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sabato 20 giugno 2009

MORTI IMPROVVISE DI BAMBINI IN USA PER PSICOFARMACI: C'E' CORRELAZIONE

Cari lettori,
in virtù dell'alto interesse di questa notizia per la salute pubblica anche in Italia, vi prego di dare la massima visibilità possibile


Pubblicati i risultati di un nuovo studio in USA finanziato dalla FDA: c’è correlazione tra l’uso di psicofarmaci per i bambini iperattivi (usati anche in Italia) e morti “improvvise ed inspiegabili”. Poma (Giù le Mani dai Bambini): “Nulla di inspiegabile, questi psicofarmaci sono metanfetamine, ovvero droghe: quindi in caso di assunzione prolungata uccidono”. Bianchi di Castelbianco (psicoterapeuta dell’età evolutiva): “Questi bambini sono esposti a rischi di morte per curare una sindrome fantasma che probabilmente neppure esiste. Effetti avversi rari, solo 1 bimbo su 10.000? Non sono loro figli, perché allora ragionerebbero diversamente”

TORINO - La Food and Drug Administration (FDA) ed il National Institute of Mental Health hanno finanziato un nuovo studio sugli effetti avversi derivanti dalla somministrazione ai bambini degli psicofarmaci utilizzati per sedare l'iperattività. I risultati sono stati resi noti in questi giorni in America: la ricerca, coordinata da Madelyn Gould, Professore di epidemiologia e Psichiatria pediatrica alla Columbia University, ha analizzato 564 casi di decessi di minori trattati per l'ADHD nel decennio tra il 1985 e il 1996, e l'esito è quello di un possibile legame esistente tra l'assunzione di medicinali contro la Sindrome da Deficit dell'Attenzione e Iperattività (ADHD, ovvero bambini troppo agitati e distratti) ed il rischio di "morte improvvisa". “Gli eventi rilevati sono ancora da approfondire e comunque rari”, ha dichiarato il coordinatore della ricerca, “meno di un bambino ogni 10.000”, e peraltro attualmente la Food and Drug Administration (l’FDA, il massimo organismo di controllo sanitario in USA) non prevede di modificare le linee guida sull'impiego di questi prodotti, autorizzati all’uso anche in Italia. “Questo studio rileva una significativa associazione, o un segnale di correlazione, tra decessi improvvisi ed inspiegabili e l’assunzione di farmaci per l’ADHD - sottolineano gli autori della ricerca - in particolare per quanto riguarda la terapia a base di metilfenidato” (Ritalin® e prodotti simili). Ed aggiungono: “I risultati di questa ricerca invitano a puntare l'attenzione sui possibili rischi per bambini e adolescenti derivanti dall’assunzione di medicinali stimolanti”. L'invito degli specialisti ai genitori preoccupati è di discutere delle eventuali perplessità con il medico, evitando di sospendere di propria iniziativa la terapia ai loro figli, anche per evitare gli effetti avversi tipici della repentina interruzione dell'assunzione di queste droghe. Luca Poma - giornalista e portavoce di Giù le Mani dai Bambini®, il più rappresentativo comitato italiano per la farmacovigilanza pediatrica - ha dichiarato: “è l'ennesimo campanello d'allarme sui pericoli derivanti dall'assunzione di questi psicofarmaci in tenera età. È sconcertante poi l'ipocrisia: qui di ‘inspiegabile’ non c'è proprio nulla, questi bambini muoiono in diretta relazione con l'assunzione di queste metanfetamine, ma i poteri forti influenzano l'FDA in USA, che trae sostentamento finanziario dalle multinazionali farmaceutiche che dovrebbe controllare, ed anche l'Agenzia del Farmaco e l'Istituto Superiore di Sanità, che seguono le ‘mode’ prescrittive americane: questi enti che dovrebbero vegliare sulla sicurezza dei nostri figli fanno come gli struzzi e nascondono la testa sotto la sabbia. D'altra parte, se ci sono gravi complicazioni solo per 1 bambino ogni 10.000 non c'è mica da preoccuparsi, dicono loro, perchè mai applicare restrizioni più prudenti?" Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ha dichiarato al riguardo: “Il problema è che gli psicofarmaci hanno pregi e difetti, ma perché esporre a pericolo di morte dei bambini che non avrebbero alcun bisogno di esporsi a questo rischio? Questi farmaci sono proprio necessari, dato che molti mettono addirittura in dubbio l’esistenza stessa della sindrome ‘ADHD’, che è considerata sempre più una ‘sindrome fantasma’, una moda prescrittiva del XX° secolo com’era all’epoca l’isteria femminile?”

