martedì 31 luglio 2007

I cattolici in fuga dal centrosinistra

I cattolici praticanti sono in fuga dal centrosinistra. Il dato emerge da un sondaggio della Ipsos presentato oggi a Roma. Il sondaggio, commissionato da Dl, mostra che le intenzioni di voto dei cattolici piu' assidui, quelli che vanno a messa una volta a settimana e sono impegnati nelle attivita' della loro parrocchia. Quelle verso in centrosinistra sono crollate dal 44% di febbraio 2005 al 26% del giugno 2007; di contro quelle verso il centrodestra sono passate dal 36 al 52%.

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Giangiacomo

lunedì 30 luglio 2007

Contro la rete del terrorismo ancora valida la dottrina Bush

Il dibattito sul libro di Magdi Allam Viva Israele e sul documento contro Allam sottoscritto da duecento intellettuali merita ancora qualche riflessione. In Viva Israele Allam attacca gli ambienti universitari che si occupano di islam come «collusi con un’ideologia di morte», citando anche un paio di esempi con tanto di nome e cognome. L’appello contro Allam nasce in ambienti dell’Università Cattolica di Milano - dove insegna uno dei docenti attaccati dal giornalista - ed è un perfetto esempio di ideologia cattolico-democratica.
Come ieri gli eredi di Dossetti tentavano di separare il mondo cattolico dall’abbraccio, ritenuto foriero di ingiustizie sociali, con l’idea di Occidente e con gli Stati Uniti adottando un atteggiamento sorridente con il comunismo, così oggi quegli stessi intellettuali cattolico-democratici esprimono il loro anti-americanismo mostrando indulgenza, se non simpatia, verso il fondamentalismo islamico.
Eppure il manifesto che critica Allam è stato firmato anche da persone le cui origini culturali sono del tutto diverse. Basti citare il giornalista Camille Eid, le cui denunce del terrorismo e della persecuzione dei cristiani in terra islamica non sono meno forti di quelle di Allam. Due problemi importanti emergono da questa controversia. Il primo riguarda il rapporto fra islam e democrazia. Dopo l’11 settembre il presidente Bush ha lanciato il progetto del «Grande Medio Oriente», la cui tesi di fondo è che i paesi islamici democratici non sono necessariamente filo-occidentali ma sono meno pericolosi delle dittature militari. La principale teorica di questa posizione, Condi Rice, è poi diventata segretario di Stato degli Stati Uniti. La vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi, quella di Erdogan in Turchia e quella probabile in Marocco di una formazione dell’islam politico hanno fatto venire dubbi a molti, fra cui Magdi Allam, sulla saggezza di questa strategia.
Il secondo riguarda la distinzione fra i fondamentalisti (come la direzione dei Fratelli Musulmani) che ammettono l’uso del terrorismo solo nel contesto palestinese e gli ultra-fondamentalisti (come Al Qaida) che giustificano e organizzano il terrorismo in tutto il mondo. Allam ha ragione nel ricordarci che Al Qaida è nata da una costola dei Fratelli Musulmani e se si apre la porta al terrorismo nel caso di Israele si rischia poi di giustificarlo ovunque. Ma è ragionevole anche la scelta di Condi Rice di profittare delle divisioni interne dei Fratelli Musulmani lasciando che la diplomazia americana apra un discreto dialogo con il gruppo detto «centro» (Wasat). La Rice è consapevole dell’ambiguità di questo gruppo, ma confida che la dinamica che si è messa in moto generi ulteriori divisioni e forse faccia emergere interlocutori presentabili.
Personalmente credo che la strategia del «Grande Medio Oriente» resti valida, e che mentre nel caso di Hamas le elezioni sono state avvelenate perché si sono tenute in uno Stato che ancora non c’è, altrove - dalla Turchia al Marocco - il voto non va sempre come ci piace, ma rispetto alle dittature e ai colpi di Stato crea in effetti un contesto meno favorevole al terrorismo internazionale. Sostenere questa seconda posizione non significa essere «collusi con un’ideologia di morte», anche se criticarla - come fa Allam - resta ugualmente legittimo.
di Massimo Introvigne, Il Giornale, 29 luglio 2007


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Giangiacomo

domenica 29 luglio 2007

No Tar, No Tav

Far pagare i danni alla polizia sarebbe un precedente molto poco serio

La sezione regionale del Piemonte della Corte dei conti sta chiudendo un’inchiesta per i danni subiti dallo stato, a Venaus, in Val Susa, con riguardo all’invasione, da parte di dimostranti, dei cantieri Tav.
Il tribunale di Torino ha in corso un processo per lesioni, devastazione e saccheggio, contro i dimostranti. Ma il procuratore della Corte dei conti del Piemonte non intende chiedere a loro i danni erariali causati mediante l’invasione e il danneggiamento dei cantieri.
Invece procede a carico della polizia, per danni causati all’immagine dello stato, mediante sue cariche, che ritiene eccessive. Non è chiaro se vi sia qualche procedimento penale, contro agenti, che abbiano usato violenza e causato lesioni personali immotivate. In tale caso, le vittime potrebbero chiedere un risarcimento.
Ma la tesi per cui gli agenti di polizia o il loro comandante possano essere chiamati a rispondere di danni all’immagine dello stato, in quanto hanno usato la forza, nei confronti di occupanti violenti di cantieri è assurda.
L’immagine dello stato italiano è stata danneggiata dall’occupazione violenta dei cantieri, cui è seguito lo stop al progetto. Ciò ha dato la sensazione di un governo che si piega pavidamente di fronte ai localismi e a dimostranti dotati di armi improprie.
Le azioni di sgombero dei cantieri da parte della polizia hanno ricostituito parzialmente l’immagine dello stato, facendo vedere che vi sono ancora autorità capaci di far rispettare le leggi e i diritti di proprietà. Ma gli operatori internazionali rimangono scettici sulla convenienza di investire in Italia, con riguardo alla tutela della libertà di iniziativa privata.
Se la tesi del procuratore regionale del Piemonte della Corte dei conti fosse accolta, la polizia sarebbe resa imbelle contro i violenti e s’ingenererebbe l’idea che la nostra forza pubblica non faccia parte di uno stato normale, ma di un musical in cui i ruoli fra le guardie e i ladri sono invertiti.
Paradossalmente, contro il magistrato regionale della Corte dei conti si potrebbero chiedere i danni per lesione dell’immagine dello stato, perché la sua azione impropria toglie credibilità alla polizia. Ma non è il caso di giocare sulle cose serie.


