lunedì 2 luglio 2007

Mano tesa verso Pechino

Chi si aspettava dalla «Lettera ai cattolici cinesi» di Benedetto XVI un atteggiamento remissivo nei confronti del governo è rimasto spiazzato. Certo, la lettera è stata preparata da discussioni diplomatiche con Pechino, che trova soddisfazione su tre punti. Sono revocate le direttive pastorali, sia pubbliche sia discrete, che autorizzavano forme di disobbedienza civile nei confronti dello Stato. Si esprime disponibilità a trattare con il regime sulle province ecclesiastiche, il che significa che la Chiesa è pronta al dialogo sulla questione di Taiwan. E non si esclude «un accordo con il governo» sulle future nomine di vescovi, fermo restando che ogni nomina spetta sempre e solo al Papa. In concreto, sembra delinearsi una disponibilità alla soluzione in vigore in Vietnam, e che ha illustri precedenti storici in Europa, secondo cui la Chiesa sottopone allo Stato una rosa di candidati tra i quali è il governo a esprimere la sua preferenza.
A queste possibili concessioni fa però da pendant un fermo richiamo ai principi non negoziabili, o «irrinunciabili», che il Papa ha spesso ricordato in questi anni anche ai governi europei. Il primo riguarda la vita e la famiglia. La Chiesa non può rinunciare in nessuna parte del mondo, neppure nella Cina che ha il record mondiale degli aborti e ha preteso di limitare per legge il numero dei figli, ad annunciare «il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia». Non ci sarebbe libertà religiosa se la Chiesa fosse lasciata libera di predicare sulla fede ma non potesse denunciare in modo «vivo e stringente» le «forze che in Cina influiscono negativamente sulla famiglia».
Il secondo principio non negoziabile riguarda la struttura stessa della Chiesa, «petrina» e «apostolica». In Cina dal 1957 esiste una «Chiesa patriottica» controllata dal governo, che ha mantenuto la successione apostolica - nel senso che la sua linea di successione episcopale è riconosciuta da Roma - ma ha rotto la comunione con Roma ed è oggettivamente scismatica. Le sue ordinazioni e i suoi riti sono considerati dal Papa validi ma illeciti. La lettera rileva la compresenza in Cina di tre tipi di vescovi: quelli clandestini fedeli a Roma; quelli della «Chiesa patriottica» che però sono stati segretamente ricevuti nella comunione con Roma (anche se non sempre lo hanno rivelato ai loro fedeli, e ora Benedetto XVI li esorta a farlo); e il «numero molto ridotto» di vescovi «patriottici» che non si sono riconciliati con Roma. I fedeli possono del tutto lecitamente partecipare alle Messe dei primi e dei secondi, e dei sacerdoti da loro ordinati; quelle dei terzi sono valide ma illecite, e il fedele può assistervi solo quando non possa «senza grave incomodo» trovare una Messa celebrata in comunione con il Papa. Quanto al «Collegio dei Vescovi Cattolici di Cina», riconosciuto dal regime e che riunisce i «patriottici», per il Papa non si tratta di una vera conferenza episcopale e professa anzi «elementi inconciliabili con la dottrina cattolica».
Per la prima volta, il Papa rende pubblica una verità nota al regime e agli specialisti: l'esperimento della Chiesa patriottica è fallito, tranne un «numero molto ridotto» i suoi vescovi si sono riconciliati segretamente con Roma. Invita il regime a prenderne atto, e a riconoscere una Chiesa unita guidata da una vera Conferenza Episcopale, che sarà disponibile al dialogo con il governo. Ma nel rispetto dei «principi irrinunciabili»: comunione con il Papa e possibilità di parlare chiaro sulla vita e sulla famiglia.

di Massimo Introvigne, Il Giornale, 1 luglio 2007

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Giangiacomo

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