lunedì 27 agosto 2007

La compagnia, Vasco Rossi

In un pazzo e massacrante viaggio da Milano a Specchia (Le), lo scorso 10 Agosto 2007, ho imparato ad ascoltare "La Compagnia", uno degli ultimi remake di Vasco Rossi.
Ve la propongo...

Mi sono alzato
mi son vestito
e sono uscito solo solo per la strada
Ho camminatoa lungo senza meta
finché ho sentito cantare in un bar
finché ho sentito cantare in un bar.
Canzoni e fumo
ed allegria
io ti ringrazio sconosciuta compagnia.
Non so nemmeno chi è stato a darmi un fiore
Ma so che sento più caldo il mio cuor
So che sento più caldo il mio cuor
Felicità.
Ti ho perso ieri ed oggi ti ritrovo già
Tristezza va
una canzone il tuo posto prenderà
Abbiam bevuto
e poi ballato
è mai possibile che ti abbia già scordato?
Eppure ieri morivo di dolore
ed oggi canta di nuovo il mio cuor
oggi canta di nuovo il mio cuor.
Felicità
Ti ho perso ieri ed oggi ti ritrovo già
Tristezza
va una canzone il tuo posto prenderà.

see u,
Giangiacomo

domenica 26 agosto 2007

Don Giussani, la certezza nella povertà

Una mia grandissima amica mi ha regalato un libro ieri.
Ho pensato di rendervene partecipi con una piccola recensione.

Esistono uomini che, chi di schianto chi più lentamente, hanno operato una rivoluzione nel modo consueto di considerare la realtà. Uomini che, in tutta semplicità, si sono arresi a uno sguardo diverso, più profondo, che il duro rapporto con il reale imponeva loro. Questi uomini si sono chiamati, per esempio, Copernico, Pascal, Einstein, forse anche Lutero. Gli anni mi convincono sempre più che uno di questi uomini è stato anche don Luigi Giussani, di cui Rizzoli-Bur presenta il secondo volume della serie «L´Équipe», che raccoglie alcune conversazioni del grande sacerdote con un gruppo di studenti universitari: Certi di alcune grandi cose 1979-1981 (pagg. 500, euro 11,80, prefazione di J. Carron).
Il libro è un'autentica miniera di indicazioni per chiunque cerchi un significato al proprio vivere, «il significato e la forma del rapporto affettivo o dell'uso delle cose o del modo di guardare la natura, il tempo, lo spazio, il proprio progetto futuro o il proprio passato», e desideri verificare come Cristo sia la risposta non psicologica o sentimentale, ma reale e drammatica a questi interrogativi.Io mi soffermo qui su un aspetto toccato con grande discrezione, ma portatore di conseguenze culturali enormi. Riguarda i concetti di povertà, umiltà e certezza. Secondo la vulgata nella quale tutti siamo immersi, l'uomo che ha certezze è un uomo tronfio, superbo, sempre sottilmente e talora anche apertamente violento. Mentre solo l'uomo dubbioso, o come si dice oggi «in ricerca», è capace di vera ricerca poiché non ha il diritto di sentirsi superiore a chicchessia. Secondo questa chiave, che nessuno o quasi mette oggi in discussione (del resto non si discute quasi di niente), vengono letti i diversi ambiti del reale: politica, società, cultura, guerre e scontri di civiltà.
Don Giussani rovescia completamente questa lettura. Per essere certi, dice, occorre essere poveri, «perché la certezza vuol dire un abbandono di sé (mentre l'uomo dubbioso se ne sta abbarbicato a se stesso e non si abbandona nemmeno un istante, ndr), vuole dire superamento di sé, vuole dire che io sono piccolino, sono niente, e la cosa vera e grande è un'altra: questa è la povertà».Il nostro mondo rispetta i preti quando intervengono entro il proprio ambito prefissato. Quando invece lanciano provocazioni e giudizi culturali, e dunque con la pretesa di interrogare la coscienza (religiosa ma anche civile, culturale) di tutti, allora scatta il pregiudizio, forte oggi più che mai: in fondo, sono solo frasi «da prete». Ma l'osservazione di don Giussani vale per tutti gli ambiti dell'umano, per ogni seria ricerca, per ogni vera avventura del pensiero. Tuttavia è sempre più necessario lottare affinché una posizione come questa non si perda, perché la direzione attuale è tutt'altra. Tant'è che, per sentire ancora parole come queste, occorre andarle a cercare, il nostro mondo non le mette a portata di mano (del resto, meglio così).

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Giangiacomo

Gelmini, i cattolici spezzano l’assedio

«Sudditanza al laicismo, ora basta»

Articoli su articoli, dissertazioni sullo spinosissimo tema della pedofilia, balbettii autocritici da parte di autorevoli tonache. Il caso Gelmini sembra mostrare il lato debole della Chiesa italiana e ripropone un quesito ricorrente: c’è in Italia una cultura laicista che sfrutta tutte le occasioni per mettere in difficoltà il già fragile popolo di Dio?
Vittorio Messori, lo scrittore cattolico più noto al mondo, non fa sconti a nessuno: «Noi abbiamo importato dagli Usa l’ossessione per la pedofilia. La Chiesa americana, quella politicamente più corretta, più all’avanguardia, più liberal, ha aperto a tutto: dal sacerdozio delle donne ai preti gay. Risultato: il conformarsi alla logica del mondo ha portato nei seminari tanti omosessuali, che da sempre cercano ambienti maschili come i seminari e le caserme, con relativa, inevitabile esplosione degli scandali. D’altra parte laggiù l’attacco alla Chiesa è diventato un business a colpo sicuro. Molti avvocati invitano i fedeli a denunciare preventivamente i preti, che a differenza dei pastori protestanti hanno alle spalle diocesi ricche: le diocesi, spaventate, pagano anche quando si sa che i sacedoti sono innocenti».
Un meccanismo perverso, a sentire l’autore di Ipotesi su Gesù, che è costato al clero americano cifre stratosferiche. «Da noi - riprende Messori - il caso don Gelmini dà ovviamente voce ai tanti moralisti laici e laicisti su piazza che colgono l’occasione per puntare il dito contro la Chiesa cattolica. Ma questo credo sia normale». Nessun complotto, dunque. «Piuttosto, - riprende Messori - come mai la pedofilia emerge con percentuali uguali nelle chiese protestanti dove tutto è permesso? Invece, qua da noi si parla di don Gelmini e dello scandalo dei preti di Torino per dire che è tutta colpa della Chiesa retriva e conservatrice che impone il celibato. Purtroppo il matrimonio fra i preti non risolve il problema, perché l’ottanta per cento dei casi riguarda pratiche omosessuali».
Forse, il tema di fondo è un altro: la Chiesa deve tornare ad annunciare Cristo, senza se e senza ma come si dice oggi? E forse, quando lo fa, rischia l’emarginazione? Ruota intorno a questi quesiti la riflessione di don Luigi Negri, vescovo di San Marino: «Io noto che don Gelmini è uno che ci crede. Nel senso che porta la fede fino alle estreme conseguenze sociali e culturali. Per lui la fede non è un fatto privato, personale, ma un modo di affrontare la vita. Questo obiettivamente dà fastidio ad una mentalità laicista che mal digerisce un cristianesimo integrale». Ma c’è di più; per il vescovo di San Marino c’è un’ala nella Chiesa che si presta a questo gioco distruttivo: «Un conto è il popolo di Dio che ha ben saldi i suoi riferimenti, altra cosa è l’ecclesiasticità che talvolta va in ordine sparso. Tante vicende, anche questa di don Gelmini, dimostrano, al di là delle eventuali responsabilità di don Pierino di cui non so nulla, una subalternità, consapevole o no, di parte dell’ecclesiasticità al pensiero dominante, un desiderio sconfortante di compiacere la cultura laica».
Monsignor Negri non fa nomi, ma certo il retropalco del caso è stato affollato in questi giorni da personalità del mondo ecclesiastico: il cardinal Francesco Marchisano ha invitato don Pierino a farsi da parte in attesa di un chiarimento, don Ciotti si è detto equidistante dal sacerdote e dalle sue presunte vittime, don Mazzi è stato addirittura convocato dalla Procura di Terni come teste dell’accusa. La vicenda ha provocato contraccolpi anche all’interno del mondo cattolico, anche se in superficie è più difficile leggere i segni di questo conflitto. E allora affiora il disagio, la speranza che tutto finisca in fretta senza altri danni. Come dice Salvatore Nummari, arcivescovo di Cosenza: «Da amico invito don Pierino ad avere fiducia nella magistratura. Senza troppe esternazioni».

