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venerdì 6 aprile 2012

Liberalizzare sì, ma chiediamoci perché

A pochi giorni dall' approvazione definitiva del decreto liberalizzazioni, il Centro Studi Tocqueville Acton esce con un commento di massima sul pacchetto di riforme ivi contenute.

L'Avv. Riccardo Gotti Tedeschi del Centro Studi Tocqueville-Acton ed il Dott. Andrea Giuricin dell'Università di Milano-Bicocca cercano di tracciare con un approccio critico ma costruttivo una prima analisi del testo, nella prospettiva che esistano le condizioni per realizzare un circolo virtuoso teso a superare resistenze e interessi di parte, ma allo stesso tempo partendo da delle premesse tese a sottolineare le specificità dell'Italia ed i suoi indiscutibili punti di forza.

Il position paper è scaricabile al seguente link.

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Giangiacomo

domenica 13 marzo 2011

Riforma Art. 41

Un diritto effettivo a tutela della concorrenza
di Massimiliano Vatiero

Come molte cose in Italia, certi argomenti tornano regolarmente di moda nel dibattito politico; è questo il caso della riforma dell’art. 41 della Carta Costituzionale. Una riforma che secondo le intenzioni del Governo Berlusconi, dovrebbe togliere regole piuttosto che aggiungerle in ossequio al principio “è lecito tutto ciò che non è vietato”.
Ma all’Italia, a ben vedere, occorrerebbe una riforma della “Costituzione economica”, che comporti un appesantimento della regola costituzionale, innalzando la tutela della concorrenza a rango costituzionale, proprio per salvaguardare in un’ottica fortemente liberale gli individui da interventi discrezionali e distorsivi del potere politico nel mercato e nella sfera economica.
Anche se sia le forze di sinistra sia alcune aree cattoliche manifestarono una certa ostilità al mercato come strumento preminente per allocare beni e per massimizzare il benessere dei cittadini, i Costituenti dovettero obtorto collo riconoscere l’iniziativa dei privati, indispensabile per la ricostruzione del Paese e necessaria per includere l’Italia all’interno di un modello di sviluppo economico diverso da quello dei regimi comunisti. La formulazione dell’art. 41 della Costituzione si dimostra quindi, oggi come ieri, terreno fertile sia per i fautori della libera concorrenza che per i fautori dell’interventismo pubblico nell’economia. Il monopolio (che Einaudi definiva “il male più profondo della società presente”), fu contrastato non tramite politiche della concorrenza bensì con la collettivizzazione (vedasi art. 43 della Costituzione) o con enti appositi, come fu il Comitato Interministeriale Prezzi. Anche se negli anni ’50 si registrano diversi tentativi senza successo per una legge anti-monopolistica, è solo con le pressioni provenienti dalla Comunità Europea che l’Italia si è dotata di un diritto antitrust (legge n. 287 del 10/10/1990) in cui nell’art. 1 si richiamano i valori insiti nell’art. 41 della Costituzione.
D’altro canto questi 20 anni circa di applicazione del diritto antitrust in Italia hanno mostrato quanto sia dannosa la mancanza di un riferimento esplicito nella Costituzione alla tutela della concorrenza nel mercato. Se è vero infatti che l’art. 41 e seguenti non hanno impedito processi di liberalizzazione, è anche vero che non hanno frenato interventi illiberali in economia del potere politico. Una interpretazione del liberalismo europeo (leggasi, Scuola di Friburgo od ordoliberali) può essere utile a questo punto. Il pensiero ordoliberale ritiene che un forte diritto della concorrenza protegga gli individui sia da abusi del potere privato nel mercato sia dalla discrezionalità del potere politico. Un diritto effettivo a tutela della concorrenza, in altri termini, libera l’iniziativa imprenditoriale promuovendo la contendibilità di mercato, salvaguarda ed estende il benessere del consumatore, ma anche argina le politiche industriali attive di una nazione alla sola tutela della concorrenza. In questa prospettiva, tanto più in un paese come l’Italia, il liberale non deve preoccuparsi meramente di tutto ciò che non è vietato, ma anche richiedere vincoli stringenti a iniziative politiche tese a modificare discrezionalmente tali divieti. Solo per citare due esempi recenti: (i) la disciplina eccezionale dettata per il salvataggio di Alitalia, che oltre a gravare sui contribuenti, ha introdotto una serie di restrizioni alla concorrenza che hanno determinato e continuano a generare svantaggi per i consumatori sulle rotte nazionali; (ii) il ritardo nella nomina dei vertici AEEG, che non solo penalizza i consumatori, ma gli stessi operatori. In questo senso un esplicito riferimento alla tutela della concorrenza come valore costituzionale può regolamentare tali intromissioni o inadempienze del potere politico.
Inoltre la tutela della concorrenza, includendo la difesa di mercati contendibili, implica una libertà effettiva di iniziativa privata; per questo, in una riformulazione dell’art. 41 potrebbe essere sufficiente un riferimento alla difesa di mercati concorrenziali per assolvere anche quanto già previsto nel primo comma dell’odierno art. 41. Nel caso in cui invece si ritenesse comunque di mantenere un’affermazione esplicita alla libertà di iniziativa privata, occorrerebbe aggiungere che tale libertà non è appannaggio solo dell’imprenditore ma anche del consumatore. Infatti il consumatore valutando i prezzi relativi dei beni sul mercato, premiando o punendo un produttore, domandando un certo tipo di qualità piuttosto che un’altra, ha un ruolo “di iniziativa economica” non secondario rispetto a quello dell’imprenditore. In questo senso la revisione dell’art. 41 dovrebbe introdurre un riferimento esplicito alla difesa ed estensione del benessere del consumatore come manifestazione della libertà costituzionale di iniziativa privata.
In questa prospettiva l’articolo 41 dovrebbe essere riformulato in maniera tale da comprendervi come comma quanto segue: «La legge tutela e promuove la concorrenza effettiva nei mercati, difendendo la libera iniziativa economica dei privati e garantendo gli interessi del consumatore o utente».

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Giangiacomo

sabato 12 marzo 2011

Concorrenza come bene pubblico

“L’Italia ha bisogno di più concorrenza a tutti i livelli della
sua vita pubblica – scrive Montezemolo - nelle fasi di espansione
economica, sono stati la concorrenza e il mercato ad aver fatto
crescere il mondo a ritmi sconosciuti. Non possiamo frenare il mondo,
perché noi possiamo farcela”.

Continua Montezemolo:

“Abbiamo un Paese meraviglioso e abbiamo bisogno di mercati liberi
dove le imprese possano crescere e competere. Mercati liberi fanno
imprese libere di crescere e di competere. Sta avvenendo il contrario
di quanto sarebbe necessario: invece di liberalizzare il mercato, si
allarga la concorrenza sleale di chi opera in regimi protetti con i
soldi dei cittadini”.