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Giangiacomo

mercoledì 25 luglio 2007

Salviamo i turchi dall'Iran

Le elezioni turche sono andate come prevedevano i sondaggi. Bush e Condi Rice lo sapevano da tempo, e per questo non hanno fatto neppure una telefonata ai leader dell'opposizione turca nelle settimane precedenti alle elezioni, confermando la loro fiducia all'islam politico di Erdogan, nonostante le perplessità di numerosi ambienti europei. Finita la campagna elettorale si può ora ammettere francamente che l'opposizione non era del tutto presentabile. I kemalisti del Chp candidavano diversi reduci dagli scandali di corruzione degli anni 1990. L'estrema destra nazionalista del Mhp - che entra in Parlamento superando il severo sbarramento del dieci per cento, ed è la vera sorpresa delle elezioni - ha portato in Parlamento un buon numero di figuri legati ai Lupi Grigi, nostalgici del Führer che in campagna elettorale hanno denunciato «complotti giudeo-massonici» e del cui movimento faceva parte l'autore dell'attentato del 1981 a Giovanni Paolo II, Ali Agca.
Il fatto che abbiano superato lo sbarramento del dieci per cento tre partiti - l'Akp di Erdogan, i kemalisti e gli ultra-nazionalisti - anziché due come nelle precedenti elezioni politiche fa sì che Erdogan, pure avendo aumentato notevolmente i voti rispetto alle ultime elezioni del 2002, dal 32% al 47%, abbia però perso seggi (340 più alcuni «indipendenti» rispetto ai 363 del 2002). Ha la maggioranza assoluta ma non quella dei due terzi che gli permetterebbe di eleggersi un proprio presidente della Repubblica. Rispetto ai sondaggi, si tratta del migliore tra i risultati possibili. Erdogan vince come era inevitabile, ma non stravince e per la presidenza della Repubblica o modifiche costituzionali dovrà venire a patti con gli altri partiti, mentre attende il referendum di ottobre che dovrebbe affidare al popolo l'elezione diretta del presidente ma probabilmente solo a partire dal prossimo decennio.
In campagna elettorale era certo lecito a molti europei fare il tifo contro Erdogan. Ora si tratta però di non regalare un grande Paese come la Turchia agli ayatollah di Teheran, che da mesi cercano di convincere Erdogan che l'Europa lo ha abbandonato e che un asse con l'Iran è il futuro della politica turca. Perché questo possa avvenire occorre tenere presenti due punti. Il primo è che da quasi mezzo millennio Turchia e Russia sospettano l'una dell'altra. Perché la Turchia non sia sedotta dall'offerta iraniana di costituire con Teheran un polo energetico e politico alternativo a Putin nell'Asia Centro-Occidentale, gli europei (come Washington consiglia) dovranno presentare a Erdogan offerte attraenti che contrastino seriamente il disegno egemonico di Mosca nella regione. Il secondo è che gli elettori di Erdogan - quasi metà dei turchi - non sono certo tutti fondamentalisti, ma sono fermi su alcune rivendicazioni religiose come la possibilità (non l'obbligo) per le donne di indossare il velo, anche negli uffici pubblici e nelle scuole. Intervistando sindaci di piccoli comuni turchi li ho trovati aperti sui diritti delle minoranze religiose e la condanna del terrorismo, ma fermi nella difesa del velo. Proprio su questioni simboliche come quella del velo (del resto già indossato dal 65% delle turche in barba alle leggi), l'Europa dovrà forse mostrare con Erdogan una certa flessibilità, nello stesso tempo vigilando contro ogni violazione dei diritti delle minoranze o deriva fondamentalista. Abbandonare il dialogo sarebbe molto pericoloso, e spingerebbe la Turchia nelle braccia dell'Iran.


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Giangiacomo

martedì 24 luglio 2007

Qualcosa che non c’è

Questa mattina pranzo con la mia amica Monica...

vorrei farvi soffermare sulla frase "Ho aspettato a lungo Qualcosa che non c'è Invece di guardare il sole sorgere" e lasciarvi riflettere... è o non è stupenda?

Tutto questo tempo a chiedermi
Cos'è che non mi lascia in pace
Tutti questi anni a chiedermi
Se vado veramente bene
Così
Come sono
Così

Così un giorno
Ho scritto sul quaderno
Io farò sognare il mondo con la musica
Non molto tempo
Dopo quando mi bastava
Fare un salto per
Raggiungere la felicità
E la verità è

Ho aspettato a lungo
Qualcosa che non c'è
Invece di guardare il sole sorgere

Questo è sempre stato un modo
Per fermare il tempo
E la velocità
I passi svelti della gente
La disattenzione
Le parole dette
Senza umiltà
Senza cuore così
Solo per far rumore

Ho aspettato a lungo
Qualcosa che non c'è
Invece di guardare il sole sorgere


E miracolosamente non
Ho smesso di sognare
E miracolosamente
Non riesco a non sperare
E se c'è un segreto
E' fare tutto come
Se vedessi solo il sole

Un segreto è fare tutto
Come se
Fare tutto
Come se
Vedessi solo il sole
Vedessi solo il sole
Vedessi solo il sole

E non
Qualcosa che non c'è


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Giangiacomo

domenica 22 luglio 2007

Controriforma pensioni, controsenso senza copertura economica

A seguito della cancellazione della riforma delle pensioni del Governo Berlusconi, ritengo che questa riforma sia un controsenso, visto il continuo aumento della capacità di lavoro legato alle condizioni di migliore qualità della vita, ovviamente facendo eccezione per i lavori usuranti.

Questo accordo infatti è un compromesso assai faticoso che non si sa neanche se risolve le contraddizioni interne al centrosinistra e che viene realizzato attraverso un enorme impiego di spesa pubblica che non ha copertura e che quindi e’ destinato a creare dei problemi giganteschi ai conti pubblici.

Lo conferma il senatore Maurizio Sacconi: "L’analisi delle fonti di copertura allarma ancor più circa la assoluta ambiguità e inconsistenza della copertura di bilancio":

1) 3,5 miliardi sarebbero garantiti dalla holding degli enti previdenziali, cui la Ragioneria ha riconosciuto solo oneri aggiuntivi e nessuna economia.

2) 4,4 miliardi verrebbero dall’aumento dei contributi per i parasubordinati. Entrate improbabili perché, come già sperimentato, diminuisce il numero dei lavoratori di questo tipo.

3) 2,1 miliardi dovrebbero venire dai tagli alle pensioni superiori a 3 mila e 300 euro o erogate dai fondi speciali. Questa appare l’unica voce credibile.

A ciò si deve aggiungere che la Ragioneria si è cautelata rispetto agli improbabili risparmi da enti previdenziali con l’automatico aumento dei contributi per tutti i lavoratori dipendenti e autonomi. Tutto ciò significa che se pochi avranno il modesto vantaggio di un piccolo anticipo dell’età di pensione, molti lo pagheranno in termini di taglio delle prestazioni previdenziali, aumento dei contributi e con ogni probabilita’ incremento del prelievo fiscale.