www.giulemanidaibambini.org

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Giangiacomo

lunedì 14 gennaio 2008

La sanità è in pensione

Il regno degli over sessanta dove la previdenza si mangia tutto. È l'Italia. Un paese per vecchi.


«Se vuole mantenere una sanità di qualità l'Italia deve inevitabilmente riequilibrare la composizione della sua spesa per la protezione sociale: oggi la fetta dedicata alla spesa pensionistica è nettamente superiore alla media europea, mentre quella che riguarda la spesa sanitaria è leggermente inferiore. Quanto al disagio dei medici e del personale sanitario di fronte alla gestione iperamministrativa e ipercontabilistica della sanità, di cui è richiesto anche a loro di farsi carico, è giustificato. Ma non sempre e non del tutto: i casi di prescrizioni inappropriate e di sprechi negli interventi sono reali, e su questo anche i medici sono chiamati ad esercitare una responsabilità». Angelo Carenzi dosa le parole come chi sa quant'è sfaccettato il tema di cui si discute e quanto delicata la responsabilità che gli è stata affidata. Non per niente è direttore del Centro europeo di formazione per gli affari sociali e la sanità pubblica (Cefass) che rappresenta l'antenna italiana dell'Eipa (l'Istituto europeo di amministrazione pubblica) e che ha prodotto due preziosi rapporti, nel 2003 e nel 2005, sulla crisi del welfare in Europa. Ed è vicepresidente di Federsanità-Anci, la Federazione di Aziende Usl e ospedaliere e di Comuni creata nel 1995 con l'intento di contribuire al processo di aziendalizzazione e di integrazione dei servizi sanitari innescato a partire dall'inizio degli anni Novanta.Nel suo rapporto del 2005 dal titolo Il welfare in Europa: i principali fattori di una crisi, a cura dello stesso Angelo Carenzi, della compianta economista spagnola Maite Barea e di Giancarlo Cesana, il Cefass metteva in chiaro quali fossero i megatrend che rendevano la partita del welfare in Europa, soprattutto per quanto riguardava i bilanci della sanità, un match dal pronostico ampiamente sfavorevole: nel 1950 in Europa c'era un pensionato ogni 11 lavoratori; oggi ce n'è uno ogni 3; nel 2050 ce ne sarà uno ogni 1,5. Per quanto riguarda l'Italia, la spesa per pensioni risultava rappresentare il 41,6 per cento di tutta la spesa per protezione sociale nel 2002, il valore più alto nella Ue dei 15 e ben 8 punti più della media europea (33,6 per cento). «L'Europa sta cercando di affrontare questa sfida con linee guida concordate a Bruxelles, la cui adozione nei contesti nazionali viene poi caldamente raccomandata ai paesi membri. Fra esse l'allungamento della vita lavorativa e l'espansione del lavoro femminile sono di capitale importanza per la sostenibilità del welfare europeo. Già adesso in tutte le statistiche relative ai problemi pensionistici la Ue utilizza come indicatore l'età di 65 anni, perché prevede che prima o poi tutti i paesi la adotteranno come età pensionabile. Naturalmente è un discorso delicato, che non può essere portato avanti con applicazioni automatiche, ma tenendo conto di tutte le flessibilità che devono accompagnare l'allungamento dell'età lavorativa fino a 65 anni. Però la direzione, anche per l'Italia, è sicuramente quella».Lo spostamento in avanti dell'età pensionabile e l'incentivazione del lavoro femminile non sono gli unici strumenti per liberare un po' di risorse da destinare ai bilanci della sanità, ma sono indispensabili perché la sanità moderna è fatalmente destinata a costare sempre di più. L'aumento di domanda sanitaria, spiega Carenzi «è dovuto a tre fattori. Il primo è che la gente è sempre più consapevole delle possibilità di cura e le richiede. Il secondo è l'invecchiamento della popolazione: una persona che supera i 65 anni "consuma" 4-5 volte più sanità di una persona che non ha superato quella soglia. Sopra i 65 anni il costo sanitario esplode a causa delle esigenze diagnostiche e terapeutiche che generalmente si presentano a partire da quell'età. Ora, sappiamo tutti che in Europa sia il numero assoluto che la percentuale degli anziani ultrasessantacinquenni rispetto al totale della