di Stefano Zurlo, Il Giornale, lunedì 13 agosto 2007

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Giangiacomo

Il corporativista cattolico di J.A. Schumpeter

LA SVOLTA CORPORATIVISTA DEL PENSIERO DI J.A. SCHUMPETER
Quando l'economista austriaco si schierò, a sorpresa, a favore di un sistema economico fondato sul corporativista cattolico
di Carmelo Ferlito

Ho letto con grande interesse il contributo di Giampiero Ricci sul Secolo d'Italia dell'8 luglio a proposito del grande economista austriaco Joseph A. Schumpeter, mio primo amore nell'ambito del pensiero economico, conosciuto grazie agli insegnamenti del prof. Sergio Noto, dell'Università di Verona. Al pensiero del più dandy degli economisti ho dedicato diversi anni, potendomi confrontare a tal proposito anche con Paolo Sylos Labini, che fu suo allievo ad Harvard tra il 1949 ed il 1950. Quando si parla di Schumpeter si sottolineano sempre alcune cose: il ruolo innovatore dell'imprenditore, la teoria dei cicli, la visione secondo cui il capitalismo sarebbe crollato per il clima ostile ad esso maturato in seno alla borghesia. Eppure è poco noto al grande pubblico il testo di una conferenza in cui l'economista austriaco, cinque anni prima di morire, stupendo tutti gli studiosi del suo pensiero, si schierò a favore di una svolta corporativa del sistema economico. Si tratta di conferenza tenuta da Schumpeter a Montréal nel 1945 (L'avenire de l'enterprise privée devant les tendances socialistes modernes), durante la quale egli giunse ad auspicare l'instaurarsi di un sistema economico fondato sul corporativismo cattolico, così come delineato dalla enciclica Quadragesimo anno di Papa Pio XI (1941). Ma andiamo con ordine. Schumpeter parte smentendo le analisi negative sul capitalismo: i Paesi capitalistici dimostrano avere saggi di crescita importanti e l'incremento globale del prodotto non è maturato in modo sfavorevole alla classe operaia. Ne segue che il progresso materiale della classe operaia è legato ai successi dell'impresa privata: la lotta di classe non è dunque una buona teoria dei rapporti industriali. La riflessione dell'economista austriaco prosegue nella sottolineatura che è errato parlare di lotta delle classi, perché il «fascio delle forze che fanno funzionare l'organismo sociale contiene elementi di solidarietà e di antagonismo». Per il procedere di ogni gruppo e dell'intera società, secondo Schumpeter, gli elementi di cooperazione e di antagonismo devono necessariamente convivere. Il Nostro aggiunge che in una società normale questi elementi si integrano in modo armonioso nel quadro di una cultura e di una fede comuni, le quali impediscono l'accentuarsi degli antagonismi. Pertanto egli sottolinea come la crisi del capitalismo che ha sotto gli occhi non sia altro che un ambito di manifestazione di una più grave crisi sociale, le cui cause non devono essere ricercate nell'ambito strettamente economico; piuttosto le «famiglie, le officine, le società non funzionano se nessuno accetta i propri doveri, se nessuno sa farsi accettare come leader e se ciascuno è intento a tracciare il bilancio dei propri vantaggi e svantaggi personali e immediati ad ogni istante». Quindi, la crisi economico-sociale è una crisi strutturale, che affonda le radici proprio nella mentalità classista e conflittuale: viene a mancare la percezione di appartenenza ad uno stesso corpo (che è culturale e spirituale prima che economico), integrato nel cammino comune verso il medesimo Destino. Tale crisi va ricercata, a detta del Nostro, nella filosofia utilitaria dell'Ottocento: e, a ben guardare, è proprio da essa che il classismo marxista attinge la propria linfa scientifica. Cosa propone Schumpeter? «Bisognerà ricorrere all'organizzazione corporativa nel senso auspicato dall'enciclica Quadragesimo anno. […] Tale dottrina […] riconosce tutti i fatti dell'economia moderna. […] Il principio corporativo organizza ma non irregimenta. Si oppone a ogni sistema sociale a tendenza centralizzatrice e a ogni irregimentazione burocratica; in effetti, è il solo modo per rendere impossibile quest'ultima». Ma ciò non è sufficiente. Il «Papa non parlava «delle nuvole». Ci mostrava un metodo pratico per la soluzione di problemi pratici e di urgenza immediata. Sono precisamente i problemi che, a causa dell'incapacità di risolverli del liberalismo economico, richiedono l'intervento del potere politico. […] Non si può negare che per riuscire bisognerà per prima cosa risolvere il problema organizzativo. Ma c'è inoltre una difficoltà molto più grave. In una società in via di decomposizione lo statalismo centralista e autoritario tende a realizzarsi da solo. Sopraggiunge come risultato logico di tale decomposizione, semplicemente sostituendo con il meccanismo burocratico i meccanismi del laisser-faire a mano a mano che essi smettono di funzionare. Basta non far nulla per assicurarne non il successo ma la vittoria. Ora, il corporativismo associativo non è una cosa meccanica. Non può essere imposto o creato dal potere legislativo. Non tende a realizzarsi da solo. Può nascere soltanto dall'azione degli uomini liberi e da una fede che li ispiri. Per fondarlo e garantirne il successo ci vogliono volontà, energia, un senso nuovo di responsabilità sociale. Dovrà lottare contro ostacoli formidabili e questo in un mondo la maggior parte del quale è già dominata da un dittatore bolscevico. Ma il suo problema fondamentale, nonché la sua gloria, si riassume nel fatto che, più ancora che una riforma economica e sociale, esso implica una riforma morale». A ben guardare, il passo citato ci mostra che si cercano delle soluzioni economiche ma si colgono tutte le implicazioni extra-economiche del caso. Ecco che il corporativismo viene ad essere per Schumpeter una magnifica realizzazione: concretamente, supera la contrapposizione di classe, riorganizzando la società in modo orizzontale, in antitesi al sistema verticale in vigore. Ma l'economista austriaco, essendo uomo acuto, coglie i limiti di un'imposizione verticistica della soluzione e coglie, forse inconsciamente, la grandezza di un'epoca unitaria come il Medioevo. Come delineato da Attilio Mordini (Il cattolico ghibellino, Roma, Settimo Sigillo, 1989 e Il Tempio del Cristianesimo. Per una retorica della Storia , Rimini, Il Cerchio, 2006), il Medioevo, nella sua mistica unità imperiale, manifesta un ordine finalisticamente impostato: ogni persona è orientata al rapporto col Mistero, e ciò è vero anche nelle edificazioni temporali dell'uomo, anche in ciò che è economico e sociale. L'impero in politica e le corporazioni in economia sono un segno di questo. È con l'umanesimo che inizia quel processo di disarticolazione culturale che porterà l'uomo a rifiutare gradualmente il suo rapporto con il Mistero. Il processo culminerà nella Rivoluzione Francese, nello scardinamento delle strutture tradizionali, nel modernismo. Come evidenziato da Evola ( Nazionalismo e collettivismo, in Europa una: forma e presupposti, Roma, Fondazione Julius Evola, 1996, pp. 14-16), dopo la bufera napoleonica, con la Santa Alleanza, Metternich ed il Congresso di Vienna, l'Europa avrebbe potuto voltare pagina e restaurare il proprio orientamento tradizionale, ma mancarono soprattutto i presupposti spirituali e uomini all'altezza del compito. Schumpeter lo aveva capito. Nel riferirsi al corporativismo non a caso si rifà agli insegnamenti di Pio XI, che affondano direttamente nella tradizione medievale. Il centro della questione, dunque, non è di matrice strettamente economica: perché le dinamiche cooperative superino con efficacia quelle di antagonismo è necessario che un popolo condivida una struttura spirituale. Non una morale od un'etica, ma una coscienza, la consapevolezza di un'appartenenza comune e di un Destino condiviso.
"RINASCITA", 7 agosto 2007, p. 15