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Giangiacomo

sabato 14 luglio 2007

Il rinvio del rinvio

Non rimandare a domani quel che potresti fare oggi. L’aforisma di Benjamin Franklin non dev’essere popolare nei palazzi romani.
Come sembra dalle ultime notizie dei quotidiani, l’interminabile trattativa sulle pensioni starebbe per concludersi con un colpo ad effetto: il rinvio del rinvio.
Cerchiamo di ricostruire in cosa consiste questo nuovo record nell’arte del procrastinare.
Nel 2004, pressato dall’Europa per i conti pubblici in disordine e incapace di completare la riforma delle pensioni come anche previsto dalla legge approvata nel 1996, il governo Berlusconi lasciò in eredità ai posteri un incremento radicale e improvviso dei requisiti anagrafici per andare in pensione, il cosiddetto scalone. Si passava da 57 a 60 anni in una sola notte, quella del 31 dicembre 2007. Il Capodanno con scalone veniva collocato nella legislatura successiva, per non dovere difendere questo provvedimento draconiano di fronte alle piazze. Sarebbe stato un problema del governo futuro. Ora si sta facendo ancora peggio: arrivati ormai a ridosso dello scalone, si intende sostituirlo con uno scalino di un anno per poi attendere fino al 2010 e decidere cosa fare riguardo agli altri scalini. Insomma lo scalone è stato trasformato in scalini differiti. Come nei film di Walt Disney, questi scalini appariranno d’incanto al momento propizio. Tornando coi piedi per terra, questo rinvio del rinvio può costare fino a 9 miliardi di euro all'anno, che dovranno essere pagati tutti dai lavoratori, più a lungo da quelli più giovani. Non ci sono ragioni tecniche che giustifichino il nuovo rinvio. Non è vero che si avrà tempo di testare i premi che si vorrebbero concedere a chi andrà in pensione più tardi. Questi incentivi (pagati ovviamente anch’essi dai lavoratori più giovani) sono già stati introdotti nella passata legislatura e, a fronte di regali consistenti concessi soprattutto ai lavoratori più ricchi, hanno solo fatto ulteriormente lievitare la spesa previdenziale. La verità è che c'è solo una logica in queste scelte, come nel Dpef varato venerdì scorso, che rimanda ogni aggiustamento dei conti pubblici al 2009: si vuole guadagnare tempo, facendo fare le scelte impopolari a qualche altro politico o sindacalista (che spesso hanno ambizioni di carriera politica). Abbiamo sperimentato ampiamente questa prassi. La riforma previdenziale del 1996 comincerà ad entrare in vigore nel 2012 e si sta facendo di tutto per farla deragliare. I cosiddetti coefficienti di trasformazione (regole di calcolo della pensione sotto il nuovo metodo contributivo) dovevano essere aggiornati nel 2005. Altra patata bollente lasciata a questo governo che la sta «rimbalzando» al prossimo. Il fatto è che c’è un problema di incoerenza temporale in ogni legge o accordo ad attuazione differita. Se si offre domani la possibilità di rinegoziare un accordo sottoscritto oggi, chi rappresenta gli interessi dei lavoratori vicini alla pensione finirà per rinnegare gli impegni già presi, anche quando questi impegni hanno la forza cogente di una legge dello Stato. Leggi o accordi di questo tipo sono pura ipocrisia. Al tavolo il sindacato non ha voluto che si sedessero i giovani. O noi o loro hanno detto i leader sindacali. Capiamo bene perché. Non facendo oggi quel che si può fare domani saranno solo loro, i giovani, a pagare. Come avviene ormai da troppo tempo in questo Paese in cui si è maestri nel disinvestire sul futuro.

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«La messa in latino unisce i fedeli»

C’è stato chi, dalle colonne di un quotidiano, si diceva certo, anzi certissimo, che il Papa non l’avrebbe mai firmato. Chi, seguendo la dottrina Bush, ha combattuto la sua «guerra preventiva» contro un documento di cui non conosceva il contenuto. Chi ha addirittura detto che Papa Ratzinger liberalizzando l’antico messale avrebbe «sbeffeggiato» il Concilio.
Benedetto XVI, con il Motu proprio e la lettera pubblicati ieri, ha preso una decisione coraggiosa e per certi versi epocale, peraltro in linea con le posizioni che aveva espresso negli ultimi vent’anni su questa materia. Non si torna indietro, non si abolisce il Vaticano II.
I timorosi che hanno paventato un tuffo nell’oscurità del passato - come se i cinque secoli durante i quali si è usato il rito di San Pio V fossero una triste parentesi da dimenticare - possono stare tranquilli. Non ci saranno, almeno in Italia, frotte di fedeli agguerriti a bussare alle parrocchie pretendendo le vecchie celebrazioni, e chi va a messa la domenica non si troverà improvvisamente di fronte a liturgie sconosciute e vetuste.
Con una punta di ironia, lo stesso Ratzinger tranquillizza tutti spiegando che l’antico rito «presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina» che «non si trovano tanto di frequente». A nessuno sarà imposto o impedito alcunché, verrà soltanto impedito di impedire la celebrazione secondo il rito antico.Perché, allora, questa decisione, se in fondo riguarda una minoranza di fedeli, peraltro in qualche caso anche portatori di nostalgiche posizioni socio-politiche in stile ancien régime? «Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura», spiega Benedetto XVI, e «si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa».
Il messale antico non è stato mai proibito né mai abolito. Il Papa apre dunque la porta a tutti i tradizionalisti, compresi i fedeli lefebvriani, il cui mancato ritorno alla piena comunione, dopo questo documento, apparirebbe inspiegabile.
È comunque ben strano che chi invoca un giorno sì e l’altro pure maggiore democrazia nella Chiesa non tenga in alcun conto le richieste provenienti dal basso, dai gruppi di fedeli tradizionalisti. Così come è ben strano che chi quotidianamente combatte contro un certo potere clericale, lo invochi per affermare che i tradizionalisti non hanno il diritto alla celebrazione secondo il vecchio rito. Diciamola tutta: i veri «ispiratori» inconsapevoli del Motu proprio sono quei vescovi i quali negli ultimi anni, disattendendo la richiesta di Giovanni Paolo II che li aveva invitati ad essere generosi nell’autorizzare la vecchia messa, hanno opposto rifiuti e in diversi casi non hanno nemmeno voluto parlare con questi fedeli.
Salvo poi concedere, magari, le chiese della diocesi ai «fratelli separati» dell’ortodossia o ai protestanti, incuranti però di quei fratelli «uniti» nella fede anche se portatori di una diversa sensibilità liturgica. È stato detto che questa decisione papale mette a repentaglio l’unità della Chiesa.
In realtà nella Chiesa le diversità, anche liturgiche, sono state sempre considerate una ricchezza e non si vede perché un rito cattolico usato da grandi santi debba essere oggi considerato alla stregua di una pericolosa bomba ad orologeria. Andrebbe poi ricordato che questa preoccupazione per l’unità liturgica non è stata quasi mai invocata quando si è trattato di intervenire di fronte a certi abusi del postconcilio.
Si può dire messa con i burattini, si possono trasformare le liturgie in show, si può ballare e recitare il Padre Nostro con le melodie dei Beatles, si possono cambiare i testi, si può persino omettere parte del canone senza che qualcuno intervenga.
Solo il messale di San Pio V romperebbe l’unità.Quello del Papa è, invece, un atto in linea con le direttive di Giovanni Paolo II, e l’offerta benevola di una maggiore libertà nell’uso del rito antico per favorire la riconciliazione non può che essere bene accolta anche da quanti, come chi scrive, non sono tradizionalisti e si sentono pienamente a loro agio con la nuova messa ben celebrata.


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Libertà religiosa a rischio in tutta l'Asia