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Giangiacomo

sabato 5 marzo 2011

La Dottrina Sociale della Chiesa è la risposta alla crisi

Lezione di economia di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello IOR

La crisi economica e le sue radici, la legge naturale ignorata, la creazione di un benessere puramente materiale e la delocalizzazione sono alcune delle problematiche collegate all'Enciclica Caritas in Veritate che sono state al centro di una lezione magistrale del presidente dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), Ettore Gotti Tedeschi, al termine del seminario “Economia sociale e di mercato: una nuova visione”, mercoledì nella sede di Via Poli della Camera dei Deputati.
Gotti tedeschi ha ricordato che l'economia di mercato è stata definita dall'economista italiano Luigi Einaudi “una terza via tra capitalismo e socialismo, che assicura la libertà dell'individuo frenando il suo istinto egoistico, attraverso criteri imposti di sussidarietà e di solidarietà. Né statalismo né capitalismo esagerato”.
“Ma perché funzioni – questa è la mia opinione - deve fondarsi sulla Dottrina Sociale della Chiesa, non solo perché ha esperienza, ma perché ha valore”, ha detto.
Il banchiere ha considerato che “la Dottrina Sociale della Chiesa è stata il modo per rendere effettiva la carità, anche se - come dice il Papa nell’Enciclica - la carità svincolata dalla verità non sta in piedi”.
La Dottrina Sociale della Chiesa, per poter funzionare, ha tuttavia bisogno di due grandi pilastri: “insegnare, perché la Chiesa sia maestra, e che lo Stato non sia troppo avido”.
Il presidente dello IOR ha spiegato che “l’economia sociale di mercato, come primo grande obiettivo, deve utilizzare le risorse disponibili nel modo più efficiente e trarre in modo efficace i risultati. Come secondo obiettivo, deve assicurare un progresso integrale, tenendo presente l’unità anima e corpo dell'uomo. Per finire, deve distribuire la ricchezza creata, non tanto per una questione di carità, ma per sostenibilità”. “L’uomo economico sa che non ci può essere un’economia con molti poveri e pochi ricchi”, ha precisato.
“Questi obiettivi che sono stati incorporati dalla Dottrina Sociale della Chiesa sono stati raggiunti?”, si è chiesto. “No – ha risposto –; abbiamo sprecato le risorse, abbiamo fatto uno sviluppo economico soltanto materiale e non abbiamo distribuito la ricchezza. Quindi l’economia è fallita in tutto”.
“Perché negli ultimi trent’anni non si è osservata la Dottrina Sociale della Chiesa”, ha indicato. “In cosa non è stata interpretata? Fondamentalmente in tre aspetti: la legge naturale è stata ignorata totalmente, si è cercato un benessere soltanto materialsitico e invece di distribuzione si è fatta delocalizzazione”.
“Leggete questa Enciclica, la Caritas in Veritate”, ha invitato Gotti Tedeschi. “Molti pensano che sia noiosissima perché hanno letto un riassunto sui giornali. Qui il Santo Padre spiega perché ci troviamo nell’attuale crisi economica. Se venisse letta e discussa, che vantaggio sarebbe per l’umanità!”.
Crisi di senso
“L’Enciclica dice che se la libertà viene prima della verità, l’uomo raramente - l’uomo immaturo - arriva alla verità, e quindi non sa distinguere tra fini e mezzi e confonde l’uso degli strumenti. E gli strumenti sono neutrali. Non c’è la banca etica, non c’è la finanza etica, c’è l’uomo etico che fa la finanza in modo morale ed etico. Il medico e il filosofo lo devono fare in modo etico, cioè dando senso alle sue azioni”.
E ha aggiunto: “Se la vita non ha senso, è inutile chiedere al banchiere il senso della banca. Ma perché ve la prendete con i banchieri se la vita non ha senso, se siamo animali che ci limitiamo a mangiare e altre cose? Come si può pensare che un uomo che fa il banchiere, il finanziere, il medico, il politico, dia un senso? Se la vita non ha senso, godiamoci la vita”.
“Nell’introduzione dell’Enciclica, il Papa dice che se l’uomo non inizia a ragionare e a dar senso alla sua vita, gli strumenti, la politica, la medicina, prendono il sopravvento e autonomia morale. Lo strumento non può avere autonomia morale, è l’uomo che dà senso all'uso degli strumenti”.
Si è quindi riferito all’importanza di questo testo dal punto di vista economico. “Doveva uscire nel 2007 ed è stata rimandata al 2009, perché la crisi stava modificando tutti gli scenari. L’Enciclica è un richiamo pastorale e dottrinale fuori dal tempo, ma nel tempo deve prende in considerazione i problemi specifici”.
“E Benedetto XVI nella Caritas in Veritate ricorda cosa ha detto Paolo VI nella Populorun progressio e nella Humanae Vitae: che non si può prescindere dalle azioni umane e dal rispetto totale della vita, e che non si può fare un piano di sviluppo economico se il progresso è soltanto materiale, perché l’uomo non è soltanto un animale materiale”.
Eutanasia e bilancio
Gotti Tedeschi ha quindi ricordato che “abbiamo negato la dignità della vita e realizzato un progresso soltanto materialistico. E oggi è in discussione la legge sul fine vita. Provocatoriamente dirò: no, è economia, perché non si possono mantenere i vecchi, che costano troppo, se non nascono i bambini, è una questione di bilancio”.
“Quando le persone escono dal ciclo produttivo costano in sanità e pensione. Che succede nella struttura di una società che non ha ricambio generazionale con due figli a coppia? Se la struttura rimane uguale, come fa ad aumentare il PIL?”.
Il relatore a questo punto ha spiegato che “se il numero di popolazione resta inalterato, il PIL aumenta soltanto se aumentano i consumi pro capite; anche i bambini devono consumare, e ci vogliono tante vacanze per i vecchietti. Ma la popolazione che numericamente resta uguale produce l’aumento dei costi fissi da supportare, perché aumenta più la popolazione che costa rispetto a quella che produce, e il sistema sociale deve assorbire la crescita dei costi fissi”.
Come si copre questa spesa? In Italia, ha detto, “con le tasse. Nel 1975, con una crescita del 4 per cento l’anno le tasse erano il 25 per cento del PIL, oggi sono il 50 per cento. Quindi i consumatori hanno meno potere d’acquisto e le aziende meno possibilità di investire. Vale a dire, c’è meno risparmio. Il denaro costa di più e si devono aumentare i derivati”.
“Questo è contenuto nell’Enciclica – ha ribadito Gotti Tedeschi –. E nei principi dice che abbiamo negato: la vita e uno sviluppo integrale”.
Falsa crescita
Per di più, “in un mondo occidentale a tasso di crescita zero abbiamo fatto consumare di più la persona per aumentare il PIL. Come la si fa spendere di più? Facendola guadagnare di più. Ma se il ciclo economico e piatto? Intanto non si fa più risparmio. Negli ultimi 25 anni il tasso di risparmio è sceso dal 25 per cento al 6 per cento”.
Quindi, “per aumentare la produttività si impiegano più macchine e alti volumi di produzione. E fin qui questo fenomeno è accettabile. Ma abbiamo fatto la delocalizzazione. Una serie di beni che in Europa avevano un prezzo, fatti in Asia costano la metà. Quindi è un modo per aumentare il potere d’acquisto”. Il paradosso è che bisogna “consumare sempre di più in Occidente e produrre sempre di meno, mentre in Asia aumentano la produzione e non consumano”.
Quale l’eccesso di questo sistema? “Quando si è passati da un consumo alto al consumo a debito. Guadagno 100, spendo 100, il mio PIL è 100. E per aumentare il proprio PIL si chiede un prestito in banca. Un anno di stipendio futuro lo spendo oggi, e il mio PIL è aumentato del 100 per cento, ma anche il debito delle famiglie”.
Il relatore ha presentato alcuni dati: “Dal 1990 al 2008 , dato certo, la spesa delle famiglie americane è passata dal 68 per cento al 98 per cento grazie all’indebitamento. Ma se la famiglia non paga, la banca fallisce. E quindi negli Stati Uniti hanno nazionalizzato il debito dei privati. Il sistema passa così da un debito del 200 per cento del 1998 al 300 per cento nel 2008”.
Ma è possibile ridurre il debito? Gotti Tedeschi ha ricordato che i tre sistemi sono un default come quello argentino, l’inflazione - una nuova bolla - e quello che insegna il Papa: l’austerità.
“Si ritorni a risparmiare per formare la base monetaria, e a costruire - ha detto -. In più, il 60 per cento delle cose che si consumano non crea mano d’opera”.
E ha ricordato il caso italiano di alcune imprese nelle quali l’amministratore delegato ha detto “O mi permettete di lavorare in questo modo o delocalizzo”.
Dal punto di vista economico, “l’uomo ha tre dimensioni: produttore, consumatore, risparmiatore. Fino a 20 anni fa le dimensioni erano coerenti. Ora lavoro e produco un prodotto, ma ne compro uno simile in Asia, migliore e che costa di meno. Dopo tre anni la mia azienda che produceva quel prodotto fallisce, e quindi non risparmio più e non spendo più”.
“Questo è il paradosso della globalizzazione consumistica. E' quello che il Papa chiama sviluppo economico non integrato. Perché l’uomo ha pensato di non avere un'anima, soltanto un corpo ed ecco l’influenza del nichilismo e del relativismo”.
“Come diceva l’ex Ministro Umberto Veronesi, 'è inutile pensare che l’uomo abbia una scintilla di divino, quando l’uomo solamente è un animale intelligente’. Mangiate e divertitevi, e poi si lamentano se qualcuno lo fa un po’ troppo”.
L'Italia è stata sussidiaria?, si è chiesto il presidente dello IOR. “Fino al 1995, quasi il 65 per cento del PIL era in mano allo Stato: Eni, Iri ecc. Le banche erano pubbliche tranne due banchette. E la più grande impressa privata è stata definita così: quando guadagna è privata, quando perde è pubblica”.
Gotti Tedeschi ha ricordato che “per entrare nell’euro dovevamo privatizzare. Ma abbiamo privatizzato? Per privatizzare c’è uno che vende e uno che compra e paga. Che si vendeva? imprese molto grandi e inefficienti, e chi è che le compra? Gli stranieri no. E come fanno gli italiani? Ci siamo inventati di far finanziare l’acquisto dalle banche. Se le avessimo regalate non avremmo assorbito quella massa di soldi, che avrebbero potuto andare alle vere imprese trainanti, le Pmi”.
“Un esempio soltanto: non dico che sia la verità. Alla fine della guerra fredda, Washington spendeva un 4,5 per cento del PIL in armamenti, e dopo l’11 settembre questa spesa è salita all’11 per cento. Come si fa ad assorbire questa spesa se non si inventano i subprime? Bush nell’ultimo G8 lo ha riconosciuto: si è speso di più di quanto si poteva”.