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Giangiacomo

sabato 25 agosto 2007

Quei giocattoli figli di una Cina senza diritti

Continuano negli Stati Uniti e in Europa i sequestri di prodotti cinesi, soprattutto giocattoli, che contengono componenti pericolose e persino potenzialmente velenose, o che non sono stati prodotti secondo le norme che proteggono i consumatori in Occidente. Il problema non è soltanto ecologico o economico: è anche politico e morale. Se ne discute da tempo fra organizzazioni favorevoli e contrarie a gesti di protesta in occasione delle prossime Olimpiadi di Pechino.
Nel nuovo capitalismo cinese, a successi straordinari si accompagnano tragedie come quella del lavoro minorile ad alto ritmo e del numero più alto del mondo di incidenti sul lavoro, spesso mortali. Una buona percentuale della popolazione ha un reddito sotto la soglia di sopravvivenza (un dollaro al giorno) fissata dal Fondo Monetario Internazionale; la disoccupazione reale è probabilmente al 20%; il numero di suicidi è altissimo e l’aspettativa di vita bassa perché non esiste più un’assistenza medica gratuita e molti si scontrano con il duro rifiuto degli ospedali di curare chi non può pagare, continuando a lavorare anche se le condizioni di salute lo sconsiglierebbero. È da questa fretta di obbedire al precetto del defunto riformatore Deng Xiaoping - «Arricchitevi» - che nascono anche i prodotti fatti male o pericolosi.
Molti in Cina rispondono che il loro capitalismo si ispira al modello statunitense, non a quello europeo. Ma in America un tessuto di leggi che in Cina non ci sono garantisce i diritti sociali, e in tanti settori - anzitutto quello sanitario - svolgono un’attività di supplenza le religioni e le Chiese (di cui l’ultimo, spietato film di Michael Moore si dimentica di parlare). Non è così in Cina, dove non esiste libertà religiosa, nonostante qualche apertura recente ancora troppo timida.
Forse si devono cominciare a esaminare insieme le tre dimensioni del problema Cina: economica, sociale e religiosa. L’errore di molti occidentali consiste nel separarle. Così a chi ha giustamente fretta di difendere i sacerdoti cattolici incarcerati, sembra una perdita di tempo parlare di economia; mentre a chi si preoccupa per l’invasione dei giocattoli pericolosi, quelli della libertà religiosa o dei diritti sociali appaiono problemi da idealisti. Non è così.
La strategia degli Stati Uniti, diversa da quella europea, mostra che solo picchiando là dove fa male - cioè organizzando puntuali campagne sulla situazione dei diritti umani in Cina - si crea un clima che costringe i cinesi a fare concessioni anche là dove si sentono più forti, cioè nel mercato globale e nei grandi numeri delle esportazioni.
Non si tratta dunque di cessare i rapporti con la Cina (una prospettiva suicida sul piano economico e commerciale, e oggi del tutto irrealistica) ma di muoversi sul piano internazionale della richiesta di controlli sull’esportazione cinese senza mai disgiungere le richieste dell’Occidente da rivendicazioni etiche. Il trattamento dei prodotti cinesi dovrebbe dipendere, oltre che ovviamente dalla loro conformità alle norme di sicurezza, da come la Cina tratta i suoi lavoratori, e non solo sul posto di lavoro ma anche in piazza e in chiesa. Gli accordi internazionali non consentono più dazi di tipo protezionistico. Ma si può pensare a un «dazio etico» come serie di misure che costringano la Cina a ripensare l’intera questione dei diritti umani, insistendo su quella dimensione etica del lavoro su cui anche nella recente lettera ai cattolici cinesi ha attirato l'attenzione Papa Benedetto XVI.

di Massimo Introvigne (il Giornale, 25 agosto 2007)

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Giangiacomo

La Famiglia quale unità eroica

La Famiglia quale unità eroica. Riscoprirne il concetto più alto e originario
di Julius Evola
"Fedeltà Monarchica", anno X, n. 3, aprile 1970

Uno dei pericoli che minacciano le correnti di reazione contro le forze di disordine e di corruzione che stanno devastando la nostra civiltà e la nostra vita sociale, è di andare a finire in forme poco più significanti, se non di addomesticamento borghese. E' stato denunciato più di una volta il carattere di decadenza che il moralismo presenta di fronte ad ogni superiore forma di legge e di vita.
In realtà, affinché un "ordine" abbia valore, esso non deve significare né routine né spersonalizzante meccanicizzazione. Bisogna che esistano delle forze originariamente indomite, le quali conservino in una qualche maniera e misura questa loro natura anche presso la più rigida aderenza ad una disciplina. Solo allora l'ordine è fecondo. Con una immagine, potremmo dire che allora accade come per una miscela esplosiva o espansiva, la quale appunto quando è costretta in uno spazio limitato sviluppa la sua estrema efficacia, mentre nell'illimitato quasi si dissipa. In tal senso Goethe ha potuto parlare di un "limite, che crea" ed ha potuto dire che nel limite si dimostra il Maestro. Occorre poi appena ricordare che nella visione classica della vita l'idea di limite - pèras - si confondeva con quella stessa di perfezione e si poneva come il più alto ideale non solo etico, ma perfino metafisico.
Queste considerazioni potrebbero essere applicate a vari domini. Veniamo qui ad un caso particolare: quello della famiglia.
La famiglia è una istituzione che, erosa dall'individualismo dell'ultima civiltà cosmopolita, minata alle basi dalle premesse stesse del feminismo, dell'americanismo e del sovietismo, si vorrebbe ricostruire. Ma anche qui si pone l'accennata alternativa. Le istituzioni sono come forme rigide nelle quali una sostanza originariamente fluente si è cristallizzata: è questo stato originario che si deve ridestare, quando le possibilità vitali inerenti ad un determinato ciclo dl civiltà appaiono esaurite. Solo una forza che agisca dall'interno, come un significato, può esser creatrice. Ora, a quale significato si deve riferire la famiglia, in nome di che si deve volerla e preservarla?
Il significato usuale, borghese e "perbene" di questa istituzione è noto a tutti, e qui vale meno l'indicarlo, quanto il rilevare che assai scarso sostegno esso potrebbe fornire ai fini di una nuova civiltà. Potrà esser bene tutelarne i residui esistenti, ma è inutile nascondersi, che non è di questo che si tratta, che questo è un "troppo poco". Se si vuole trovare una delle non ultime cause della corruzione e della dissoluzione familiare sopravvenuta nei tempi ultimi, essa può esser indicata appunto nello stato di una società, ove la famiglia si è ridotta a non significare nulla più che questo: convenzione, borghesismo, sentimentalismo, ipocrisia, opportunismo.
Anche qui, solo col riportarsi direttamente e risolutamente non allo ieri, ma alle origini, noi possiamo trovare ciò che veramente ci occorre. E queste origini, a noi dovrebbero essere accessibili. In modo particolare, se la tradizione nostra, romana, della famiglia, è fra quelle che han portato ad espressione il concetto più alto e originario di essa.
Secondo la concezione originaria, la famiglia non è una unità né naturalistica, né sentimentale, ma essenzialmente eroica. E' noto che l'antica denominazione di pater deriva da un termine, che designava il duce, il re. L'unità della famiglia già per questo appariva dunque come quella di un gruppo di esseri virilmente stretti intorno ad un capo, che ai loro occhi appariva rivestito non di un bruto potere, bensì di una maestosa dignità, incutente venerazione e fedeltà. Questo carattere resta senz'altro confermato, se si ricorda che nelle civiltà indoeuropee il pater - oltreché il duce - è colui che in tanto esercitava una potestà assoluta sui suoi, in quanto era in pari tempo assolutamente responsabile per i suoi di fronte ad ogni superiore ordine gerarchico - era anche il sacerdote della sua gens, colui che più di ogni altro la rappresentava di fronte al divino, il custode del fuoco sacro il quale nelle famiglie patrizie era simbolo di una influenza sovrannaturale invisibilmente congiunta al sangue e trasmettentesi con questo stesso sangue. Non molli sentimenti o sociali convenzionalismi, ma qualcosa fra l'eroico e il mistico fondava dunque la solidarietà del gruppo familiare o gentilizio, facendone una sola cosa secondo rapporti di partecipazione e di virile dedizione, pronta ad insorgere compatta contro chi la ledesse o ne offendesse la dignità. Con ragione il De Coulanges. come conclusione dei suoi studi in proposito, ebbe dunque a dire che la famiglia antica era una unità religiosa, prima di esser una unità di natura e di sangue.
Che il matrimonio fosse un sacramento già assai prima del cristianesimo (come p. es. la rituale confarreatio romana), e cosa forse già nota ai lettori. Meno lo è però l'idea, che questo sacramento non valeva come cerimonia convenzionale o formula giuridico-sociale, quanto come una specie di battesimo che trasfigurava e dignificava la donna portandola a partecipare della stessa "anima mistica" della gente del suo sposo. Secondo un rito indoeuropeo, assai espressivo come simbolo, prima che di esso, la donna doveva essere di Agni, il fuoco mistico della casa. Ora, non è diverso il presupposto originario, per cui lo sposo si confondeva col Signore della donna, e si stabiliva quel rapporto, di cui la borghese fedeltà non e che il derivato decadente e depotenziato. L'antica dedizione della donna che tutto dà e nulla chiede è espressione di un eroismo essenziale, assai più mistico o "ascetico", vorremmo dire, che non passionale e sentimentale e, in ogni caso, trasfigurante. All'antico detto:
Non vi è rito o insegnamento speciale per la donna. Che essa veneri il suo sposo come il suo dio, ed essa otterrà la sua stessa sede celeste