Medio Oriente
ARABIA SAUDITA(Abitanti: 24.293.844 – Cristiani: 840.000)
Portata più volte ad esempio, negativo, da Giovanni Paolo II come Paese che nega la libertà religiosa, l’Arabia Saudita vieta qualsiasi attività non islamica, anche individuale, ed il semplice possesso di libri e oggetti religiosi. Pur in mancanza di dati ufficiali, sono centinaia i cristiani in prigione, soprattutto per aver guidato riunioni di preghiera.
IRAN(Abitanti:: 65 milioni - Cristiani: 340.000)
I cristiani in Iran sono tollerati come cittadini di seconda classe, come una “minoranza etnica” separata, soggetta a molte limitazioni. Tutte le chiese sono “protette” dalla polizia, ma anche controllate. È proibita la missione. La mancanza di prospettive economiche e di libertà religiosa spinge i cristiani all’emigrazione. Le conversioni dall’Islam avvengono, ma in segreto e fuori dell’Iran. Fra i protestanti si registrano arresti, sequestro di materiale religioso e condanne a morte per musulmani convertiti. Talvolta tali condanne sono trasformate poi in ergastolo. Controlli, violenze, distruzioni, esecuzioni caratterizzano anche la setta dei Baha’i.
IRAQ(Abitanti:: 28 milioni - Cristiani: 1,5 milioni)
Due sacerdoti, uno caldeo, uno ortodosso, sono stati uccisi dopo essere stati fermati e rapiti da gruppi islamici. L’attuale situazione di anarchia e mancanza di sicurezza e di aumento del fondamentalismo, ha generato una totale insicurezza per la vita dei cristiani. In certe zone del Paese essi soffrono per stupri, rapimenti, pagamenti di riscatti, minacce, uccisioni sequestri, tutti perpetrati con moventi religiosi. Decine di chiese hanno subito attentati e distruzioni. Centinaia di migliaia di cristiani stanno fuggendo all’estero. Secondo alcune stime ufficiose, più del 50% dei cristiani ha lasciato il Paese.La mancanza di ordine, sicurezza e le crescenti violenze spingono all’emigrazione anche molte famiglie musulmane. Per tutti i profughi irakeni è emergenza umanitaria; la stragrande maggioranza dei profughi è cristiana.
PALESTINA(Abitanti: circa 2.900.000 – Cristiani: circa 200.000)
Formalmente liberi, i cristiani subiscono vessazioni ed anche attacchi violenti, come quello di metà giugno alle suore del Rosario a Gaza, di fronte ai quali le autorità non reagiscono. La situazione si è aggravata con la crescita dei fondamentalisti, da Hamas alla Jihad. A centinaia di migliaia hanno lasciato il Paese. A Betlemme venti anni fa erano l’80% della popolazione, ora sono il 10%. A Nazareth erano la maggioranza, oggi sono il 15%.
SIRIA(Abitanti: 17.585.540 - Cristiani: 920.000)
Più che di mancanza di libertà religiosa, si può parlare di mancanza di libertà, che accomuna tutti i siriani. La minoranza cristiana è comunque in diminuzione: nel 1973, i cattolici costituivano il 2,8% della popolazione, nel 2005 essi sono scesi all'1,9%.
TURCHIA(Abitanti: 68.109.469 – Cristiani: circa 100.000)
Paese formalmente “laico”, continua a non riconoscere personalità alle Chiese, che non possono neppure essere proprietarie dei loro edifici di culto. La Corte suprema ha di recente negato la qualifica di “ecumenico” al patriarcato di Costantinopoli, che tale è definito da 17 secoli da tutti gli ortodossi. E’ in forte crescita il fondamentalismo, manifestatosi nelle uccisioni di don Andrea Santoro, dei tre cristiani impiegati in una casa editrice protestante, degli attacchi ad altri religiosi.


Asia del Nord
RUSSIA(Abitanti: 141.377.752 - Cristiani: 33.223.771 )
Si può parlare per lo più di discriminazione: l’atteggiamento verso i musulmani è negativo in molte regioni della Federazione, per la facile associazione con il terrorismo ceceno. In aumento gli episodi di anti-semitismo. Un sondaggio del 2006 indicava la Russia come il Paese più antisemita tra quelli a maggioranza cristiana, con aggressioni e minacce alla comunità ebrea. Molti cittadini credono che l’adesione almeno nominale alla Chiesa russo-ortodossa sia il cuore dell’identità nazionale.


Asia del Sud
AFGHANISTAN(Abitanti: 31.889.923 - Cristiani e altri: 605.908)
La Costituzione nazionale si impegna a garantire la libertà di religione salvo poi porre la sharia a fondamento legale. La legge islamica prevede fino alla pena di morte per chi si converte dall’islam. Come ha rischiato Abdul Rahman nel 2006, convertitola cristianesimo, costretto a rifugiarsi in Italia per non essere giustiziato. Non esistono chiese pubbliche, l’unica ammessa è la cappella interna all’ambasciata italiana a Kabul.
BANGLADESH(Abitanti: 150.448.339 - Cristiani: 1.053.138)
Fondamentalismo e terrorismo islamico sono in crescita: sarebbero 50mila gli estremisti pronti ad attaccare anche obbiettivi religiosi, moschee, chiese, templi indù e buddisti. L’ultimo governo del BNP, per mantenere l’appoggio dei gruppi radicali, ha promosso la diffusione di un islam ortodosso, permettendo di fatto la persecuzione di comunità musulmane ritenute eretiche, come gli ahmadi. Sono attive 64mila scuole coraniche, la maggior parte fuori dal controllo statale.
INDIA(Abitanti: 1.075.784.000 - Cristiani: 66.698.608)
Sono almeno 215 gli attacchi subiti dai cristiani in India nel corso del 2006. Gli incidenti vanno dalla profanazione dei luoghi religiosi fino all'omicidio di esponenti della comunità di minoranza. Intense le violazioni alla libertà religiosa negli Stati governati dai nazionalisti indù, in crescita in quelli che si definiscono laici. Sotto tiro anche la comunità musulmana, che ha dovuto affrontare non meno di 70 attacchi violenti nello stesso periodo. Il tutto rientra nel quadro della “zafferanizzazione” dell’India, ovvero il “ritorno alle origini” predicato dai fondamentalisti indù, che usano la violenza per “riconvertire” gli aderenti alle minoranze religiose dell’Unione.
NEPAL(Abitanti: 28 milioni - Cristiani e altri: 600mila)
Dal maggio 2006 è uno Stato laico, dopo 238 anni di teocrazia indù. Ma non sono finite le frequenti persecuzioni contro i cristiani da parte di estremisti indù, con accuse di proselitismo Nell’aprile 2005 un coppia cristiana che dal 1995 gestisce un orfanotrofio è stata arrestata con l’accusa di battezzare bambini indù. Sono esplose bombe nell’aprile 2007 contro un orfanotrofio cristiano e nel luglio 2005 in una scuola gestita da suore.
PAKISTAN(Abitanti: 149.723.000 - Cristiani: 3.743.075)
Il Paese si dichiara sulla carta “di ispirazione musulmana” e garantisce nella Costituzione la libertà religiosa dei singoli. In realtà, è in vigore una legislazione ferocemente contraria ai non musulmani ed alle sette non riconosciute dell’islam. Brilla in negativo la legge sulla blasfemia, introdotta nel 1986, che fino ad ora ha prodotto circa 5.000 denunce. Di queste, 560 sono poi divenute condanne (da un minimo di cinque anni all’impiccagione) mentre altre 30 sono in attesa di giudizio. Inoltre, si sono registrati negli ultimi anni almeno 24 casi di omicidi extragiudiziari di “blasfemi”, per la maggior parte di fede ahmadi. Diversi testimoni parlano di un uso strumentale della legge, usato per eliminare oppositori politici e rivali economici.