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Giangiacomo

domenica 10 ottobre 2010

La contraddizione non risolta tra autonomia e “personalismi”

Il vero nodo resta quello tra economia e politica. La contraddizione non risolta tra autonomia e “personalismi”

L’articolo è stato pubblicato sul “Liberal” del 30 settembre 2010

Le dimissioni al buio di Alessandro Profumo da AD di Unicredit sono oggetto di analisi da parte di economisti e di opinionisti di tutto il mondo. Il casus belli – quanto meno quello esplicito – è noto a tutti: il disaccordo sulla presenza dei libici nel comparto azionario del colosso bancario di Piazza Cordusio. A questo punto, coloro che hanno tentato di ricostruire la vicenda nei minimi particolari avanzano sospetti, individuano collegamenti politico-affaristi, disegnano scenari fantapolitici, fantafinanziari e comunque si adoperano nell’antica arte retroscenista, condita della migliore salsa al sapor di complotto.

Non che le ricostruzioni non ci interessino e che non presentino forti elementi di plausibilità, ma crediamo che si possa cogliere questa occasione per tentare una riflessione sui limiti e sui presupposti del mercato. In fondo, coloro che difendono la strategia di Profumo argomentano le loro ragioni sostenendo la superiorità del mercato rispetto agli interessi della politica; e, a maggior ragione, degli interessi di alcune roccaforti partitiche locali (vedi F. Giavazzi). D’altra parte, coloro che hanno denunciato i pericoli derivanti dalla strategia accentratrice perseguita da Profumo e dalla crescente presenza di fondi libici, non possono neppure essere liquidati sic et simpliciter come miopi profittatori di clientele locali; a conti fatti, il mercato è un intreccio di istituzioni che nascono dal basso, esso mal tollera soluzioni centralistiche, nonché l’inserimento di elementi che per ragioni di ordine politico e culturale si mostrano inesorabilmente ostili alla libertà e non conformi alla stessa struttura del mercato.

In definitiva, riteniamo che il mercato affinché possa svolgere la sua funzione di sistema ottimale delle risorse è necessario che riconosca alcuni limiti e presupposti. In questo caso, a partire dalla prospettiva dell’economia sociale di mercato che incontra la Dottrina sociale della Chiesa, la domanda che ci poniamo non è tanto se debba essere il mercato ovvero la politica ad orientare le scelte nel campo finanziario, invero – come ci ha ricordato Benedetto XVI – non spetterebbe né all’una né all’altra, in quanto tale compito spetterebbe all’etica. La domanda che ci poniamo è la seguente: quali istituzioni appaiono necessarie affinché il mercato possa continuare a svolgere il suo ruolo?

In altre parole, la presenza di un fondo sovrano (fuori dalla logica del mercato) libico (fuori dalla logica democratica e liberale) è conforme ai principi che stanno alla base del libero mercato ovvero lo minano alle fondamenta? Ed ancora, l’irritazione palese di alcuni ambienti politici del Nord è autenticamente giustificata sulla base del principio che le realtà locali detengono una quota naturale (stakeholder) nel novero degli interessi di un gruppo bancario come Unicredit? Ovvero si tratterebbe di un’indebita ingerenza della politica? In breve, tali domande evidenziano due ordini di problemi. In primo luogo, può il mercato sopravvivere in qualsiasi contesto etico, politico e culturale ovvero è funzione di determinate istituzioni che lo presuppongono e lo pongono in essere? Ed in secondo luogo, è corretto identificare il sistema partitico con la società civile ovvero si tratta di un processo attraverso il quale il centralismo del primo intende fagocitare il pluralismo della seconda? È nostra sommessa opinione che il mercato necessiti di istituzioni economiche, politiche e culturali che lo presuppongano e che la presenza di un fondo sovrano che non risponda alle logiche del mercato, per di più riferibile ad un’autorità politica dispotica come quella libica, rappresenti una grave minaccia al buon funzionamento del mercato. Così come la pretesa di rappresentare gli interessi locali non può essere appaltata in modo esclusivo ad alcun partito politico.

Le dimissioni di Profumo sono la dimostrazione di quanto gli operatori del sistema finanziario e del sistema politico nel nostro Paese siano preda di una pericolosa schizofrenia in forza della quale libertà, democrazia e partecipazione sono rivendicate in nome di un particolarismo settario e clientelare e, nel contempo, da altri, le ragioni del mercato vengono difese come elementi metafisici che si danno da sé e non come il prodotto di una complessa rete istituzionale i cui presupposti sono di ordine etico e cultuale.

Flavio Felice – Presidente Centro Studi Tocqueville-Acton e Adjunct Fellow Amercian Enterprise Institute

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Giangiacomo

domenica 28 dicembre 2008

Impiegati del Ministero del Tesoro... siamo in Italia!

Ieri ho trascorso una stupenda serata. Ho invitato a cena un amico che lavora in Lussemburgo. Nonostante la giovane età, è affascinante restare ad ascoltarlo per ore del suo lavoro, quasi tenesse una lectio magistralis in economia e storia

Tre le varie questioni che mi ha raccontato, DEVO sottolinerne una per Voi...

Lo sapevate che...
alla fine di ogni anno, ogni (TUTTI!) dipendente del Ministero del Tesoro in Italia percepisce un premio netto a discapito di qualsiasi merito e/o criterio?
esatto!
alla fine di ogni (TUTTI) anno, i premi delle varie lotterie, concorsi a premi, ecc, non ritirati o non erogati, vengono divisi tra Ministro, sottosegretari, dirigenti e impiegati del Ministero in tutta Italia (ovviamente in relazione al proprio stipendio), ovviamente non tassati!
Un impiegato di fascia C, ad esempio, percepisce circa 4.000,00 Euro come premio annuo!
Fate Voi i calcoli in relazione alle migliaia di dipendenti del Ministero...

