito nel senso di uno 'Stato forte' in grado di contrastare l’assalto contro il funzionamento del mercato da parte dei monopoli e dei cacciatori di rendite. Lo Stato, pertanto, viene ad assumere il compito di 'guardiano' dell’ordine concorrenziale che è un ordine costituzionale, «frutto di scelte tese a garantire al medesimo tempo il buon funzionamento del mercato e condizioni di vita decenti e umane». Dunque: uno 'Stato forte' che si situa all’opposto dello 'Stato totale'; un ordine economico costituzionale che è agli antipodi dell’ordine economico programmatico, cioè collettivistico.
La realtà è che statizzare l’uomo credendo di umanizzare lo Stato è un errore fatale. E se Viktor Vanberg – l’attuale direttore dell’Istituto Eucken – avvicina la tradizione di ricerca della Scuola di Friburgo al programma della Public Choice di James Buchanan, Flavio Felice fa notare come i tratti di fondo dell’economia sociale di mercato – soprattutto, ma non solo, con l’insistenza sul principio di sussidiarietà – rispondono alle istanze più classiche della Dottrina sociale della Chiesa. In effetti, «il liberalismo non è nella sua essenza un abbandono del Cristianesimo, bensì è il suo legittimo figlio spirituale». E ciò per la ragione che, «contrariamente alla concezione sociale dell’antichità pagana, il Cristianesimo pone al centro il singolo individuo […] Davanti allo Stato c’è ora la persona umana e sopra lo Stato il Dio universale, il suo amore e la sua giustizia».
Questo scrive Röpke, che, conseguentemente, si trova d’accordo con Guglielmo Ferrero allorché costui afferma che «l’azione rivoluzionaria del Cristianesimo fu di frantumare l’'esprit pharaonique de l’État'». Röpke, annota Francesco Forte, «aveva ricavato il principio di sussidiarietà dalla dottrina cattolica»; e aggiunge che questo principio, «che sfocia nell’intervento conforme al mercato», lega in modo strettissimo la teoria di Röpke a quella di Eucken, il quale nei suoi Grundsätze der irtschaftspolitik (Principi di politica economica) fa pure lui esplicito riferimento alla Rerum novarum di Leone XIII e alla Quadragesimo anno di Pio XI.

see u,
Giangiacomo