Asia Centrale
KAZAKISTANAbitanti: 15 milioni – Cristiani: 1,6 milioni)
C’è una crescente intolleranza verso le minoranze religiose, come protestanti, musulmani Ahmadi, Hare Krisna e Testimoni di Geova, anche con una diffusa propaganda contraria sui media statali. Permane una mentalità “stile sovietico”: lo Stato ha ampi poteri per “combattere l’estremismo” e garantire “l’ordine pubblico”, concetti che la legge lascia indefiniti. Ai gruppi non registrati è proibita qualsiasi attività, anche riunirsi in case private per pregare. Chi lo fa è punito con pesanti multe, arresti e carcere. A molti gruppi l’autorizzazione non è data sebbene richiesta.
KIRGHIZISTAN(Abitanti: 5 milioni – Cristiani: 300mila)
Negli ultimi anni l’estremismo islamico ha operato contro i cristiani, soprattutto protestanti, con aggressioni e percosse, minacce e chiedendo la chiusura delle chiese. Nei villaggi la folla ha aggredito cristiani, intimando loro di andar via. Le autorità non intervengono e invitano i cristiani a essere “meno attivi” e operano uno stretto controllo sui finanziamenti dei gruppi religiosi. Nel dicembre 2005 nel meridione è stato ucciso un islamico convertito al cristianesimo.
TAGIKISTAN(Abitanti: 6,5 milioni - Cristiani e altri: 130mila)
C’è finora stata ampia tolleranza verso ogni fede. Ma desta preoccupazione nelle minoranze religiose una proposta di legge all’esame dei parlamento, che prevede che siano riconosciuti solo i gruppi religiosi con almeno 400 iscritti maggiorenni nel distretto e 800 nelle città (oggi ne bastano 10), proibisce l’insegnamento religioso nelle case e ai bambini fino a 7 anni, prevede il controllo statale su tutti i finanziamenti e le spese dei gruppi, inibisce ai leader religiosi uffici pubblici elettivi.
TURKMENISTAN(Abitanti: 5,5 milioni - Cristiani ortodossi: 129mila)
A dicembre è morto il dittatore Niyazov, autore del Ruhnama, testo “sacro” esposto in tutte le moschee e insegnato a scuola. Ma non ci sono stati miglioramenti e lo Stato pretende il completo controllo su tutte le religioni. I cristiani sono colpiti con multe, carcere, espulsioni, alla comunità cattolica armena è negato il riconoscimento e possono celebrare messa solo in territorio diplomatico. Pesanti gli interventi sugli islamici, con il mufti capo condannato a 22 anni di carcere e lo Stato che vuole scegliere i predicatori delle moschee e limita i visti per partecipare all’haji.
UZBEKISTAN(Abitanti: 26 milioni - Cristiani ortodossi 195mila)
Lo Stato vuole un pieno controllo su tutte le religioni e le loro attività, anche gli islamici e opera una sistematica persecuzione contro cristiani e altre minoranze religiose, puniti con multe e gravi condanne anche se si incontrano in casa per pregare. Chi è in carcere subisce violenze fisiche e mentali affinché abiuri. La polizia segreta istiga i funzionari amministrativi locali a vere campagne di intolleranza contro i cristiani. Colpiti anche i gruppi e i predicatori islamici che vogliano essere autonomi.

Asia dell’Est
CINA (Abitanti:: 1,3 miliardi - Cattolici: 12-15 milioni; protestanti: 35-50 milioni; ortodossi: 13 mila)
Due vescovi non ufficiali dell’Hebei sono scomparsi nelle mani della polizia: mons. Han Dingxian, 67 anni, scomparso da un anno; mons. Giacomo Su Zhimin, 74 anni, da più di 10 anni. Decine di vescovi sono in isolamento o sotto controllo, come anche i sacerdoti. Alcuni preti scontano la pena ai lavori forzati.Distruzione di chiese, arresti, battiture, condanne sono subiti anche da molti gruppi protestanti. Il piccolo gruppo ortodosso non è riconosciuto come religione ufficiale. Una persecuzione molto pesante – con condanne a morte e rischio di genocidio – è vissuta da uighuri del Xinjiang e dai buddisti tibetani.
COREA DEL NORD(Abitanti: 22.776.000 - Cristiani: 159.432)
La situazione della libertà religiosa è drammatica. Dalla fine della guerra civile (1953), l’unica fede ammessa è il culto del Presidente eterno Kim Il-sung e del Caro Leader Kim Jong-il. Si stimano in oltre 300mila i cristiani “scomparsi” durante i primi anni del regime comunista, mentre quasi 80mila buddisti sono stati costretti a fuggire nel Sud. I fedeli di ogni religione, se colti in preghiera, vengono condannati al lager. Ad oggi non vi sono spiragli di nessun genere per la libertà religiosa, se si esclude l’ortodossia russa “beneficiata” dalle pressioni di Mosca su Pyongyang.

Asia Sud Est
FILIPPINE (Abitanti: 84.538.000 - Cristiani: 75.830.586)
Il Paese, a maggioranza cattolica, è teatro di una guerriglia indipendentista musulmana che dura da oltre 30 anni. Nel sud, dove si verificano con più frequenza gli scontri, si sono verificati diversi attacchi ai cristiani locali da parte di milizie islamiche. Tuttavia, spiegano gli esperti, si tratta per lo più di guerriglieri infiltrati dall’estero, che cercano di mantenere aspro lo scontro con il governo.
INDONESIA(Abitanti: 234.693.997 - Cristiani: 22.530.623)
Terrorismo ed estremismo islamico, innestati su locali conflitti politici e interessi personalistici, rappresentano un reale ostacolo per la garanzia della libertà religiosa nel Paese musulmano più popoloso del mondo. Numerosi attentati sono avvenuti in festività religiose e contro obiettivi sacri. Nel 2006 sono stati condannati a morte, dopo un processo sommario, 3 cattolici in merito a scontri interreligiosi per cui nessun musulmano ha ricevuto pena così alta. Nel 2005 un gruppo di terroristi decapita 3 ragazze cristiane a Poso. Costruire un luogo di culto per le religioni di minoranze richiede anni di attesa per i permessi e le chiese domestiche vengono chiuse con la forza dagli estremisti. Solo dal 2004 si registrano 70 casi.
LAOS(Abitanti: 6.068.117 - Cristiani: circa 100.000)
Alla conquista del potere da parte dei comunisti, nel 1975, il governo dichiarò di voler eliminare il cristianesimo, in quanto “religione straniera imperialista”, furono espulsi tutti i missionari e ancora non è possibile entrare e operare per nessun istituto religioso internazionale con membri stranieri. Negli ultimi anni varie decine di cristiani protestanti sono stati arrestati, due ancora nell’agosto dell’anno scorso. Anche la Chiesa cattolica subisce pesanti controlli.
MALAYSIA(Abitanti: 24.821.286 - Cristiani: 2.060.166)
Da anni il governo promuove un’islamizzazione volta a favorire l’etnia maggioritaria dei malay. La libertà religiosa delle minoranze, ma anche dei musulmani, è fortemente limitata dall’ambiguità del sistema giuridico che verte su due legislazioni: quella costituzionale, che garantisce la libertà di religione e la legge islamica, che invece proibisce la conversione dall’islam. Gli “apostati” vengono puniti con la "riabilitazione" forzata, con il carcere e multe salate.
MYANMAR(Abitanti: 47.373.958 - Cristiani: 2.321.323)
La violazione della libertà religiosa è sistematica e legata alla persecuzione delle minoranze etniche. Colpisce indistintamente cristiani, musulmani e in alcuni casi anche i buddisti. La giunta militare usa il buddismo per mera propaganda imbavagliando la libertà d’espressione della comunità. Non sono ammessi missionari stranieri che risiedano stabilmente nel Paese. Il governo limita l’evangelizzazione, la costruzione e la manutenzione di chiese.
TAILANDIA(Abitanti: 62 milioni – Cristiani: 440mila, musulmani 2.850.000)
C’è una generale tolleranza verso tutte le religioni, ma un acceso conflitto nel meridione, zona a maggioranza islamica in un Paese buddista. Gli estremisti musulmani vogliono la secessione e ci sono continui attentanti e uccisioni da entrambe le parti, con più di 2.200 morti e oltre 3mila feriti dal 2003. Molto colpite le scuole statali, dove gli insegnanti buddisti vanno con la scorta dell’esercito. Ad aprile una bomba è esplosa davanti a una moschea.
VIETNAM(Abitanti: 82.689.518 – Cattolici: 6.180.000)
Fortemente perseguitati fin dal 1975, i cristiani, minoranza forte di oltre sei milioni di persone, hanno potuto resistere, malgrado arresti e deportazioni. Nel 2006, il desiderio del governo di entrare nel Wto ha favorito qualche concessione, ma ottenuto l’ingresso nell’Organizzazione, sembra ci sia qualche passo indietro, con nuovi episodi di vessazioni ed arresti, specialmente tra i montagnard. Perseguitati sono anche gli aderenti alla Chiesa unificata buddista del Vietnam.