fa quasi riscontro, in un'altra tradizione, la concezione secondo la quale la Casa solare dell'immortalità, oltrechè ai guerrieri caduti sul campo di battaglia e ai capi di stirpe divina, era riservata alle donne morte nel dare alla luce un figlio: in ciò essendo considerata un'offerta sacrificale cosi transumanante, quanto quella stessa degli eroi.
Ciò potrebbe già condurre a considerare il significato stesso del generare, se un tale soggetto non dovesse condurci troppo lontano. Ricorderemo solo l'antica formula, secondo la quale il primogenito era considerato come figlio non dell'amore, ma del dovere. E questo dovere era, nuovamente, di carattere sia mistico sia eroico. Non si trattava solo di creare un nuovo rex per il bene e le forze del ceppo, ma anche di dare alla vita chi potesse assolvere quell'impegno misterioso di fronte agli avi e a tutti coloro che fecero grande una famiglia (nel rito romano, spesso ricordati in forma di innumerevoli imagini portate nelle occasioni solenni) di cui il fuoco familiare perenne era l'equivalente simbolico. Per tal via, in non poche tradizioni troviamo formule e riti, i quali ci fan nascere l'idea di una vera e propria generazione cosciente, di un generare non con un oscuro e semi-conscio atto della carne, ma col corpo e in pari tempo con lo spirito, dando - in senso letterale - la vita ad un nuovo essere, per il quale, in ordine alla sua funzione invisibile, veniva persino detto, che per sua virtù gli avi saranno confermati nell'immortalità e nella gloria.
Da queste testimonianze, che sono alcune fra le tante che facilmente possono esser raccolte, promana una concezione dell'unità familiare che, come sta di là da ogni mediocrità borghese conformista e moralista e da ogni prevaricazione indvidualistica, in ugual misura sta di là dal sentimentalismo, dalla passionalità e da tutto ciò che è bruto fatto o sociale, o naturalistico. Un fondamento eroico è quello che può dare la più alta giustificazione alla famiglia. Comprendere che l'individualismo non è una forza, ma una rinuncia. Nel sangue, riconoscere una salda base. Articolare e personalizzare questa base con forze di obbedienza e di comando, di dedizione, di affermazione, di tradizione e di solidarietà diremmo persino guerriera e, infine, con forze di intima trasfigurazione. Solo allora la famiglia tornerà ad essere una cosa vivente e possente, cellula prima ed essenziale per quel più alto organismo, che è lo stesso Stato.

see u,
Giangiacomo

It’s cool enough to change the world

Riporto alcuni passi dello speech tenuto dal mio amico Antonio D. con Cony Manzano all’Università di Notre Dame, Indiana, USA, in data venerdì 27 luglio, in occasione della Graduation Ceremony del Phoenix Institute.

One of the feelings we share is the responsibility of not loosing everything that we received. We have a commitment to God, to the Phoenix Institute and to ourselves, to keep up with everything we learnt.
Indeed we learnt that the western culture is not only about Europe, but there is a common ground of this culture which we share with Palestine, Mexico, Colombia, America, Chile, etc.. but the most important thing we take from this three summers and the Phoenix Institute is the awareness that our country’s future depends on our decision to put in practice everything we absorbed not only in the classroom but in every conversation and of course in every prayer we did to our Lady at the Grotto.
After every class, every dialogue, we must bring things down to earth. The message we want to send to you is that we have a great commitment, to be witness of what the Institute transmitted to us. Overall, if we go back home and forget our promises, our will to change the world, we would have been lying to ourselves and to our friends we met here.
(…)
In the same way, we can assure you that after all we lived; we are not the same persons that began this course three years ago. Dear third year students: now our major task is to be an example to the ongoing phoenix institute students, to the one’s who we are further inviting, but most of all to those persons who will never have the opportunity to come to Notre Dame and live this experience.And this task is nothing compared to the nights spent in front of the computers in the library writing a paper. So there’s no excuse.
It is not easy, we are maybe not going to end with violence, war, corruption, unemployment, political hatred, and so many conflicts that characterize the world we were assigned to endure. But we think it is worth it to give it a try.
(…)
Thank you friends, each one of you whom with we had a personnel encounter, we have no doubt about meeting you again.