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Giangiacomo

venerdì 24 ottobre 2008

I risultati del monopolio sull'energia in Italia

Volentieri pubblico lo sfogo di un'amica che si trova davanti ad una ingiustizia del mercato italiano e che scrive a Specchio dei Tempi de La Stampa (e che magari non verrà pubblicato perchè troppo di parte...)

Un racconto veloce dell'esperienza degli ultimi due mesi nella speranza che presto si concluda. Prendo in affitto un appartamento dove è stato installato un nuovo impianto di riscaldamento. Attualmente in Italia bisogna passare prima da Eni Gas & Power e poi c'è possibilità di scelta, ma il mercato non è ancora totalmente liberalizzato. Chiamo all'inizio di Settembre il numero verde di Eni Gas & Power per l'attivazione, la verifica dell'impianto e la prima accensione. Oggi 24 Ottobre nulla è successo. Dopo una trentina di chiamate al numero verde, più pratiche aperte e poi riallineate, solleciti scritti, il nulla! Sembra, e sottolineo sembra, che per un errore informatico del gestionale la pratica non riesca a passare dal call center all'ufficio tecnico. Si rendono conto che dall'altra parte della cornetta c'è una famiglia che non ha acqua calda per una doccia, non ha riscaldamento e non può cucinare? Che Dio ci assista!!
Firmato

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Giangiacomo

giovedì 18 settembre 2008

Trattativa Alitalia

L’irresponsabilità di molti lavoratori, l’arroccamento dei privilegiati, l’ideologia dei sindacati...Speriamo che la vicenda almeno insegni dove conduce quell’economia in cui le aziende sono dello Stato: immani sprechi, schiere di intoccabili, posto assicurato, nessuna produttività.Ma prima o poi...

Lavoro o sindacato?
"Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente chiari. I salari aumentavano eccessivamente mentre le prospettive aziendali precipitavano con l'inizio della recessione" (diario di Margaret Thatcher nei primi giorni del suo governo, 1979).
Work or trade-union?
"The economic results of trade-union power were already painfully clear. The salaries increased excessively whilst the corporate perspectives fell over with the beginning of the recession" (Margaret Thatcher's diary in the first days of her government, 1979).

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Giangiacomo

lunedì 8 settembre 2008

La rendita dei comuni

di Francesco Giavazzi

L'Italia è il Paese, dopo gli Stati Uniti e l'Australia, che consuma il maggior numero di litri d'acqua per abitante: quasi 600 litri al giorno negli Usa, 500 in Australia, 400 in Italia. In Gran Bretagna se ne consumano solo 150, in Germania 190. In parte ciò è dovuto al fatto che la nostra rete idrica è un colabrodo, con una perdita media del 30% e punte del 50%; ciononostante per migliorare i nostri acquedotti investiamo meno della metà di quanto investono gli inglesi (in realtà non tutta l'acqua persa è sprecata: una buona parte viene rubata, spesso per irrigare i campi con acqua potabile. Ad Agrigento, quando i carabinieri hanno sequestrato alcuni invasi illeciti, le cisterne in città quasi scoppiavano tanta acqua arrivava). L'elevato consumo dipende anche dal fatto che nelle nostre città il prezzo dell'acqua è fra i più bassi al mondo: circa 80 centesimi al metro cubo a Roma, contro 4,30 euro a Berlino, 3,50 euro a Copenaghen, 2 euro a Londra. La nostra acqua costa poco, ma illudendoci che sia pressoché gratuita ne consumiamo troppa e alla fine le nostre bollette non sono molto inferiori a quelle inglesi o tedesche. Ciò che accade per l'acqua accade per i rifiuti: oneri di smaltimento molto bassi e quindi, con rare eccezioni (Trento ad esempio), un eccesso di rifiuti. Un altro esempio è il trasporto pubblico locale. I biglietti coprono un terzo del costo: non c'è da stupirsi se i passeggeri, non conoscendo quanto costa davvero il servizio, trattino male gli autobus. Dovrebbero bastare questi esempi per convincerci che vi è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui sono gestiti i nostri servizi locali.
Essi dipendono, pressoché senza eccezioni, dalla politica e i politici, anche i meglio intenzionati, si illudono che il modo per aiutare i cittadini — e ottenere i loro voti — sia far pagare poco i servizi. In realtà così facendo contribuiscono al degrado dell'ambiente e, come abbiamo visto nel caso dell'acqua, alla fine non riescono neppure a mantenere basse le bollette. Solo il 5% dei nostri acquedotti è gestito da privati ai quali il servizio è stato affidato in seguito a un'asta competitiva. Gli altri sono gestiti direttamente dagli enti locali, o comunque da società controllate dagli enti locali a cui sono stati affidati senza mai chiedersi se esistesse qualcuno disposto a offrire il servizio a condizioni migliori. Nella scorsa legislatura il ministro Linda Lanzillotta cercò, invano, di condurre in porto una riforma. Per superare il veto di Rifondazione dovette accettare che gli acquedotti rimanessero pubblici. Ma per gli altri servizi quella legge aveva il merito di porre i Comuni di fronte a una scelta chiara: o gestivano il servizio direttamente, o lo affidavano tramite una gara a società terze. Deroghe alla procedura di assegnazione tramite gara dovevano essere approvate dall'Antitrust. La legge non passò non per l'opposizione di Rifondazione, che si accontentò dell'acqua pubblica, ma perché fu considerata un attentato alla tranquilla sopravvivenza del nuovo «capitalismo pubblico locale», le centinaia di aziende a partecipazione pubblica create negli ultimi anni per gestire i servizi locali.
Queste società sono diventate il fulcro del potere politico locale: non c'è fusione che non sia accompagnata dal passaggio al modello societario duale in modo che non un solo presidente, non un solo consigliere di amministrazione perda il suo posto. Oggi, grazie alla Lega hanno ottenuto ciò che volevano: l'art. 23-bis del decreto fiscale approvato l'1 agosto prevede che le deroghe alla procedura di gara siano solo comunicate all'Antitrust. Tolte di mezzo le gare, la sopravvivenza del capitalismo pubblico locale è assicurata. La Lega ha definito l'approvazione del 23-bis una vittoria del federalismo. In realtà anziché parte di un grande progetto di riforma delle istituzioni, sembra piuttosto la misera difesa di qualche poltrona alle spalle dei cittadini. All'interno della maggioranza l'opposizione al 23-bis è venuta soprattutto da Alleanza nazionale che ha inutilmente difeso le gare e ora annuncia la presentazione di un nuovo disegno di legge per rivedere in senso più rispettoso del mercato l'intero assetto dei servizi locali. Ma vi sarebbe un modo più concreto per segnalare la propria diversità: An gestisce Roma, una città dove i servizi pubblici sono tutti assegnati senza gara. Quale lezione ai propri colleghi, e anche all'opposizione, se il sindaco Alemanno annunciasse che d'ora in poi a Roma tutti gli affidamenti avverranno tramite gara.