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Due libri per l'estate...

Massimo INTROVIGNE, La nuova guerra mondiale. Scontro di civiltà o guerra civile islamica?, Sugarco
Dalla strage degli italiani a Nasiriya alle elezioni irachene del 2005, passando per lestragi di Madrid e dei bambini a Beslan, questo libro ripercorre una fase cruciale della Quarta guerra mondiale (la terza è stata la guerra cosiddetta “fredda” fra mondo libero e comunismo) che l’ultra-fondamentalismo islamico ha dichiarato all’Occidente.


Massimo INTROVIGNE, Il dramma dell'Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro delle civiltà, Sugarco
La crisi dell’Europa che deriva ultimamente dal suo ostinato rifiuto di riconoscere le sue origini cristiane. Il libro si muove come un pendolo che ritorna agli stessi temi fondamentali: l’identità cristiana dell’Europa insidiata dalla minaccia del relativismo, e il ruolo che l’Europa potrebbe svolgere – ma purtroppo non svolge – nel dialogo delle civiltà, unica alternativa ai pericoli apocalittici di un mondo dove, secondo un’espressione ripresa dallo stesso Benedetto XVI, “non a torto si è ravvisato il pericolo di uno scontro delle civiltà”.
Ed.
Sugarco

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domenica 8 luglio 2007

Fondazione Italia - Usa

Per approfondire i motivi e i contenuti dello storico e fondamentale legame di amicizia tra Italia e Stati Uniti, segnalo il sito della Fondazione Italia-USA, http://www.italiausa.org, di cui è presidente Massimo Teodori.

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Pensioni e tensioni: trema il governo Prodi

Quando Berlusconi ha detto che Veltroni è la controfigura di Prodi, vale a dire un potenziale moderato, impossibilitato ad agire come vorrebbe perchè ostaggio della sinistra dell’Unione e della CGIL, si è levato il consueto coro di critiche e di attacchi. Il punto vero è che non è possibile governare l’Italia facendo le riforme che servono per affrontare le sfide di oggi se al governo ci sono forze che hanno una visione anacronistica della società, dell’economia, della religione, della politica estera.
Lo dimostrano le polemiche dentro il governo sull’abolizione del cosiddetto "scalone", introdotto dalla nostra riforma delle pensioni con tre anni di anticipo proprio per dare modo ai cittadini di prepararsi, di fare i propri conti e di essere consapevoli di quanto li attendeva.

Ne vedremo delle belle. E lo stesso accadrà con la prossima Finanziaria e lo stiamo già vedendo con la riforma della giustizia (dove Di Pietro e Mastella non perdono occasione per litigare anche sui giornali).

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Un viaggio al Lingotto

Il lancio della candidatura di Veltroni a guidare il costituendo Partito Democratico si è concluso. Per qualche settimana i media ci hanno spinti su questo tema. Come responsabile di importanti Associazioni cattoliche sono stato colpito dall’attiva ed entusiasta partecipazione di suor Giuliana, coordinatrice del volontariato del Cottolengo. Questa almeno la percezione leggendo i titoli dei quotidiani (e.g. Suore e banchieri in fila da Walter) e osservando i generosi sorrisi in compagnia di Evelina Christillin organizzatrice delle recenti olimpiadi invernali. Pur sentendomi impegnato come cattolico non meno di Suor Giuliana, non ho sentito la necessità di portarmi al Lingotto e allora vorrei capire ed eventualmente rimediare.
Perché sui quotidiani sia stato dato questo spazio alla presenza di una religiosa attiva in una Istituzione così benemerita è abbastanza evidente. Il titolo citato sopra riassume bene le attenzioni elettorali cui guarda il neonato Partito Democratico costituito grosso modo per 2/3 da ex PCI e da 1/3 ex DC.
Ma quale potrebbe essere l’interesse per il mondo cattolico?
La risposta probabilmente è così sintetizzabile “Nel Partito Democratico ci sono i cattolici e allora bisogna rafforzare la loro presenza. Inoltre è noto e consolidato che a sinistra tutti condividono l’attenzione per i poveri, gli ultimi, gli emigrati, l’ingiustizia e quindi perché non sottolineare e dare una mano? ”.
Ma l’aiuto ai poveri, agli emigrati e in generale agli ultimi non sono esclusiva dei cattolici e neanche dei partiti della Sinistra. Infatti, se ti guardi attorno non trovi nessuno che si dichiari per l’ingiustizia e per l’incremento della povertà…
Mi viene perciò il sospetto che sia proprio il fascino dell’eguaglianza-miraggio “sinistra=solidarietà” il motore della trasferta di alcuni cattolici al Lingotto per osannare Veltroni candidato sotto le insegne del motto di don Milani “I care”.
Una passeggiata proprio dal Cottolengo al Lingotto, in una Città governata e dominata ininterrottamente da oltre 32 anni da questa Sinistra, potrà certamente verificare l’eguaglianza di sopra senza scomodare i massimi sistemi.
Il percorso è semplice, ma è assai didattico e potrebbe proprio lui, con la sua realtà fattuale, aiutarci a capire. Il vento non si vede, ma se si vedono i segni, possiamo intuire che “aria tira”.
Si parte dalla Casa della Divina Provvidenza dove la vita degli uomini, di ogni uomo (anche di quelli “difettosi”) è sacra; vita come dono di Dio e non il soddisfacimento di requisiti psicologici, genetici o morfofunzionali stabiliti da medici che giocano con la statistica.
Usciti dal Cottolengo, affrontiamo Porta Palazzo: il dominio dell’illegalità. Troviamo decine di nordafricani nulla facenti, a parte lo spaccio di stupefacenti e la vendita di merce rubata. I commercianti rimasti sono residuali e rassegnati alla “nuova legge imposta dai nulla facenti” e non osano mettere il naso fuori dal negozio. Si sale leggermente per via della Consolata dove salta all’occhio l’edificio ben curato delle Suore di Sant’Anna, quelle fondate dai Marchesi di Barolo. Curioso: un laico, un sindaco di Torino, che fonda un ordine religioso!. Le Suore ospitano la scuola fondata dal Marchese Carlo Tancredi di Barolo, scuola pubblica (aperta a tutti) paritaria (riconosciuta dallo Stato) desiderata dalle famiglie (lunghe liste di attesa). Il Contributo della Giunta comunale di Torino, che è la stessa di Roma (motto: I care), è di 4,36 euro/anno per bambino. A meno di cento metri c’è una scuola materna comunale, contributo del Comune 6000 euro/anno per bambino.
Dopo piazza Savoia non si può non notare, sempre in via della Consolata, il maestoso palazzo dei Marchesi Saluzzo di Paesana con la bella libreria delle Paoline. In vetrina immagini di arte sacra, titoli importanti: Deus Charitas est… e nel palazzo di fronte il pornoshop con i divieti per i minori di 18 anni. Per qualcuno semplicemente due proposte educative e culturali.
Proseguiamo badando a non inciampare nelle lastre di pietra sconnesse della pavimentazione di via Cernaia (il lavoro non si può fare bene una sola volta?) e prendiamo poi corso Vittorio facendo i portici. Per le Olimpiadi è stato un fatto un grande sforzo finanziario per mettere un po’ di ordine. Bene, andiamo avanti, non pensiamo né a quanto denaro è stato speso per tinteggiare i portici (10 milioni di euro), né alla loro conversione in aiuti al Cottolengo, né ai graffiti sui muri altrimenti ci vien male.
A parte i costi, questi graffiti cosa significano? Saranno i segni di un deficit educativo? A proposito di educazione guardandomi indietro mi viene in mente che anche al Cottolengo c’è una scuola con 200 allievi, anche qui, scuola pubblica paritaria e ogni anno la carità del Cottolengo ripiana un deficit di circa 500.000 euro. Contributo del Comune di Torino? 4,36 euro/bambino per anno.
Per evitare i cantieri di via Nizza facciamo via Saluzzo e passiamo San Salvario anche se sembra di essere tornati indietro a Porta Palazzo. Mi domando: perché anziché migliorare Porta Palazzo si è fatta un’altra Porta Palazzo? Misteri.
Passiamo su via Madama Cristina e ci sentiamo subito più sicuri man mano che si va verso le Molinette, il più grande ospedale d’Italia intitolato a San Giovanni Battista. Per tutti un aiuto per la salute, pagato con le nostre tasse. Ma anche al Cottolengo c’è un ospedale dove si curano i cittadini. Chi si fa carico delle spese? Lasciamo perdere, l’importante è che siano curati (we care). Meglio non interrogarsi troppo…
Percorrendo via Nizza giungiamo presto al Lingotto, ma con la coda dell’occhio da corso Spezia
vediamo là in fondo il S.Anna, l’ospedale ostetrico intitolato alla nonna di Gesù. Non sappiamo se indugiare un momento o no. Ci piacerebbe pensare alle 4500 mamme che lì ogni anno vanno a partorire il loro bimbo ma non possiamo non pensare alle 3500 mamme/anno, di fatto lasciate sole, che vanno ad abortite il loro bambino e ai 3500 bambini/anno che avremmo potuto abbracciare e che avrebbero potuto allietare le nostre case e scuole.
A questo punto penso ce ne sia abbastanza per aprire gli occhi e cogliere la differenza tra miraggio e realtà, tra gli slogan enunciati e quelli vissuti, la necessità di agire per curare il disagio e per prevenirlo, ma soprattutto per prendersi qualche responsabilità tenendo conto che anche chi tiene il sacco coopera all’impresa.
Al termine di questa passeggiata nella realtà torinese penso si capisca bene soprattutto la differenza tra un “Charitas Christi urget nos” di San Giuseppe Benedetto Cottolengo praticato e vissuto da migliaia di persone senza pubblicità e un “I care “ preso in prestito a Barbiana nella scuola cattolica di don Milani, adattato e usato come specchietto per le allodole al Lingotto.
E’ proprio vero “Charitas Christi urget nos” basta e forse può risparmiare anche la strumentalizzazione. Quindi ho fatto bene a non andare alla recita del Lingotto.