see u,
Giangiacomo

mercoledì 22 agosto 2007

Lo statalista Prodi tradisce la Chiesa

Il balletto dei politici di centro-sinistra intorno all'intervento del cardinale Bertone a Rimini - che ha definito un dovere «pagare le tasse», ma a condizione che corrispondano a «leggi giuste» - per cercare di dimostrare che in realtà il segretario di Stato vaticano voleva dare ragione a loro ha davvero raggiunto il colmo dell'ipocrisia con la dichiarazione vacanziera di Prodi, il quale si è detto «d'accordo su tutto» con il porporato. Come già a proposito delle uscite su Hamas e sui Rom, il gioco dell'estate è capire se il premier «ci è» o «ci fa». Ma siccome il cardinale Bertone ha fatto ampi riferimenti nel suo discorso alla dottrina sociale della Chiesa, che Prodi conosce, è difficile stavolta accordargli la buona fede.
Su quali leggi fiscali siano «giuste» il patrimonio di documenti pontifici noto come dottrina sociale della Chiesa non è avaro d'indicazioni, anzi è molto preciso. Fa riferimento a tre principi: solidarietà, moralità e sussidiarietà. Il principio di solidarietà è quello secondo cui tutti devono contribuire al bene comune, specie a vantaggio dei più deboli e dei più poveri, e non è lecito tirarsi indietro per ragioni egoistiche. Qui si situa la tradizionale critica cattolica dell'evasione fiscale, dove tra l'altro la parola «evasione» assume anche un significato analogo a quello che ha in espressioni come «letteratura di evasione» e simili. La Chiesa condanna una mentalità in cui non solo e non tanto si evadono le tasse, ma - nei casi di leggi ingiuste e di governi iniqui - si finge di poter evadere dalle tasse, rifugiandosi in una immaginaria dimensione «apolitica» dove l'evasione fiscale, come mentalità e come costume, è alternativa rispetto a una più consapevole ed efficace «protesta fiscale». Più che «evadere» individualmente, di fronte a forme di persecuzione fiscale il cittadino consapevole dovrebbe protestare collettivamente e operare per far cessare la persecuzione cambiando il governo.
La critica dell'evasione - nei due sensi del termine - si accompagna però alla condanna delle «leggi ingiuste». Qui entrano in gioco gli altri due principi. Per il principio di moralità il governo che chiede tasse elevate deve dimostrare di spendere il denaro pubblico secondo altrettanto elevati principi morali e criteri di oculatezza. Diversamente, il suo diritto alla solidarietà dei cittadini viene meno e, come insegnava Giovanni Paolo II, «il crollo della moralità porta con sé il crollo della società». Per il principio di sussidiarietà, cui i governi sono - sempre secondo Papa Wojtyla - «gravemente obbligati ad attenersi», lo Stato non deve assorbire attività e risorse che non gli competono e che una corretta valutazione del bene comune indurrebbe a lasciare ai privati. Se lo Stato non rispetta questo principio, nasce lo statalismo che - secondo la classica e ancora valida formula di Pio XII - è «l'estensione smisurata dell'attività dello Stato, dettata da ideologie false e malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di un ordine diverso».
Il governo Prodi rispetta il principio di moralità spendendo con giustizia e senza sprechi? Rispetta il principio di sussidiarietà ripudiando le politiche stataliste e illiberali tipiche dell'estrema sinistra? Prodi sa che la risposta è «no», e che questo «no» fa sì che le sue leggi fiscali non siano, dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, le «leggi giuste» evocate dal cardinale Bertone.


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Giangiacomo

Lettera al parroco che predica contro Valentino Rossi

Caro don Claudio,
mi dispiace che i suoi fedeli di Castelfranco Veneto l’abbiano contestata durante l’omelia in cui si è scagliato contro l’evasore fiscale Valentino Rossi. Non ho il piacere di conoscerla personalmente, ma conosco abbastanza parroci - e preti veneti - per apprezzare il bene che fate e che non può essere sminuito da una predica sfortunata. Personalmente non l’avrei contestata, perché penso che il suo sfogo parta da un sentimento condivisibile: troppi giovani di oggi considerano modelli di comportamento campioni dello sport, cantanti e veline che di rado meritano il loro entusiasmo.
Ma sarà d’accordo anche lei sul fatto che i giovani sono fortunatamente più complicati degli schemi in cui cerchiamo di rinchiuderli. Molti si sono entusiasmati per Giovanni Paolo II e affollano le udienze di Benedetto XVI: e magari sono gli stessi che tifano Valentino Rossi. Mi permetto di dirle che non sono d’accordo sulla sostanza della sua omelia. Anzitutto, ho apprezzato il richiamo di Benedetto XVI nell’esortazione apostolica «Sacramentum caritatis» a mantenere uno stretto collegamento fra l’omelia e la Sacra Scrittura proclamata nella Messa. Il Papa invita a dedicare anzitutto le omelie a insegnare ai fedeli «la professione della fede, la celebrazione del mistero cristiano, la vita in Cristo, la preghiera cristiana». Può darsi che la qualità della sua comunità sia tale che non ci sia più bisogno delle omelie «catechetiche». Ma recenti indagini sociologiche sullo stato della conoscenza religiosa in Veneto indicherebbero piuttosto il contrario.
In secondo luogo, il suo accostamento alla questione delle tasse e dell’evasione fiscale mi sembra pedagogicamente sbagliato. Se la sua omelia si fosse rivolta a una congregazione di campioni dello sport e di veline avrebbe avuto ragione a richiamarli ai doveri di solidarietà sociale. Ma immagino che i suoi fedeli della Messa fossero - come è tipico della sua zona - lavoratori in maggioranza autonomi, popolo della fede ma anche delle partite Iva, fra cui la probabilità statistica mi induce a credere che si contino artigiani e piccoli imprenditori messi in seria difficoltà dagli studi di settore e dai balzelli di Prodi e Visco.
Come, prima del caso Rossi, diversi vescovi hanno rilevato quando Prodi ha invitato a predicare contro l’evasione fiscale, la dottrina sociale della Chiesa parla sì del dovere dei cittadini di pagare le tasse ma anche del dovere dei governanti di imporre tasse giuste, in mancanza delle quali non si tratta più di solidarietà, ma di persecuzione fiscale. Trascuro il fatto che il caso Rossi è più complesso di quanto sembra - l’Inghilterra attacca l’Italia sul punto, sostenendo che Unione Europea significa anche libera concorrenza fra sistemi fiscali e diritto dei contribuenti a stabilirsi dove il fisco è più ragionevole - e concludo, stimato don Claudio, suggerendole, qualora volesse ancora occuparsi di fisco nelle sue omelie, di predicare sempre contro i mali gemelli dell’evasione e della pressione fiscale eccessiva e insostenibile imposta a Prodi dalla sua cultura e dai ricatti dell’ultra-sinistra che si vanta ancora di chiamarsi comunista. Predichi contro i rossi, e i suoi fedeli le perdoneranno anche qualche attacco a Valentino Rossi.

di Massimo Introvigne (il Giornale, 17 agosto 2007)


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Giangiacomo

martedì 21 agosto 2007

Turchi ed Europa: Martiri di Otranto, 1480

Nell'estate del 1480, i Turchi di Acmet Pascià assediarono la città di Otranto.
Entrati con forza nella città, raccolsero gli uomini superstiti. Gli abitanti furono portati sulla vicina collina della Minerva e obbligati a rinnegare Cristo.
Quegli uomini preferirono la morte.

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E ora Prodi si aggrappa ad Hamas