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Giangiacomo

mercoledì 3 settembre 2008

Se i tagli sono una nuova sfida

Sono giustificati i tamburi di guerra di molti esponenti politici e rappresentanti di vari settori contro i tagli del ministro Tremonti, contenuti nella manovra economica in approvazione in questi giorni? Chi osservi il sistema italiano, anche prescindendo dal noto rapporto debito-Pil, vede alcune apparenti contraddittorie situazioni. La spesa pubblica per i servizi sociali, in percentuale sul Pil, è superiore in Italia rispetto ai principali Paesi europei, ma sta crescendo la disuguaglianza tra ricchi e poveri. Siamo il quarto Paese nell'Ocse per spesa per l'istruzione fino alla secondaria, ma la qualità della scuola italiana continua a peggiorare. La spesa per la sanità in Italia è in linea con quella dei Paesi più sviluppati, ma, se si eccettuano alcune Regioni virtuose, il rapporto risorse impiegate-qualità del servizio lascia spesso a desiderare. La spesa per le pensioni in Italia, rispetto al totale della spesa sociale, è molto più elevata se paragonata alla media europea, ma si dubita di poter assicurare la pensione alle generazioni future. E parlando del sistema produttivo, mentre l'impresa italiana continua ad aumentare la sua capacità di esportazione, il Pil non cresce. Perché?Quello che si dimentica, quando si è toccati in prima persona, è che lo statalismo centralista che affligge l'Italia significa rendita: politica di chi moltiplica i dipendenti pubblici e i finanziamenti a pioggia per assicurarsi il consenso; sindacale e associativa, di chi, nel corso degli anni, ha costruito privilegi per le sue corporazioni; di comodo, in chi rifiuta di essere valutato per quel che fa; da oligopolio, per le imprese decotte protette in modo artificioso. In diversi settori si spende male: si maschera come spesa per lo sviluppo e la solidarietà la spesa per alimentare la rendita, con il risultato che ad aumenti di spesa si associa un aumento dell'inefficienza e dell'iniquità. Certo, semplicemente tagliare non può bastare. Può però essere salutare se, mossi dalla necessità, si è spinti a una rivoluzione culturale che rifiuti lo statalismo e sposi il merito, l'iniziativa personale, la competizione virtuosa, la valutazione, la sussidiarietà, la costruzione di reti dal basso, la possibilità di reperire fondi privati per realtà pubbliche e soprattutto una nuova idealità che senta il bene comune come parte del proprio interesse. È una sfida che non possiamo rimandare perché perdendo tutto il Paese perderà anche la nostra vita personale, familiare, sociale.
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazioneper la Sussidiarietà

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Giangiacomo

Ecco come la finanziaria inciderà sul sistema universitario

Riporto un articolo del mio amico Tommaso Agasisti...

Il recente D.L. n. 112 contiene alcune disposizioni che incidono, in misura anche rilevante, sul sistema universitario. In particolare, le norme principali riguardano tre aspetti: (1) il blocco del turnover nell’assunzione di personale a tempo indeterminato, (2) la conseguente riduzione di fondi per il finanziamento ordinario (FFO) delle università, (3) la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
Il blocco del turnover appare una norma in forte controtendenza rispetto al processo di conferimento di maggiore autonomia alle università: impedire agli atenei di utilizzare liberamente le proprie risorse per l’assunzione a tempo indeterminato del proprio personale docente sembra configurare un ritorno della regolazione centrale in un sistema dove, invece, l’autonomia appare oramai un principio irrinunciabile. La legge attualmente vigente (legge 27 dicembre 1997, n. 449) impone un limite di buon senso, prevedendo che la spesa per assegni fissi per il personale non possa eccedere il 90% del trasferimento di FFO annuale; in altre parole, le università non possono spendere in stipendi più del 90% delle risorse trasferite dallo Stato. Molte università hanno oltrepassato questo limite, spesso con politiche di assunzioni irriguardose dei limiti finanziari, generando di fatto una rigidità dei loro bilanci che appare insostenibile (alcune università spendono il 100% dei loro fondi statali in stipendi!). La stessa legge 449/97 prevedeva che, in caso di superamento della soglia del 90% del FFO, scattasse un blocco automatico per le nuove assunzioni; tuttavia, poco è stato fatto dal lato dei controlli e la situazione è spesso degenerata. La norma contenuta nel DL n. 112 probabilmente vuole porre un rimedio a questo fenomeno, ma le modalità pratiche appaiono generiche e inefficaci, perché si applicano a tutti gli atenei in modo indifferenziato. Nei fatti, il provvedimento penalizza non le università che hanno speso male negli ultimi anni, ma quelle virtuose; quelle, cioè, in cui i costi del personale hanno una incidenza limitata sui bilanci. Questi atenei, che pure avrebbero la possibilità di assumere nuovo personale, con politiche di sviluppo anche mirate, si trovano invece limitate nella propria capacità di spesa. A questi atenei andrebbero lasciati margini di autonomia maggiore, non posti nuovi vincoli!
Il ragionamento di cui sopra si lega anche con il tema dei tagli finanziari. Il fatto che all’orizzonte si profilasse una riduzione dei finanziamenti statali per gli atenei era ampiamente prevedibile e, sotto il profilo della dinamica della spesa pubblica, si tratta di una prospettiva ineludibile anche per il prossimo futuro. In tutti i paesi industrializzati il trend in atto è quello di un contenimento della spesa pubblica nel settore universitario. Tale trend è giustificato sia dalle politiche restrittive di finanza pubblica comuni a tutti i paesi europei (e non solo); sia dalla natura di “investimento” dell’istruzione universitaria che rende opportuno un aumento dei contributi degli studenti sotto forma di maggiori tasse. I laureati, infatti, ottengono benefici in termini di migliori retribuzioni e di migliore status sociale che giustificano una loro ampia partecipazione ai costi della propria istruzione - a questo ovviamente affiancando strumenti efficaci per sostenere un reale diritto allo studio per studenti meritevoli a basso reddito. Inoltre, con riferimento alla spesa pubblica nel settore, i paragoni con i livelli di spesa degli altri paesi europei sono inutili: nessun altro paese ha un debito pubblico come il nostro, e l’esigenza di risanare e riqualificare la spesa pubblica richiede di effettuare tagli in tutti i settori, compreso dunque quello universitario. Richiedere più spesa pubblica, oppure richiedere di non includere il comparto universitario nei tagli, appare inutile e irrealistico. Il problema, dal punto di vista della finanza pubblica (e il DL . n. 112 assume questo punto di vista), non è “se” tagliare, ma “come” e “quanto” tagliare. Se sul “quanto” ovviamente è il dibattito politico che deve guidare le scelte, sul “come” la norma desta qualche perplessità. Infatti, ipotizzare un taglio lineare che colpisce tutti gli atenei indiscriminatamente significa definire un incentivo perverso: gli atenei che hanno speso meglio negli anni precedenti otterranno una riduzione del proprio finanziamento, esattamente proporzionale a quella degli atenei che hanno speso in modo dissennato. Ritengo, invece, che si dovrebbero differenziare i criteri di riduzione delle risorse statali destinate alle università, tagliando di più agli atenei che hanno speso male e mantenendo invece stabili i livelli di finanziamento delle università “virtuose”. Il problema diviene così quello di definire i criteri migliori per effettuare questa selezione; inutile, invece, sprecare tempo a chiedere più soldi. Se anche le forme di protesta riuscissero ad evitare i tagli quest’anno, che ne sarebbe l’anno prossimo? E l’anno ancora venturo? Ipotizzare una reiterazione negli anni della protesta, per avere qualche milione di euro in più all’anno (su un fondo di oltre 7 miliardi di euro…) sembra una strada francamente poco produttiva. Se si cominciasse a ragionare su criteri di spesa ritenuti “virtuosi” il dibattito sarebbe, probabilmente, più costruttivo.
Infine, la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni private può rappresentare uno stimolo al ripensamento di alcuni problemi delle nostre università. Prima di entrare nel merito è importante ricordare che questa proposta è stata avanzata, negli anni scorsi, da numerosi accademici nonché da vari esponenti politici di destra e di sinistra; è dunque ragionevole ipotizzare che questa idea abbia alcuni aspetti positivi. Così non è, chiaramente, per coloro che vedono nella trasformazione in fondazioni lo “smantellamento dell’università”; per essi infatti qualunque provvedimento in questa direzione sarebbe lesivo della natura “pubblica” dell’istruzione. I vantaggi che si potrebbero ottenere dalla trasformazione in fondazione sono, fondamentalmente, quelli di una maggiore flessibilità nella gestione e di un coinvolgimento di soggetti terzi, pubblici e privati, al finanziamento degli atenei. Occorre però non nascondersi dietro un dito: non è sufficiente ipotizzare la soluzione delle fondazioni per risolvere i vari problemi del sistema universitario, che rimangono aperti: modalità di reclutamento dei docenti, sistemi incentivanti di finanziamento per le performance della produttività scientifica, valutazione della qualità della didattica e della ricerca, ecc. Allo stesso tempo, però, occorre riconoscere che la trasformazione in fondazioni (che, ricordiamo, deve avvenire su base volontaria) potrebbe rappresentare, per le università più intraprendenti, la prima opportunità per differenziarsi, ricercando una maggiore autonomia ed una maggiore qualità.
Per concludere, ritengo dunque che il DL. n. 112 contenga, tutti assieme, elementi ineludibili (il contenimento della spesa pubblica), elementi discutibili e negativi (il blocco indiscriminato del turnover), ed elementi potenzialmente positivi (la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni). La natura del provvedimento, però, è di natura finanziaria e come tale deve essere trattato; la vera discussione intorno al settore universitario non può limitarsi ai soldi e alle regole amministrative, ma deve concentrarsi sugli aspetti “core”, come la qualità della didattica, della ricerca, della gestione delle proprie attività, la rilevanza internazionale dei nostri atenei, la valutazione dei docenti e delle strutture.
Quando si (ri)comincerà a parlare, ma soprattutto a riformare, in relazione a questi aspetti? Il timore è che, a forza di decidere (il Governo) o di lamentarsi (le università) avendo a mente solo la questione delle risorse finanziarie, si dimentichi che l’università è un’altra cosa.