M.C.

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martedì 3 luglio 2007

Terza generazione di terroristi fai-da-te

I tentativi di attentato a Londra e a Glasgow - per fortuna senza vittime - e il discorso del nuovo premier inglese Brown hanno immediatamente riproposto il dilemma. Si tratta di Al Qaida, come sostiene il primo ministro britannico, o di dilettanti allo sbaraglio, come suggeriscono alcuni esperti, i quali pensano che la minaccia di Al Qaida sia sistematicamente sopravvalutata dalle amministrazioni inglese e americana? Forse occorre riformulare la domanda, e tornare a chiedersi anzitutto che cos'è Al Qaida.
Al Qaida è stata nella sua prima generazione - le cui attività sono culminate negli attentati dell'11 settembre 2001 - una formazione terrorista classica, una sorta di esercito disciplinato e bene addestrato (in Afghanistan) dove i capi decidevano quali attentati compiere, sceglievano gli esecutori e pianificavano le modalità. L'11 settembre è stato insieme il trionfo e l'inizio della fine per la prima generazione di Al Qaida, perché la reazione americana ha costretto la cupola a rifugiarsi in una remota clandestinità e a limitare le comunicazioni, e i campi di addestramento afghani sono stati chiusi.
Si è passati così alla seconda generazione, che ha ottenuto il suo maggiore successo con l'attentato di Madrid dell'11 marzo 2004. Dal modello esercito si è passato al modello guerriglia, dall'organizzazione verticale e gerarchica a una sorta di franchising. La cupola di Al Qaida trasmetteva parole d'ordine e istruzioni in modo indiretto - attraverso agenti ed emissari che si erano formati in gran parte ancora in Afghanistan - a cellule indipendenti, che una volta formate erano in grado di agire in qualunque momento, talora coordinando gli attentati con i capi dell'organizzazione di Bin Laden (è il caso di Madrid), talora decidendoli autonomamente.
Anche questo modello è oggi in crisi. Qualunque cosa se ne dica e se ne scriva, Bush e Blair (e il terzo «B», Berlusconi, finché è stato al governo) hanno conseguito vittorie decisive nella guerra al terrorismo di Al Qaida, anche se questa non è certo ancora finita. Ma centinaia di agenti sono stati arrestati, e la cupola è principalmente impegnata a nascondersi in qualche remota area fra Pakistan e Afghanistan, non a preparare attentati. La dirigenza della seconda generazione emersa in Irak si è rivelata inaffidabile e ribelle, tanto che Zarqawi è stato probabilmente ucciso dagli americani grazie a informazioni fatte arrivare ai marines dagli stessi capi di Al Qaida.
Ma è nato un terzo modello, dove l'organizzazione è ridotta al minimo, e tutto lo sforzo è consacrato a trasmettere propaganda e istruzioni via pubblicazioni clandestine, videocassette e Internet. La cupola non sa più nemmeno chi esattamente riceva queste istruzioni: sono messaggi in bottiglia, lanciati nel mare del cyberspazio - ma anche delle moschee radicali - che possono essere raccolti da chiunque. Chi riceve il messaggio deciderà autonomamente quando e come agire. Si tratta, certo, di un terrorismo autogestito, spesso pasticcione e che fallisce gli attentati. Ma la sua imprevedibilità rende la terza generazione di Al Qaida per altri versi ancora più pericolosa, perché se è possibile identificare gli agenti di un'organizzazione è quasi impossibile censire gli aspiranti kamikaze fai da te.
Peraltro, le tre generazioni di Al Qaida operano insieme. La cupola ha ancora uomini che sognano un grande attentato di prima generazione. Ci sono ancora cellule della seconda generazione. Ma Londra e Glasgow mostrano che è la terza che ora preoccupa.