popolazione è in continuo aumento. Infine, il terzo fattore è dato dall'innovazione tecnologica e farmacologica: i nuovi ritrovati sanitari sono molto efficaci ma anche molto costosi».Effettivamente l'aumento della cifra assoluta degli ultrasessantacinquenni fra il 2000 e il 2050 oscillerà fra il 56 e il 76 per cento a seconda dei paesi. Quanto alla loro incidenza sulla popolazione Ue totale, si pensi che nel 1990 era pari al 14,6 per cento, ma nel 2005 era già salita al 17,2 per cento e si prevede che sarà del 18,1 nel 2010, del 19,4 nel 2015 e del 20,7 nel 2020. L'Italia, poi ha già oggi il record mondiale assoluto con un'incidenza del 19,4 per cento. Premesso giustamente tutto ciò, va detto che la ragione immediata della frustrazione e dello scontento degli operatori sanitari, medici soprattutto, sta in un altro strumento di razionalizzazione delle risorse, che è poi quello di cui lo stesso Carenzi è uno specialista: l'aziendalizzazione della sanità. I medici si lamentano di essere costretti ad adempimenti amministrativi, tutti finalizzati al contenimento dei costi, che snaturano la loro missione. Il sistema dei tetti di prestazione rimborsate per azienda ospedaliera o per Usl, poi, grida vendetta al cospetto del cielo: arrivata al tetto prefissato, l'azienda non rende più il servizio richiesto, normalmente rinviandolo all'anno di bilancio successivo. Certe liste di attesa si spiegano così. Carenzi la vede in questo modo: «La frustrazione dei medici è comprensibile in tutti quei casi in cui non è stato trovato il giusto equilibrio fra la visione clinica, che è tipica del medico, e le esigenze di razionalizzazione ed efficienza dell'azienda sanitaria. I medici hanno l'impressione di subire imposizioni dettate da una logica estranea alla professionalità del medico e all'interesse del paziente. La strada giusta è quella di considerare il controllo di gestione, che ha lo scopo di contenere i costi, come una parte del progetto complessivo di sviluppo della qualità del servizio e del valore dell'ospedale, non il tutto a cui va sacrificata ogni altra esigenza».La fiera del cesareoSpezzata una lancia a favore dei medici, ci sono però anche da mettere i puntini sulle "i" riguardo a una serie di fenomeni che implicano una responsabilità da parte dei camici bianchi. «Gli antibiotici somministrati per via orale sono efficaci come quelli iniettabili, ma in Italia c'è una Regione dove la somministrazione di antibiotici iniettabili era fino a poco tempo fa ben dieci volte superiore alla media nazionale! Guarda caso, quegli antibiotici sono molto più costosi, e dunque i rimborsi sono più cospicui, degli antibiotici per via orale. L'Oms considera "golden standard" che si verifichino 15 parti cesarei ogni 100 parti normali. Ma in Italia tutte le regioni si trovano sopra questo standard, e in una Regione addirittura abbiamo avuto 56 parti cesarei ogni 100 parti normali! Naturalmente i cesarei ricevono rimborsi più ricchi dei parti normali. I medici non possono chiamarsi fuori rispetto a queste realtà». Effettivamente, non tutto ciò che è controllo di gestione rappresenta un'ingerenza nell'autonomia del medico e un tentativo di negare cure a chi ne ha bisogno. Secondo uno studio di qualche anno fa dell'Agenzia sanitaria della Regione Emilia-Romagna, la prescrizione della mineralometria ossea computerizzata (moc) come primo esame risulta inappropriata nel 52,7 per cento dei casi, e come follow-up nel 24,2 per cento. C'è materia per riflettere. «I medici non devono essere ridotti a fare i contabili, ma è giusto che la loro azienda fornisca loro tutti i dati relativi al lavoro che svolgono, inclusi i costi che esso comporta, perché questo stimola il loro senso di responsabilità. Si sentiranno motivati a raggiungere i migliori risultati coi mezzi meno costosi, a perseguire una sempre maggiore appropriatezza delle prescrizioni». Detto così, suona molto bene. Poi agli onori delle cronache balzano i casi come quello del prof. Vitali che abbandona il Niguarda in polemica con l'eccessiva aziendalizzazione della sanità italiana. E i discorsi dominanti prendono tutta un'altra piega.