see u,
Giangiacomo

giovedì 21 agosto 2008

FS non deve reintegrare De Angelis

Chi sbaglia paga!
e deve servire da esempio...

Rappresentanti sindacali che pensano più alla politica, a farsi vedere dai funzionari, a far carriera all'interno del sindacato, quando...
prima di tutto sono dipendenti di un'azienda
dovrebbero tutelare gli interessi dei loro colleghi e, "bontà loro", pensare agli interessi dell'azienda per la quale lavorano!!
si può crescere anche lì... ed è più stimolante... sicuramente!

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Giangiacomo

Gli atenei diventino fondazioni private

Nelle polemiche di questi giorni riguardanti i tagli di spesa all’università contenuti nel Dl n. 112 si dimentica un aspetto non secondario della recente vita dell’università italiana.
Negli ultimi anni Camere di commercio, associazioni ed enti locali, pubblici e privati, hanno promosso, anche in piccole località, dei comitati per dar vita a nuove università. Dopo un po’ di anni, queste università hanno richiesto di essere riconosciute e finanziate dallo Stato centrale, cosa che è puntualmente avvenuta nella quasi totalità dei casi. Invece di creare sedi staccate di grandi università, come è avvenuto in pochi casi virtuosi, si è voluto premiare interessi locali, che con la qualità della ricerca e della didattica non c’entrano nulla. Le spese per il sistema universitario sono così ora disperse in mille rivoli. Come uscire allora, da questa situazione?
Per rispondere si pensi agli Stati Uniti, dove ci sono miriadi di università e college, molti anche di valore discutibile. L’unica sostanziale differenza è che questi college non sono finanziati in maniera preponderante con trasferimenti statali, che invece sono erogati in gran parte come borse e prestiti agli studenti che scelgono dove spenderli. La qualità delle strutture universitarie diventa criterio determinante nella loro capacità di reperire risorse.
Per questo appare come potenzialmente “rivoluzionaria” la norma, finora ignorata nel dibattito, secondo cui le università si possono trasformare in fondazioni di diritto privato. Le università sarebbero autonome, giuridicamente e finanziariamente, libere di cercarsi partner privati, non appiattite sulle norme burocratiche di gestione delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle inerenti collaborazioni di ricerca con imprese ed altri enti pubblici e privati. Progressivamente si potrebbe favorire il fatto che, almeno in parte, le università si procurino da sole le risorse necessarie per vivere, come accade oggi negli Usa. E ciò prevedibilmente avverrebbe sulla base di qualità di didattica e ricerca, con un naturale riassestarsi in alto del sistema. Certo, c’è molto da lavorare perché questa idea sia perfezionata già a partire da questo decreto e risponda alle molteplici necessità, anche nella fase di transizione. Ma c’è qualcuno disposto veramente ad accettare la sfida della qualità?"

Giorgio Vittadini

Il Giornale, 30 Luglio 2008

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Giangiacomo

Meeting dell'Amicizia dei Popoli 2008, Rimini

Qui l'economia fa meeting
Economy
30 Luglio 2008

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Giangiacomo

sabato 2 agosto 2008

Giusto il provvedimento della maggioranza in materia di lavoro

Indegno lo sciacallaggio propagandistico della Sinistra e di Casini che si atteggiano a difensori dei “precari”

Lavoro o sindacato?
"Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente chiari. I salari aumentavano eccessivamente mentre le prospettive aziendali precipitavano con l'inizio della recessione" (diario di Margaret Thatcher nei primi giorni del suo governo, 1979).

Work or trade-union?
"The economic results of trade-union power were already painfully clear. The salaries increased excessively whilst the corporate perspectives fell over with the beginning of the recession" (Margaret Thatcher's diary in the first days of her government, 1979).

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Giangiacomo

martedì 24 giugno 2008

La manovra finanziaria aiuta le famiglie

In carica da soli 33 giorni, il governo continua a mantenere gli impegni presi con l’elettorato, con una progressione impressionante. Dopo i decreti legge per affrontare l’emergenza rifiuti e per contrastare l’immigrazione clandestina, i provvedimenti per colpire la grande e piccola criminalità, l’abolizione totale dell’Ici, la detassazione degli straordinari e dei premi di produzione, la rinegoziazione dei mutui è ora il momento della manovra economica.
Tremonti ha tenuto fede all’impegno di anticipare la manovra economica a prima dell’estate. Senza togliere un euro dalle tasche dei cittadini, si comincia ad aiutare chi ha più bisogno: carta prepagata per la spesa alimentare e le bollette per gli anziani con la pensione minima; fondo-casa per le giovani coppie; abolizione del divieto di cumulo tra pensione e lavoro per chi vuol proseguire l’attività; tagli ai costi del carburante; libri di testo e ricette mediche on line; liberalizzazione dei servizi pubblici locali per ridurre le bollette.

Si tratta di alcune delle misure a maggiore impatto popolare. E ci sono anche misure per lo sviluppo, come la conferma del ritorno al nucleare e la ripresa delle grandi opere, ad iniziare dalla Tav. Spariscono gli adempimenti burocratici introdotti da Prodi e Visco, come il grande fratello sui conti correnti, l’obbligo delle dimissioni su internet, la responsabilità, se fai dei lavori, di accertare che la ditta che hai chiamato sia in regola con fisco e contributi.

Nel suo saggio "La paura e la speranza" Tremonti ha elencato i pericoli che correva l’Europa di fronte agli eccessi della globalizzazione, alla crisi dei mercati e alle speculazioni della finanza mondiale di come questi rischiassero di scaricarsi sui ceti più deboli, sui poveri, sugli anziani, sulle famiglie e sui giovani. La manovra economica presentata mercoledì dà una prima risposta, anche con misure coraggiose come la cosiddetta "Robin Hood Tax", che colpisce i guadagni eccessivi "di congiuntura" di petrolieri, banche e assicurazioni, per recuperare denaro da destinare a chi ha più bisogno.


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Giangiacomo

lunedì 2 giugno 2008

Un interesse reale per il bene delle persone

Visto il mio personale interesse per costruire qualcosa, pubblico la lettera del nuovo Presidente della Compagnia delle Opere ai soci

Cari amici,

negli ultimi anni ho avuto l’occasione di incontrare tanti di voi attraverso il mio lavoro per la Scuola d’impresa della Fondazione per la sussidiarietà. Ho potuto conoscere tante opere, ma soprattutto tante persone all’opera: con un interesse reale e intelligente per il bene delle persone, con una carità che si esprime fino al sacrificio, con un gusto per la bellezza come segno di una positività presente in tutto, con una speranza che fa vivere anche situazioni drammatiche con una gratuità sorprendente. Gli stessi collaboratori della CDO che ho potuto incontrare e sto incontrando in questi giorni vivono il servizio con grandissima disponibilità e reale dedizione. Ho conosciuto quindi la nostra compagnia come una realtà straordinaria - ricca di una umanità viva, caratterizzata da creatività e libertà. E questo non vale solo per le opere più conosciute di cui si parla pubblicamente, ma anche per tante opere piccole e imprese meno note, di cui solo pochi sono a conoscenza.