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lunedì 2 luglio 2007

Mano tesa verso Pechino

Chi si aspettava dalla «Lettera ai cattolici cinesi» di Benedetto XVI un atteggiamento remissivo nei confronti del governo è rimasto spiazzato. Certo, la lettera è stata preparata da discussioni diplomatiche con Pechino, che trova soddisfazione su tre punti. Sono revocate le direttive pastorali, sia pubbliche sia discrete, che autorizzavano forme di disobbedienza civile nei confronti dello Stato. Si esprime disponibilità a trattare con il regime sulle province ecclesiastiche, il che significa che la Chiesa è pronta al dialogo sulla questione di Taiwan. E non si esclude «un accordo con il governo» sulle future nomine di vescovi, fermo restando che ogni nomina spetta sempre e solo al Papa. In concreto, sembra delinearsi una disponibilità alla soluzione in vigore in Vietnam, e che ha illustri precedenti storici in Europa, secondo cui la Chiesa sottopone allo Stato una rosa di candidati tra i quali è il governo a esprimere la sua preferenza.
A queste possibili concessioni fa però da pendant un fermo richiamo ai principi non negoziabili, o «irrinunciabili», che il Papa ha spesso ricordato in questi anni anche ai governi europei. Il primo riguarda la vita e la famiglia. La Chiesa non può rinunciare in nessuna parte del mondo, neppure nella Cina che ha il record mondiale degli aborti e ha preteso di limitare per legge il numero dei figli, ad annunciare «il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia». Non ci sarebbe libertà religiosa se la Chiesa fosse lasciata libera di predicare sulla fede ma non potesse denunciare in modo «vivo e stringente» le «forze che in Cina influiscono negativamente sulla famiglia».
Il secondo principio non negoziabile riguarda la struttura stessa della Chiesa, «petrina» e «apostolica». In Cina dal 1957 esiste una «Chiesa patriottica» controllata dal governo, che ha mantenuto la successione apostolica - nel senso che la sua linea di successione episcopale è riconosciuta da Roma - ma ha rotto la comunione con Roma ed è oggettivamente scismatica. Le sue ordinazioni e i suoi riti sono considerati dal Papa validi ma illeciti. La lettera rileva la compresenza in Cina di tre tipi di vescovi: quelli clandestini fedeli a Roma; quelli della «Chiesa patriottica» che però sono stati segretamente ricevuti nella comunione con Roma (anche se non sempre lo hanno rivelato ai loro fedeli, e ora Benedetto XVI li esorta a farlo); e il «numero molto ridotto» di vescovi «patriottici» che non si sono riconciliati con Roma. I fedeli possono del tutto lecitamente partecipare alle Messe dei primi e dei secondi, e dei sacerdoti da loro ordinati; quelle dei terzi sono valide ma illecite, e il fedele può assistervi solo quando non possa «senza grave incomodo» trovare una Messa celebrata in comunione con il Papa. Quanto al «Collegio dei Vescovi Cattolici di Cina», riconosciuto dal regime e che riunisce i «patriottici», per il Papa non si tratta di una vera conferenza episcopale e professa anzi «elementi inconciliabili con la dottrina cattolica».
Per la prima volta, il Papa rende pubblica una verità nota al regime e agli specialisti: l'esperimento della Chiesa patriottica è fallito, tranne un «numero molto ridotto» i suoi vescovi si sono riconciliati segretamente con Roma. Invita il regime a prenderne atto, e a riconoscere una Chiesa unita guidata da una vera Conferenza Episcopale, che sarà disponibile al dialogo con il governo. Ma nel rispetto dei «principi irrinunciabili»: comunione con il Papa e possibilità di parlare chiaro sulla vita e sulla famiglia.

di Massimo Introvigne, Il Giornale, 1 luglio 2007

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domenica 1 luglio 2007

Ma siamo sicuri che Blair sia cattolico?

Tony Blair di qui, Tony Blair di là, bravo bravissimo, di qualità! Come di fronte a un novello Figaro, è scoppiato l'amore di un certo mondo cattolico per l'ex primo ministro inglese. Motivo? Pare che Blair voglia convertirsi alla Chiesa di Roma. Però c'è una questione che non ci convince. Va bene plaudire all'aplomb britannico di Tony, il quale maneggia questa conversione quasi si trattasse di nitroglicerina: va avanti da anni, piano piano, senza dire ancora sì o no, per non irritare la Chiesa anglicana rischiando di sconvolgere le tradizioni della Corona d'Inghilterra. Ma il punto cruciale è un altro: un uomo politico, e che ha governato una nazione importante, va giudicato in ragione della casacca che indossa, o piuttosto sulla base di ciò che fa? Detta brutalmente: Blair è bello e buono se diventa cattolico; e invece brutto e cattivo se rimane anglicano? Si tratta di capire che cosa vuol dire convertirsi per un uomo che ha esercitato il potere pubblico ai massimi livelli. Un uomo al quale la legge degli uomini e la legge di Dio affidano un compito appassionante e terribile: promuovere il bene comune. Perché governare, fare alleanze politiche, gestire una nazione, scrivere leggi significa in una sola parola questo: lavorare per il bene del tuo popolo. Ora, qui bisognerà intendersi una volta per tutte: Tony Blair o Angela Merkel, Romano Prodi o Luis Zapatero, non meritano dieci con lode o quattro in pagella in ragione della fede che professano, o che non professano. Il voto dovranno guadagnarselo sul campo. Altrimenti certi battimani un po' infantili per il Blair che si converte servono solo ad aumentare la confusione nello stesso accampamento cattolico. Alimentando quel mostro concettuale che è il «prodismo clericale»: cioè l'idea - che tanti danni ha fatto e continua fare al nostro povero Paese - in base alla quale Romano Prodi «è uno di noi, è cattolico, va a messa la domenica, ergo va votato». Un'assurdità che copre come un velo pietoso le contraddizioni e gli svarioni infilati dal nostro uomo in tutti gli snodi etico-giuridici più clamorosi, dalla fecondazione artificiale alle coppie gay, passando per l'aborto.Ora, si dà il caso che la Gran Bretagna del «convertito» Tony Blair sia oggi uno dei Paesi più permissivi al mondo in materia di manipolazioni sulla vita umana. Apripista dell'aborto legale nel 1967 con l'Abortion Act, l'Inghilterra è la patria della fecondazione artificiale, che è stata disciplinata con generosa larghezza nel 1990. È nella terra di Albione che negli anni Ottanta fu inventato dal Comitato di Lady Mary Warnock il concetto di pre-embrione, funzionale a dare il via libera all'uso di esseri umani come cavie di laboratorio. Ora, non risulta che Blair abbia mostrato segni di un pur pallido ripensamento su questa linea, che è lontana anni luce dalla dottrina sociale della Chiesa in campo bioetico. Nulla ha fatto o ha detto quando era un potente e popolarissimo primo ministro; nulla ha detto o fatto ora, che sembra avvicinarsi alla sua «conversione». Intendiamoci: non è che per riconoscere l'umanità del concepito ci voglia il battesimo o la fede cattolica. Però, mister Blair, un pochino di coerenza, please. Perché qui sta il nocciolo della questione: se Blair desidera abbracciare sinceramente il Credo cattolico, che qualcuno spieghi a lui e ai suoi fans che non si tratta di iscriversi al Circolo degli amici del Bridge, o al Club dei politici golfisti. E che sarebbe segno di una vera conversione ascoltare Tony Blair che sconfessa pubblicamente quegli atti e quelle leggi che, obiettivamente, fanno a pugni con la sua nuova fede. Thomas Stearns Eliot, inglese e cattolico, aveva ben compreso che la cosa più importante per un politico è la capacità di pensare e agire secondo categorie cristiane, anche senza esserlo: «Un uomo di Stato - scrive Eliot nel '39 - scettico o indifferente che operi in un quadro di riferimento cristiano potrebbe essere molto più efficace di un uomo di Stato praticante costretto a conformarsi a un quadro di riferimento secolarizzato». Ogni riferimento a fatti e personaggi reali è puramente voluto.
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il Giornale, 30 giugno 2007

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