Passata l’ondata di più che giustificata indignazione, si può e si deve riflettere sulla cultura politica da cui nasce lo sciagurato invito di Prodi a trattare ora con Hamas.
Ci fu un tempo in cui l’idea di offrire ad Hamas la possibilità di trasformarsi da movimento terrorista in forza politica legittima poteva essere coltivata come sensata, e in effetti lo fu, sia negli Stati Uniti sia in Israele. Era il gennaio 2006, all’indomani della vittoria elettorale di Hamas in Palestina. Allora, discretamente e in parte anche pubblicamente, Condoleezza Rice propose ad alcuni leader di Hamas il coinvolgimento nel processo di pace, a tre condizioni: l’accettazione almeno degli accordi siglati in passato dall’Olp, il riconoscimento di Israele, e la rinuncia agli attacchi terroristici contro i civili.
Per la verità, in altri periodi della sua storia - quando trattava sottobanco con Sharon - Hamas, o almeno una sua frazione, avrebbe preso seriamente in considerazione un’offerta del genere. Nel gennaio 2006 non lo ha fatto, per una ragione essenziale. Ormai Hamas non è più un movimento nazionale palestinese, ma la sua dirigenza è teleguidata dall’Iran, il cui sostegno finanziario è necessario alla sua stessa esistenza in vita.
Qualunque cambiamento radicale della politica di Hamas dovrebbe essere approvato da Teheran - pena lo strangolamento economico - ed è evidente che né Ahmadinejad né Khamenei hanno interesse alla pace in Medio Oriente. Comunque sia, il tempo è scaduto.
Agli inizi del 2006 è suonata la campana dell’ultimo giro. Hamas è rimasto fermo (per ordine degli ayatollah iraniani) e ogni possibilità di trattativa è venuta meno. Il golpe a Gaza e la ripresa degli attentati terroristici hanno, evidentemente, sottolineato in colore rosso sangue quanto già si sapeva da oltre un anno.
Delle due l’una. O Prodi non sa o non capisce queste cose, e allora i suoi amici e alleati per primi dovrebbero mandarlo a casa perché rappresenta un pericolo per la credibilità internazionale e la sicurezza interna dell’Italia. Un argomento a favore di questa prima alternativa è la sua bizzarra accusa all’Unione Europea di non avere emanato quella direttiva sui Rom che non solo esiste, ma fu controfirmata proprio da un certo Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione di Bruxelles. La seconda ipotesi, più probabile, è che Prodi - come si dice volgarmente - non «ci sia», ma «ci faccia».
In realtà, il presidente del Consiglio sa benissimo che nell’agosto 2007 proporre un dialogo con Hamas rafforza il fondamentalismo e il terrorismo, irrita Israele, gli Stati Uniti e anche i presunti amici francesi e tedeschi, che con Hamas non vogliono avere niente a che fare. Tuttavia insiste, per due ragioni strategiche. La prima è - dopo tante figuracce - il tentativo di crearsi uno spazio in Europa come leader di un anti-americanismo islamofilo che ha perso il suo punto di riferimento, Chirac, e che Prodi ha nel suo Dna di cattolico democratico erede di Dossetti.
La seconda è rinsaldare l’asse preferenziale con Rifondazione e Comunisti italiani, da sempre amici di Hamas, e così garantire qualche mese di vita in più al suo governo, nonostante i malumori dell’ultra-sinistra sulla Finanziaria.
Nell’uno come nell’altro caso Prodi non ha partner in Europa se non in sinistre radicali e marginali.
E sacrifica gli evidenti interessi internazionali dell’Italia alle sue ubbie ideologiche e al suo tornaconto personale. Anche in questo caso, è essenziale mandarlo a casa al più presto.

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venerdì 10 agosto 2007

Il Papa contro la teologia "politicamente corretta"

Nell’udienza di mercoledì 8 agosto 2007 – rievocando la figura di un grande padre della Chiesa del IV secolo, san Gregorio di Nazianzo (330-390) – Benedetto XVI ha colto l’occasione per denunciare la teologia “politicamente corretta” che, anziché denunciare le malefatte dei governanti, predica una fede “politicamente utile”. È perché non accettava di predicare nel senso gradito agli uomini di governo del suo tempo che san Gregorio, eletto vescovo di Costantinopoli e come tale presidente del Concilio ecumenico, che si svolgeva in quella città, dovette subire “una forte opposizione” che lo indusse, dopo un discorso di addio “di grande effetto”, alle dimissioni.
Un commentatore malizioso potrebbe immaginare un riferimento a recenti vicende italiane, che in una settimana hanno visto dapprima il presidente del Consiglio salire in cattedra per dare istruzioni ai sacerdoti su quali temi devono trattare nelle omelie: in particolare, il dovere di pagare senza protestare le innumerevoli tasse del suo governo. C’è stato poi un fiorire di iniziative di giudici che, sulla base di testimonianze alquanto dubbie, sbattono mostri in prima pagina e accusano di abusi sessuali sacerdoti che, vedi caso, manifestano opinioni diverse da quella della sinistra. Infine, non è mancato un sermone di Eugenio Scalfari che indica nella Chiesa la radice di tutti i mali d’Italia e suggerisce anche lui per mettere a posto le cose (Prodi evidentemente ha fatto scuola) una teologia e una predicazione alternative a quelle proposte dal Papa e dai vescovi. Ma l’interpretazione sarebbe riduttiva: infatti, non c’è solo l’Italia. Anche in Cina – un Paese di cui Benedetto XVI si è occupato in una recente lettera – il governo sostiene una Chiesa scismatica che predica una religione “politicamente utile”. E in Venezuela il presidente Hugo Chavez minaccia la galera ai vescovi che rifiutino di sostenere pubblicamente il suo regime.
La Chiesa, tuttavia – è il senso del discorso del Papa – non si lascia imbavagliare. Proprio in questi giorni è stato presentato un fascicolo che raccoglie tutti gli interventi di Benedetto XVI contro il riconoscimento delle unioni civili come “piccoli matrimoni” aperti anche agli omosessuali, che si chiamino PACS, DICO o CUS. E a chi oppone le ragioni di un umanesimo laico a quelle della Chiesa nel discorso di mercoledì 8 agosto Benedetto XVI replica che “senza Dio l’uomo perde la sua grandezza, senza Dio non c’è vero umanesimo”.
Ma c’è anche dell’altro. Il monito che viene dall’esempio di san Gregorio di Nazianzo è rivolto anzitutto a quella teologia cattolica che accetta di giocare il gioco del “politicamente corretto” e. così facendo, si mette al servizio dei potenti privi di scrupoli, giustificandone le prevaricazioni e le cattive leggi. Oggi come nel IV secolo la strategia di questi teologi consiste nel presentare la fede come qualche cosa di molto complicato. Ed è attraverso quelle che il Papa chiama “complicate speculazioni” che i teologi al servizio del potere politico confondono i fedeli. Il vero teologo, invece, presenta la dottrina cattolica come semplice e alla portata di tutti, e spiega in termini chiari e accessibili “alla nostra ragione” anche le “meraviglie del mistero rivelato”. Chi siano oggi i teologi “politicamente corretti” che ingannano il popolo cattolico non è esplicitato nel discorso di Benedetto XVI. Ma una lettura delle cronache e delle opposizioni che incontrano il suo insegnamento e i suoi documenti mostrano che non vanno cercati molto lontano.


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Chavez è un "dittatore paranoico"

Intervista di Franca Giansoldati da Il Messaggero, 29 luglio 2007

Hugo Chavez è un paranoico. Per la precisione un dittatore paranoico». Come scusi? «Paranoico, ha capito benissimo». Il cardinale Josè Castillo Lara da Caracas, all’indomani dell’ennesimo scontro frontale tra il presidente venezuelano e uno dei più illustri cardinali latino-americani (l’honduregno Maradiaga definito un ”pagliaccio imperialista”), è un fiume in piena e non si sottrae a chi gli chiede di spiegare perchè i rapporti tra l’episcopato e Chavez sono così pessimi. «S’è fissato di essere il liberatore dell’America Latina dagli Usa, dall’Impero come lo chiama lui. Idea peraltro non troppo originale, copiata pari pari da Fidel Castro».
Anche lei in passato è stato offeso da Chavez..
«Sì, mi ha accusato di essere un bandito, un ipocrita. Non ho mai reagito, del resto che si potrebbe rispondere? E’ come se uno entrasse in un manicomio e venisse insultato dai matti. Mica si può replicare loro, si tira dritto e basta».
Chavez, una specie di fotocopia del Lider Maximo?
«Peggio. La paranoia gli fa perdere il senso della realtà. Vede solo quello che gli interessa. Parla del socialismo del XXI secolo ma nella sua testa è una specie di comunismo nella fase peggiore, concentrato di populismo e autoritarismo. E ora vuole pure modificare la costituzione, come se non gli bastasse il potere che ha. Io sono molto preccupato per il mio Paese».
E’ davvero così grave la situazione?
«Chavez è al lavoro per eliminare la proprietà privata. Vuole sopprimerla e lasciare solo la proprietà collettiva. Ha già fatto fallire e chiudere due terzi delle imprese in Venezuela. E’ una cosa terribile. I vescovi hanno garbatamente denunciato questa deriva. Lui reagisce in modo violento».
Lei lo ha definito un dittatore. Ma non era stato eletto?«E come no. Solo che ha tutti i poteri in mano. Quello giudiziario: non vengono emesse le sentenze sgradite. Quello legislativo: controlla l’Assemblea eletta solo col 9 per cento degli elettori. C’è stata una astensione completa, circa l’80 per cento. Alle elezioni non sono state rispettate le regole, è mancato il registro elettorale, si sono verificati problemi. Si procede a colpi di decreti e in un anno e mezzo è maturata, guarda un po’, l’idea di cambiare la Costituzione. Se non è una dittatura questa, cos’è?»
Eppure Chavez si dice cristiano...
«E’ un pagliaccio, nel senso che è quello che gli conviene. Se incontra Gheddafi si presenta musulmano. Di sè dice di essere cristiano e si fa vedere con un crocifisso in mano ma la gente non gli crede».
Perchè ce l’ha così tanto con la Chiesa?
«La ragione della sua rabbia sta nel fatto che la Chiesa in Venezuela è gode di credibilità. E’ al primo posto nei sondaggi e i vescovi non possono tacere i rischi di questa deriva populista e di tante ingiustizie».
E il Papa?
«Si sono incontrati in Vaticano l’anno scorso. Benedetto XVI gli ha consegnato una lettera nella quale implorava anche di rilasciare i prigionieri politici. Delle cinque cose chieste finora solo una: la restituzione di una università cattolica».