La CDO si sviluppa di fatto come sostegno reciproco alla creazione di opere che vogliono mettere al centro il bene della persona, rafforzare la libertà, favorire la responsabilità e contribuire al bene comune. In questa esperienza che si esprime in una continua e instancabile tensione ideale sta la valenza sociale e la dignità culturale della CDO. Più un’opera esprime il desiderio autentico della persona, più si sviluppa una relazione organica e verificabile fra il bene della persona, il bene dell’impresa e il bene comune. In questo senso la CDO è una testimonianza che è possibile vivere il lavoro in un modo che, rispondendo al proprio bisogno, contribuisca a rispondere al bisogno di tutti.

Nei prossimi mesi voglio soprattutto comprendere meglio questa nostra amicizia operativa e sollecitare un dialogo fra di noi sulle ragioni che ci sostengono nel nostro lavoro e sulle prospettive che le nostre esperienze ci suggeriscono, partendo dagli organi che rappresentano la CDO in tutte le sue espressioni. Non è una progettualità che ci salva, ma abbiamo la responsabilità di fronte a dei segni evidenti che ci interpellano e ci chiedono di trovare modalità sempre più adeguate per un reale sostegno reciproco.

Senza voler pregiudicare il risultato di questo dialogo, mi permetto di sottolineare tre punti che mi sembrano particolarmente importanti e che vedo in piena continuità con le Presidenze di Giorgio Vittadini e di Raffaello Vignali.
La prima preoccupazione riguarda i giovani e il loro ingresso nel mondo del lavoro. Occorre prima di tutto fare quanto è possibile per valorizzare tutte le opportunità. Quando un giovane entra in un’impresa o in un’opera ha bisogno non solo di una formazione professionale continua, ma anche della opportunità di una educazione. L’emergenza educativa, infatti, non tocca più soltanto la famiglia e la scuola, ma in modo crescente anche l’azienda: occorre creare le condizioni affinché chi cominci a lavorare possa fare l’esperienza del lavoro stesso come possibilità di una maturazione non solo professionale, ma anche umana. Dovremmo cercare di condividere il più possibile esperienze positive fra di noi che documentano questa possibilità.

La seconda riguarda la rete tra le imprese. All’interno di CDO sono nate e continuano a svilupparsi tante relazioni tra imprenditori, diverse tra di loro per modalità di aggregazione, per finalità, per dimensione, che riflettono tutte la vera natura dell’associazione: un luogo dove gli associati stessi prendono l’iniziativa per lavorare e costruire insieme. Queste aggregazioni tra gli associati sono fatti originali e preziosi, che vanno accompagnati, sostenuti, osservati e compresi perché possano diventare anch’essi patrimonio di esperienza comune.

Infine vorrei sottolineare la necessità della formazione sia professionale sia manageriale per le imprese profit e per le imprese non profit. Proprio il criterio ideale al quale ci riferiamo richiede un impegno continuo per trovare metodi e strumenti più adeguati possibili per uno sviluppo delle imprese, per dare continuità e persistenza a tutto ciò che nasce dalla nostra creatività e dalla nostra inventiva.

Alla politica chiediamo e continueremo a chiedere una tutela delle iniziative che nascono dalle persone e dalle varie associazioni e movimenti presenti nella società. Suggeriamo a tutti di seguire il principio della sussidiarietà che favorisce il connubio fra libertà e responsabilità, radice di una società democratica non solo nella forma, ma anche nella sostanza. Sappiamo di poter contare su politici sensibili a questi temi, tra i quali anche l’amico Raffaello Vignali che mi ha preceduto alla guida di CDO e che ringrazio per il grande lavoro che ha fatto, soprattutto per riaffermare “l’onore di fare impresa”.

L’emergere di una operosità riconoscibile per la sua diversità è la documentazione che la nostra amicizia ha la sua origine in qualcosa che la precede e la plasma dal di dentro. Riconoscere questa origine ideale non solo come generazione storica ma come generazione presente è un atto di ragionevolezza. Sono i fatti che parlano. Siamo noi i primi a essere sorpresi da questa novità che emerge in mezzo ai nostri limiti, errori e approssimazioni. Ma tutta la ricchezza umana e sociale che ci mette in grado di vivere in questa dinamica piena di costruttività e di accoglienza non è scontata, anzi essa rischia spesso di perdersi dentro una laboriosità quotidiana che si dimentica delle sue ragioni. Occorre quindi una fedeltà all’ideale e questo vuol dire una fedeltà alla nostra amicizia che riflette in sé la ragione che ha dato l’inizio alla CDO. Perché tutto possa esistere e perché tutto possa contribuire al bene di ognuno. Questa è la nostra originalità - in tutto.

Ma che cos’è il “bene” della persona? Che cos’è il “bene comune”? Il nostro lavoro, le nostre opere e la nostra compagnia risponderanno tanto più adeguatamente a queste domande, tanto più sapranno orientarsi al carisma di don Luigi Giussani che oggi viene reso presente attraverso don Julián Carrón. Questo carisma è l’origine sempre nuova della CDO e lo possiamo scoprire nella sua verità proprio attraverso il nostro lavoro e la nostra amicizia. E siccome più l’albero diventa grande, più ha bisogno di radici profonde, più crescono le nostre opere e più cresce la Cdo stessa, più ci conviene attingere a questa linfa vitale - ricordandoci che i frutti sono per tutti. Tutte le nostre attività e i nostri tentativi saranno tanto più significativi e “attraenti” quanto più saranno espressione di un’esperienza cristiana che diventa possibilità di umanità per tutti.

Il Meeting di quest’anno avrà il titolo “O protagonisti o nessuno”, un titolo che ci richiama nella sua semplicità evocativa al senso del nostro servizio reciproco: fare di tutto perché chi incontriamo possa diventare protagonista: della propria vita, del proprio lavoro, della propria impresa, del bene comune. E più uno lavora con questa intenzione, più diventerà protagonista lui stesso. In questo sta la reciprocità della nostra compagnia e un’autentica capacità di accoglienza e di dialogo con tutti.

Sono profondamente grato di poter collaborare con voi in questa grande e appassionante avventura umana, così piena di sfide, ma soprattutto così piena del desiderio di realizzare nuove forme di vita attraverso la fatica dell’impegno nel lavoro quotidiano.