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Giangiacomo

giovedì 10 gennaio 2008

Risanare la sanità italiana: una visione obiettiva dall'interno

I media parlano di loro solo quando fumano nei corridoi o sbagliano un intervento, ma quali sono i problemi che i medici italiani vivono sul campo?

Che problemi si trova oggi ad affrontare un medico? «Non certamente quelli delle quote rosa o dei mozziconi di sigarette», sghignazza Cristiano Hüscher, cardiochirurgo celebre per la sua perizia tecnica e per il carattere focoso e diretto, che attualmente opera all'università del Molise di Isernia. Oggi di ospedali si parla sui giornali per denunciare casi di sporcizia nei corridoi (l'Espresso dopo il caso dell'Umberto I di Roma ha scelto settimana scorsa di raccontare le malefatte del Gaslini di Genova) o la mancanza di donne medico fra i reparti. «Uomo o donna, che importa? La questione è se è preparato o meno», taglia corto Hüscher. Non che l'igiene non sia importante, chiosa, «ma esistono problemi più urgenti e profondi da risolvere se vogliamo una sanità che funzioni». Quali? «La preparazione dei medici. Abbiamo un 10, 20 per cento di dottori preparati, il resto lo potremmo far rientrare nella categoria dei "sindacalizzati e inamovibili". Non disponiamo di incentivi economici per farli lavorare, non possiamo assumerli se non attraverso concorsi pilotati dalla politica». E poi «siamo troppi». Dal suo punto di vista, cioè dal punto di vista di uno che ha eseguito circa 25 mila interventi, Hüscher si domanda: «Come può essere esperto un medico che esegue solo tre, quattro interventi all'anno? Il numero eccessivo di dottori è il frutto amaro del '68, dell'università di massa, e lo sostengo io, che nel '68 ero in piazza a protestare contro i baroni». Oggi Hüscher ha cambiato idea: «Alla Sapienza di Roma avevamo cento primari per dieci malati, un assurdo. Come è un assurdo che in ogni ospedale d'Italia la spesa sia così suddivisa: il 90 per cento per il salario dei dipendenti, il 10 per cento per il materiale e gli strumenti. E quando ci sono problemi di budget che si fa? Si va a tagliare sul 10 per cento». È vero che esistono gli sprechi, «ma con percentuali così diverse è inutile continuare a intervenire solo sulla spesa per gli strumenti, o si mette mano anche ai salari o non c'è futuro». L'avvenire nero prospettato da Hüscher necessita di una rivoluzione. «Ma attenzione, non solo su un piano di gestione o di educazione tecnica: il disastro maggiore che vedo è sul piano morale. C'è una grave carenza di attenzione da parte dei medici alla persona. Quando parlo ai miei studenti di quella "tenerezza" che Giuseppe Moscati diceva essere il primo compito del medico, loro sbadigliano, come se parlassi di questioni d'altri tempi. Vogliono imparare il "come", la tecnica operatoria, ma non ascoltano quando spiego loro il "perché", il motivo e l'atteggiamento da avere di fronte al malato». Demetrio Vidili, primario della Rianimazione all'ospedale Santissima Annunziata di Sassari, la vede così: «L'aspetto più difficoltoso è riuscire a "quantificare" la salute. Esiste la malasanità ed esistono gli sprechi, però mettere sempre al centro come missione dell'ospedale non la salute dei pazienti ma il risparmio comporta una ricaduta negativa sui malati stessi. Se non hai gli strumenti adatti come puoi curare adeguatamente?». Non è l'unica cosa che non va, secondo Vidili: «Una certa burocratizzazione della figura del medico ha avuto come risultato che il dottore oggi passa più tempo a compilare fogli che ad assistere i malati». «Il paradosso è che c'è più gratificazione a operare gratuitamente in Bangladesh che, retribuiti, in Italia». La