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La corsa alle moschee: una ogni 4 giorni!

Che strano Paese è l'Italia dove nasce una moschea ogni quattro giorni e le istituzioni si affannano a permetterne la continua crescita; dove si ha la certezza dell'attività terroristica nelle moschee e i terroristi vengono regolarmente assolti; dove si è consapevoli che l'attività dell'intelligence è fondamentale per prevenire gli attentati terroristici e si indebolisce e disincentiva l'operato dei servizi segreti. Ecco i fatti. Nella relazione del 1˚agosto del Cesis, ribattezzato Dis (Dipartimento per le informazioni per la sicurezza), si chiarisce che le moschee in Italia sono più che raddoppiate in meno di 7 anni.
Sono passate da 351 nel 2000 a 735 nel primosemestre di quest’anno. Con un’impressionante accelerazione del tasso di diffusione che registra la nascita di 39 nuove moschee negli ultimi cinque mesi. Se si considera che la percentuale dei fedeli che frequentano abitualmente le moschee potrebbe oscillare tra il 5 e l’8 per cento del circa un milione di musulmani in Italia, se ne deduce che al massimoogni 100 fedeli dispongono di una moschea. Eppure sembra che le moschee non bastino mai. È in atto una vera e propria offensiva per l’accaparramento di nuove moschee, sempre più grandi, a Genova, Firenze, Bologna, Torino, Roma, Napoli, Colle Val d’Elsa (in Toscana).
E molte di queste moschee sorgono grazie alla disponibilità delle amministrazioni locali di sinistra, pronte a concedere il terreno, lo stabile e anche i finanziamenti per la costruzione. Il caso più recente è stato documentato da Alessandra Erriquez sul Corriere del Trentino di ieri, che cita la dichiarazione del sindaco diessino Alberto Pacher: «Garantire a una comunità che opera correttamente il diritto di professare la propria religione è un segno di civiltà. Tanto più che non chiedono finanziamenti ma solo uno spazio urbanistico compatibile». Dal canto suo il sedicente imam di Trento, il vicepresidente dell’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia) Abulkheir Breigheche, ha spiegato che dal momento che la raccolta di fondi in seno alla moschea non è in grado di soddisfare la richiesta di acquisto di una nuova moschea che sia di almeno 500 metri quadri, «a questo punto il Comune dovrebbe venirci incontro e indicarci uno stabile, anche già esistente, che sia consono all’attività che svolgiamo».
Ebbene per il sindaco e l’imam l’offerta di uno stabile è da considerarsi un’operazione a costo zero. Secondo Breigheche «le moschee sono luoghi di convivenza, insegnamento, ascolto e assistenza. Per tutto questo è necessario uno spazio più grande». Peccato che non sia passato molto tempo da quando a Ponte Felcino, alle porte di Perugia, è stata scoperta l’ennesima moschea trasformata in una scuola di aspiranti terroristi islamici e in un arsenale di armi chimiche che avrebbero potuto essere utilizzate per inquinare gli acquedotti e provocare stragi tra gli italiani. Peccato che l’Ucoii sia ideologicamente l’emanazione dei Fratelli Musulmani, un movimento estremista che predica la distruzione di Israele, inneggia ai kamikaze palestinesi e persegue l’obiettivo di imporre un califfato islamico globalizzato.
Altro fatto. Due giorni fa sono stati assolti «perché il fatto non sussiste» il sedicente imam di Varese, Abdelmajid Zergout, e due suoi collaboratori, nonostante sia stato riconosciuto che tutti appartengono al Gruppo islamico combattente, e nella sentenza si sottolinea che «mostrano una chiara adesione alla ideologia islamica fondamentalista; raccolgono denaro per la causa comune e esaltano la lotta contro gli infedeli». L’assoluzione è stata conseguente al ritardo con cui è stata presentata una richiesta di rogatoria in Marocco, da addebitare al ministero della Giustizia. E per un errore burocratico ci ritroviamo in libertà tre persone di cui abbiamo la certezza che appartengono a un gruppo terrorista e di cui ne condividono il pensiero e l’attività.
E ancora. Il Sole 24 Ore di ieri preannuncia, in un’ampia inchiesta sui servizi segreti a firma di Marco Ludovico, che inizia così: «Per gli 007 italiani oggi il rischio più alto non è il terrorismo islamico o il ritorno brigatista: è quello di perdere il posto ». Si spiega che tra i 500 e gli 800 agenti, su un totale di 3.700, potrebbero essere esonerati dai loro incarichi. Si specifica che gli agenti «operativi», quelli che effettivamente sono impegnati sul terreno nell’opera di contrasto del terrorismo o dell’eversione, sono solo 400. E che oltretutto, con la riforma che ne ha modificato le sigle, i servizi segreti saranno fortemente limitati nella loro attività dal controllo del Parlamento e delle Procure.

Magdi Allam

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Giangiacomo

Iraq, update

Interessante quanto riportato da Il Foglio sulla guerra in Iraq.

Avete presente il New York Times?
E' il tempio della cultura liberal americana, da sempre ferocemente avversario di Bush e della guerra in Iraq. Bene, il 30 luglio se ne è uscito con un resoconto di alcuni suoi editorialisti, spediti in Iraq per vedere come stanno andando le cose: sono tornati raccontando di una svolta, di un clima di fiducia nei soldati, di una nuova strategia militare che funziona, dicendo che questa guerra non è ancora persa, anzi, la si può vincere.

Sarebbe la prima buona notizia dopo tante di stragi e sciagure da quelle parti, a cui ci siamo cinicamente abituati. Staremo a vedere.

Leggere qui e anche qua.