Vi saluto con affetto

Bernhard Scholz


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Giangiacomo

sabato 3 maggio 2008

Veri federalisti

Federalismo è responsabilità. Credo che questa equazione debba essere ben chiara, soprattutto oggi che il centrodestra è chiamato al governo del Paese, con il carico di attese e di speranze che una parte maggioritaria della società del Nord ha riposto nel nostro schieramento. Se qualcuno pensa che il federalismo fiscale si risolva in una sfilata in costume medievale, farà bene a ricredersi al più presto. Anche perché i consensi ricevuti dal mondo della piccola impresa sono un investimento di fiducia che va messo subito a frutto. L’autonomia fiscale di Regioni ed enti locali è un progetto da troppo tempo in mezzo al guado. Ora occorre che il nuovo governo dia una sterzata, riconoscendo finalmente una corrispondenza fra i tributi versati dai cittadini e la conseguente spesa per opere pubbliche e servizi. Già oggi la Regione Piemonte, ad esempio, incassa circa 8 miliardi di tributi propri sui 12 totali di entrate. Si tratta però di compartecipazioni a gettiti di Iva, Irpfef o tasse solo formalmente regionali come l’Irap o parzialmente come il bollo auto, la cui natura viene determinata dallo Stato. Questa finta autonomia fiscale deve essere superata, il che presuppone, però, l’accollo di una responsabilità che finora era comodamente addossata ad altri. Questo è un Paese dove per troppi anni vi è stato uno scollamento tra procacciamento delle risorse e spesa, al punto che fino a non molti anni fa c’erano due ministeri distinti, Finanze per l’entrata e Tesoro per la spesa. Quando si compilano i bilanci, infatti, l’attenzione dei politici e degli amministratori è indirizzata, in misura quasi esclusiva, al versante della spesa. E’ considerato bravo e capace il ministro o l’assessore che riesce a rimpolpare i capitoli di propria competenza. Il tutto avviene in un’atmosfera quasi surreale, dove nessuno sembra preoccuparsi dell’origine di questi fondi: origine che è niente affatto misteriosa, perché i soldi provengono semplicemente dalle nostre tasche. Federalismo, invece, significa identificazione tra coloro che tassano e coloro che spendono: il che dovrebbe avere l’effetto immediato di una maggiore prudenza, o almeno consapevolezza che i cittadini e le imprese non possono essere tartassati solo perché il ministro o l’assessore possa fare “bella figura” a favore delle proprie clientele. La proposta dell’opposizione in Regione, di tagliare 500 milioni di spesa inefficiente e di sprechi, riducendo di altrettanto il debito che graverà sulle future generazioni, ha il merito oggettivo di aver riportato l’attenzione del dibattito politico su questi temi. Comprendo benissimo che la presidente Bresso, gli assessori e tutti i consiglieri di maggioranza, che vedono il bilancio come una “vacca da mungere”, non siano d’accordo e fingano di scandalizzarsi di fronte a questi tagli, che si ripercuotono sulla loro capacità di elargire favori a destra e a manca. Mi stupisce un po’ di più che questo onesto tentativo di contenimento della spesa da noi proposto non sia condiviso dal titolare delle Finanze, che i soldi li deve trovare.

see u,
Giangiacomo

mercoledì 12 marzo 2008

Contratti, Bombassei: potrebbe saltare tutto

"In mancanza di regole, non escludo che possa anche saltare tutto". Lo ha detto il vice presidente di Confindustria Alberto Bombassei parlando del progetto di riforma dell'accordo del '93. Bombassei si e' detto "spazientito e deluso" per la rottura tra i sindacati che hanno interrotto le trattative avviate sulla riforma.

Bombassei ha spiegato che "a questo punto le imprese potrebbero rivolgersi direttamente in futuro ai propri dipendenti per risolvere i problemi, non potendo farlo a livello nazionale o sindacale". "Dopo tre-quattro anni abbiamo tutto il diritto di essere spazientiti per non usare un termine più folcloristico - ha sottolineato -. L'obiettivo doveva essere essere quello di andare incontro all'interesse dei lavoratori, per mettere più soldi in busta paga e trovare un sistema più moderno di relazioni industriali. Non si è riusciti a farlo e per l'ennesima volta continueremo ad usare un sistema vecchio di 30-40 anni in un mondo completamente cambiato. Al di là della delusione credo anche che gli stessi dipendenti dovranno rendersi conto che la rappresentatività non so più quanto sia rappresentativa. Sembra che siano più le imprese ad avere a cuore l'interesse dei dipendenti che lo stesso sindacato o una parte del sindacato". Il vice presidente di Confindustria ha ribadito gli sforzi dell'associazione ed i tentativi di organizzare un tavolo con le parti per riformare un sistema che ormai tutti riconoscono superato, ma "nel momento in cui non riusciamo, malgrado la nostra volontà, a mettere tutti i sindacati intorno a un tavolo, dopo quattro anni abbiamo già dimostrato una pazienza fuori da ogni logica. Se non lo possiamo fare tutti assieme - ha insistito - lo faremo separatamente". Da anni, ha proseguito, "tutti abbiamo detto che le regole del '93 non sono piu' di attualità concordando di cambiarle. Di fatto il sindacato ha disatteso quelle regole nel rinnovare i contratti nazionali. Oggi quelle regole non ci sono più. Abbiamo sollecitato per scriverne di più moderne, ma se le condizioni non ci sono cosa rimane da fare ad un'azienda? Deve aspettare la riscrittura o che i sindacati si mettano d'accordo o che la Fiom si metta d'accordo con la Cgil? E' chiaro - ha spiegato ancora Bombassei - che doverosamente tante aziende daranno risposte autonomamente", anche con erogazioni unilaterali. "Se non si può rifare il sistema, quelle poche parti ancora valide possono saltare. Vuol dire rompere gli accordi del '93, che di fatto gia' non sono applicati, perché oggi c'é un po' di tutto, un po' di insalata russa, la solita cosa all'italiana", ha scandito Bombassei aggiungendo che "se la gente non si riconosce è chiaro che bypassa l'intermediario e va direttamente a risolvere il problema".


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Giangiacomo

mercoledì 20 febbraio 2008

Elezioni: non "giocare" con tesoretto e nomine

"L'extragettito fiscale e le nomine di primavera delle aziende pubbliche vanno tenuti fuori dal 'mercatino' elettorale che certa classe politica, irresponsabilmente, sta allestendo". E' il monito di
Edoardo Lazzati, presidente di Federmanager, in merito alle voci su possibili modifiche dell'ultim'ora al cosiddetto decreto milleproroghe ed ai rinnovi dei consigli di amministrazione delle societa' partecipate dallo Stato. "Sul primo punto - spiega Lazzati - le indiscrezioni che raccogliamo sembrano confermare un'improvvisa generosita' del Governo dimissionario verso i lavoratori dipendenti, tutelati da quei sindacati confederali che, guarda caso, hanno minacciato manifestazioni di piazza in piena campagna elettorale. Si parla, insomma, di improvvisi sgravi fiscali da inserire nel decreto milleproroghe. Lungi da ogni polemica relativa a chi spetti il 'tesoretto' e ben contenti se andra' a chi ne ha piu' bisogno - prosegue Lazzati - ci limitiamo, come federazione rappresentativa di oltre 160mila manager, quadri e ceti professionali, a ricordare che proprio da queste categorie produttive e' venuto un bel po' di extragettito fiscale e non certo come recupero dell'evasione, ma attraverso l'inasprimento del prelievo fiscale, visto l'aumento di 3 punti della pressione fiscale nei confronti dei ceti a reddito medio-alto. Allora, si poteva aprire un dibattito nel Paese su quale fosse il modo migliore per utilizzare questo 'tesoretto' (ricerca scientifica, export, innovazione, formazione professionale,ecc.) ma sembra che si stia scegliendo la strada demagogica della dilapidazione di queste risorse al primo 'vento' elettorale. "Stesso discorso, a leggere i quotidiani, sembra interessare le nomine delle societa' partecipate dallo Stato. Invece di gestire con la massima discrezione i rinnovi dei consigli di amministrazione in scadenza di societa' quotate e presenti sui mercati internazionali, se ne fa pubblica dichiarazione, si teorizza la prevaricazione politica a scapito di competenza e professionalita' e si ammette che le indicazioni sulle liste di maggioranza siano decisioni del 'Palazzo'. Come Federmanager - ribadisce Lazzati - non possiamo che inorridire di fronte a questo 'mercato delle vacche' che ha di fatto
soppiantato un serio ragionamento sui risultati conseguiti dai top manager delle societa' in questione, sugli accordi internazionali sottoscritti, sulle capacita' gestionali dimostrate. Siamo alla tragedia che finisce in farsa, alla fine di una legislatura che invece di chiudere con dignita' - conclude il presidente di Federmanager - sta dando l'ennesima dimostrazione di irresponsabilita' politica e di cattivo esempio amministrativo".

see u,
Giangiacomo