provocazione è usata da Andrea Di Francesco, chirurgo maxillofacciale all'ospedale Sant'Anna di Como, per spiegare che «purtroppo in Italia l'organizzazione degli ospedali è poco funzionale alla missione del medico». Di Francesco è fondatore e presidente di "Progetto sorriso nel mondo", associazione che da dieci anni opera nei paesi del Terzo Mondo. «Milleottocento interventi e 5 mila prestazioni mi hanno illuminato: in Italia esiste ormai una sovrastruttura burocratica che ostacola il medico, che lo mette in difficoltà nello svolgere il suo lavoro. Non voglio apparire presuntuoso né ho ricette magiche per cambiare la situazione, ma è un fatto che ho trovato più semplice - e operando secondo norme internazionali ben definite e in situazioni spesso molto pericolose - lavorare in Bangladesh che in Italia».
Il presente non è così nero
Per Alberto Dragonetti, otorinolaringoiatra e direttore dell'unità operativa all'ospedale San Giuseppe di Milano, «esistono senz'altro sprechi di risorse ed eccessi di burocratizzazione del sistema, ma il panorama attuale non è così nero. Certo che c'è una sovrastruttura elefantiaca e costosa che deprime la professionalità, ma non ci si può focalizzare solo su ciò che non va. è vero che spesso le risorse sono utilizzate più per sostenere la burocrazia che non la ricerca o l'innovazione ed è vero che oggi il medico è sempre meno "protagonista" all'interno del mondo sanitario, ma dal mio punto di vista non credo sia questo il problema. Esiste un fatto che è insopprimibile e che è il rapporto medico-paziente. Nessuna aziendalizzazione può influire su questo perché chi cura sarà sempre il medico e mai il manager». Quindi, le rogne ci sono «ma, soprattutto in certe realtà, il medico può lavorare e lavorare bene».
Eppure qualcosa da fare ci sarebbe
Pasquale Cannatelli è il direttore generale dell'ospedale Niguarda di Milano. Recentemente, una delle punte di diamante del suo ospedale, il cardiochirurgo Ettore Vitali, ha annunciato che lui, da sempre un "pasdaran del pubblico", lascerà per andare a lavorare nel privato, stanco delle rigidità che il sistema impone. Tuttavia, lo stesso Vitali ha avuto parole di grande elogio per Cannatelli, cui ha riconosciuto intelligenza e abilità nell'amministrare l'ospedale. Cannatelli ringrazia e commenta: «Auguro a Vitali ogni fortuna per la sua sfida professionale. Sicuramente esistono delle rigidità nel sistema pubblico rispetto al privato, ma è anche vero che non tutto il pubblico - soprattutto in Lombardia - è così inefficiente. Quando partecipo a convegni con altri direttori generali di altre regioni e spiego come operiamo in Lombardia mi dicono che io "vengo dalla luna"». Per Cannatelli va ripensato l'ospedale secondo una nuova prospettiva: «Deve diventare il luogo della cura della fase acuta. Le tecnologie attuali ci permettono di intervenire prima sul malato e di seguirlo poi lasciandolo a casa e non dovendolo per forza tenere in un letto dell'ospedale. Viviamo una fase molto delicata: l'innalzamento dell'età media ha portato all'esplosione della spesa sanitaria. In più abbiamo a disposizione certe cure che sono efficaci (penso a certi cicli oncologici), ma anche molto costose». Come tenere in equilibrio costi e prestazioni? «Un modo c'è - dice Cannatelli - ed è la costruzione di una rete che, con altri soggetti, permetta la prevenzione prima e la cura domiciliare poi». è l'uovo di Colombo per quanto riguarda i costi. «Un ospedale in rete fa risparmiare». E anche per quel che riguarda la qualità della cura: «Si va verso un modello più personalizzato, più adeguato alle esigenze del malato».

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Giangiacomo