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Giangiacomo

lunedì 6 agosto 2007

Usurocrazia: mutui, arriva il debito eterno

Il mercato bancario si adegua all'invecchiamento delle generazioni e, dopo i mutui quarantennali e cinquantennali, lancia il mutuo eterno con la possibilità dunque di destinare il proprio debito agli eredi. Ubi Banca offre mutui da 50 anni e il Credito Valtellinese consente ai clienti di "girare" l'impegno agli eredi, dando così vita al credito eterno, perché sarà possibile rinnovare più volte un mutuo ventennale, fino a trasferirlo da padre in figlio alle condizioni iniziali: ecco che nasce il mutuo intergenerazionale. Le motivazioni addotte dai banchieri per l'introduzione di questo tipo di contratti possono ridursi alla necessità di assicurare alle generazioni del presente la possibilità di accedere a mutui plurimilionari e così il diritto alla casa, oppure alle mutate condizioni del mercato immobiliare o dell'innalzamento del rischio e così del costo dell'accesso al credito. In realtà, è stato creato uno strumento diabolico, che crea l'illusione nel presente di poter contrarre con facilità un mutuo senza tener conto di alcun limite di età, per porre poi in capo alla famiglia e agli eredi futuri il debito contratto dalla vita precedente. Domani non sarà sufficiente una vita per comprare una cosa o contrarre un mutuo, ma occorrerà vendere la vita delle proprie generazioni alle banche, che diventeranno creditrici eterne nei confronti della famiglia. Chi vuole contrarre un mutuo extralungo si potrebbe inoltre trovare nella situazione di dover costruire la propria garanzia mediante una polizza assicurativa contro eventi temporanei o permanenti: in questo caso può essere la banca stessa a proporre un'ampia gamma di scelta di polizze assicurative vita e multirischio, opzioni di rinvio delle rate e altri sistemi di dilazioni. In tale trucco delle banche si nasconde l'ulteriore beffa, e cioè costringere ad accettare un altro contratto di debito per pagare il primo debito. Un debito a fronte di un altro debito, dunque, che rischia di provocare, proprio in funzione della ricapitalizzazione degli interessi, un circolo vizioso di interessi e debiti che non si ferma alla nostra prima vita, ma si protrae negli anni venire in capo alle generazioni. Si tratta di un sistema di usura e di grave violazione dei diritti degli individui, in quanto diventano vittime inermi delle condizioni dettate dal mercato. In realtà un'apertura in tal senso si è avuta già anni fa, con la Finanziaria del 2005, quando fu introdotta una sorte di deregolamentazione che ha portato all'introduzione del cosiddetto mutuo vitalizio.Allora, per far fronte al problema della capitalizzazione degli interessi nei mutui ipotecari diretti a persone che hanno più di sessantacinque anni, la Finanziaria ha introdotto la VIA (valorizzazione immobiliare anticipata). Alla base del provvedimento vi è la considerazione del fatto che esiste un limite al valore del debito, che non può mai superare il valore dell'immobile. Sarà così possibile conservare la piena della proprietà da parte del mutuatario, e avere il rimborso anticipato in ogni momento: questa ricchezza creata potrà così essere messa a disposizione delle stesse generazioni future. La VIA dunque si era prefissata di creare questo ponte "di solidarietà intergenerazionale", preso proprio dal modello inglese. In particolare con il "mutuo vitalizio" della finanziaria del 2005, anche gli anziani al di sopra dei 65 anni possono richiedere un finanziamento ipotecario, che verrà poi rimborsato in un'unica soluzione alla scadenza del contratto o alla loro morte, e fino a quel momento gli interessati non dovranno pagare nulla alla banca. L'intero debito sarà poi estinto dagli eredi che potranno saldare il debito o, in alternativa, utilizzare l'abitazione per pagare il debito e realizzare la restante parte del valore della casa. E' nato dunque come un strumento per "monetizzare" il valore della casa degli anziani, in modo da creare così una sorta di sostegno all'età pensionabile, oppure per aiutare i figli per l'acquisto della casa. In un certo senso, dunque,la VIA ha gettato le basi per quelle norme bancarie che rilanciano sempre più l'aumento degli interessi, e così gli anni del debito, fino ad annullare completamente la capacità di un individuo di estinguere i propri debiti durante la sua vita.Il sistema bancario crea così una sorta di vincolo per le famiglie e le generazioni a venire, imponendo il ricatto perenne della perdita della propria abitazione.Così mentre prima era possibile lasciare in eredità una casa, un patrimonio, un domani si lascerà un mutuo e un debito da estinguere, pena la perdita di tutto ciò che è stato costruito durante un'intera vita.
"Rinascita" - Venerdi 3 Agosto 2007 - di Fulvia Novellino

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domenica 5 agosto 2007

Le sacre scritture di Prodi: i contribuenti sono schiavi

Romano Prodi si è lamentato perché i parroci italiani nelle prediche domenicali non invitano i cittadini a pagare le tasse. Giustamente, diversi teologi e vescovi lo hanno - con tutta la cortesia clericale del caso - mandato a quel paese. In particolare l’arcivescovo di Chieti Bruno Forte gli ha ricordato che per potere convincere i cittadini a pagare le tasse i governanti devono essere credibili. Prodi ha risposto con una lettera al Corriere della Sera, dove scrive: «Se non ricordo male, anche San Paolo esorta all’obbedienza nei confronti dell’autorità. Credo che utilizzi l’espressione “quoque discolis”, a significare che si deve obbedire alle regole dello Stato anche se dettate da “lazzaroni”». Come questo giornale ha già fatto rilevare, Prodi ricorda male. La citazione - che recita «etiam discolis» e non «quoque discolis» - non è di san Paolo, ma di san Pietro nella sua prima lettera (2, 18).
Ma c’è di peggio. San Pietro sta parlando dei «servi», cioè degli schiavi. Anche chi traduce «domestici» sa che ai tempi di san Pietro la maggioranza dei domestici erano schiavi. I primi cristiani non avevano ancora la forza per reclamare l’abolizione della schiavitù, un’idea che ha le sue basi nel Nuovo Testamento, ma che verrà a pratica maturazione solo gradualmente. Chiedevano ai padroni di trattare gli schiavi con umanità, e agli schiavi di obbedire ai padroni, ritenendo che le rivolte peggiorassero la loro situazione. È in questo contesto che san Pietro esorta gli schiavi a rimanere pazientemente «sottomessi ai padroni», «non solo a quelli buoni e miti», ma anche a quelli «discoli». L’implicazione che il presidente del Consiglio ne vuole trarre è che monsignor Forte ha torto: non si devono pagare le tasse solo ai governanti «buoni e miti», ma anche a quelli «discoli» o, come Prodi traduce, «lazzaroni», il che dimostra che forse non si fa illusioni su che tipo di compagine governativa si trovi a guidare.
Tuttavia don Prodi nella sua predica non riflette sull’insulto, oltre che al buon senso, ai cittadini italiani insito nel paragone. San Pietro sta parlando infatti della schiavitù, cioè di un’istituzione che considera ingiusta e che si è costretti a tollerare in attesa di poterla abolire. Oggi la Chiesa ha vinto la sua secolare battaglia e, salvo che in qualche remota zona islamica, la schiavitù non esiste più. I contribuenti italiani non sono schiavi del fisco - per quanto la cosa forse piacerebbe a Visco e ad altri fondamentalisti delle imposte - ma liberi cittadini, che non sono obbligati a seguire i governanti «discoli» e «lazzaroni», ma possono del tutto legittimamente cercare di mandarli a casa.
I cittadini cattolici possono - anzi, secondo la dottrina sociale della Chiesa, devono - anche criticare le politiche fiscali ingiuste e vessatorie e l’ipertrofia dello Stato assistenziale, che crea solo costosi carrozzoni burocratici. Anziché san Pietro confuso con san Paolo, Prodi avrebbe potuto citare per esempio questa frase significativa: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese» (e quindi delle tasse). Non è una frase di Berlusconi, ma di Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus Annus.

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mercoledì 1 agosto 2007

Lo stipendio dei politici... e dei poliziotti

Mesi di discussioni, talk-show continui, interviste e indagini e inchieste, libri ("La casta")...
tutti basati sui costi, esosi, della politica.
Qualcuno si sveglia, qualcuno si sente toccato nel vivo e inscenano un disegno di legge sulla riduzione dei costi della politica, votato qualche giorno fa in qualche commissione.
E poi??

Legge sulla riforma della Giustizia, Legge Mastella.
Vengono aumentati gli stipendi ai giudici di cassazione. Legge precedente in vigore stabilisce che gli stipendi dei parlamentari vengano equiparati a quelli dei giudici "più alti" in grado.
E quindi...
da Settembre nuovo aumento in busta paga ai deputati e senatori di 815 euro!!!

Anche i poliziotti hanno avuto il loro meritato aumento... 5 euro!!

Politici, V E R G O G N A!!

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Giangiacomo