mercoledì 31 ottobre 2007

Se il desiderio entra in parlamento

Da una parte, uno statalismo che soffoca anche i segnali di ripresa. Dall’altra, l’individualismo di chi sposa solo il suo “particulare”. E, sullo sfondo, la crescita dell’anti-politica. Su cosa si può far leva per risollevare un Paese avvitato su se stesso? Sul senso religioso.Su uno Stato davvero laico. E su cinque proposte da mettere in pratica subito

Per esaminare la situazione attuale del nostro Paese, è utile partire dal Rapporto 2007 di Unioncamere, dove si legge: «L’economia italiana sta attraversando un lungo periodo di trasformazione. I principali indicatori economici del 2006 hanno fornito segnali di crescita incoraggianti e le stime previsionali per il 2007 sono altrettanto buone (…). Gli imprenditori, nel complesso, hanno la consapevolezza di potercela fare e sono tornati ad investire». Tutto suggerirebbe che, per favorire un nuovo sviluppo e una nuova equità, occorrerebbe aiutare questa crescita dal basso dell’imprenditoria, delle opere sociali, e di un sistema dell’istruzione caratterizzato dalla libertà di educazione. Dice ancora il Rapporto di Unioncamere: «La domanda principale ora riguarda la capacità del Sistema Paese di consolidare la ripresa nel medio periodo, sciogliendo quei nodi strutturali che frenano la competitività delle imprese (…). Ora però una quota significativa di imprese (…) è impegnata soprattutto a migliorare l’efficienza produttiva e ha bisogno di contare su un Sistema Paese competitivo».
L’“uomo nuovo”Al contrario, la realtà dei fatti ci pone di fronte a un soffocante statalismo dove la piccola e media impresa è considerata un ammortizzatore sociale, fonte di evasione fiscale e inefficienza e, mentre si cerca di perseguire l’equità mediante il rilancio di un welfare state clientelare, si difende il monopolio statale dell’istruzione e si permette un potere di veto pressoché totale ai sindacati in numerosi settori. In sintesi, sembra che non interessino i tentativi di chi si muove con intelligenza e pare che valgano solo schemi da applicare alla realtà. C’è da sperare che i dati sull’economia dell’ultimo periodo, più negativi del previsto, non siano il segno di una stanchezza di fronte a una politica che comprime lo sviluppo e quindi anche il benessere. Purtroppo questa situazione non è né contingente, né episodica, ma può essere interpretata come il primo avverarsi della “profezia” formulata qualche decennio fa da Augusto Del Noce e che riguardava l’involuzione convergente cui sarebbero andati incontro un certo socialismo e un certo cattolicesimo in Italia: quel socialismo e quel cattolicesimo che oggi si saldano nell’inedita miscela culturale soggiacente all’attuale coalizione di governo, mortificando qualsiasi istanza autenticamente riformatrice, pur presente in molti esponenti della coalizione. Si tratta di un socialismo che, staccandosi via via dalle sue radici popolari (pur ancora fortemente presenti nella società italiana), ha sposato un’idea di uomo figlia dell’Illuminismo radicale e dei suoi esiti relativisti e nichilisti. L’“uomo nuovo”, svincolato da ogni concreta appartenenza, non può rifarsi ad alcun valore oggettivo e impone alla realtà ciò che gli pare e piace. Questo essere senza legami e senza leggi fonda una nuova moralità, fatta di individualismo; ricerca del proprio “particulare” corporativo in economia; diritto a disporre della vita, della integrità della persona umana, dei legami familiari; tolleranza verso violenze conformi ai propri ideali di potere; indifferenza verso la confusione e il degrado giovanile. Questa logica individualistica si coniuga paradossalmente, sul piano politico, con una logica ostinatamente statalista. Infatti, in uno scenario in cui ciascuno cerca di strappare per sé il massimo di benessere possibile, solo lo Stato può presentarsi, hobbesianamente, come la suprema entità, l’istanza abilitata a legittimare o a delegittimare dall’alto i comportamenti sociali e a erogare servizi capaci di equità in ogni campo, da quello dell’istruzione a quello dell’assistenza sanitaria.È inevitabile il matrimonio di questa concezione con quel “cattolicesimo adulto” che, dominato da una coscienza individuale dualista, priva di contenuto e di riferimento oggettivi nella vita sociale, vede nello svincolarsi da legami oggettivi il progresso umano e si limita quindi a giustificare moralmente i contenuti posti da un nuovo radical-marxismo. Come sintetizzava don Giussani ad Assago nel 1987 al Congresso della Dc lombarda, ne deriva «un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio. Un moralismo d’appoggio allo Stato, inteso come ultima fonte di consistenza per il flusso umano» (L’io, il potere e le opere, Marietti).Il mondo post-girotondino dell’apparente anti-politica è in realtà portatore della stessa cultura in cui si mescolano radicalismo giustizialista e statalismo veteromarxista, ed è quindi in polemica con l’apparato di governo solo perché vorrebbe accelerare tutto il processo. Anche l’anti-politica snob degli ultraliberisti, in polemica con il governo di sinistra nella lotta per il potere, è fatto in realtà della stessa pasta: partendo dalla giusta accusa a clientelismo e rendita, vede il capitalismo finanziario delle multinazionali come il soggetto di un progresso reale, a dispetto dei limiti strutturali che ha mostrato nei recenti scandali internazionali (Enron, Parmalat, Hedge Funds). E perché questo avvenga occorre eliminare l’anomalia cattolica fatta di ideali oggettivi e di appartenenze a realtà sociali. Lo Stato deve perciò allearsi a questo grande capitale finanziario internazionale, legittimandolo e comprimendo ogni tentativo della società e del diffuso mondo imprenditoriale di cercare la sua strada verso lo sviluppo.Si può quindi parlare a proposito di queste posizioni come di una prepotenza imposta alla realtà innanzitutto umana, «perseguita con la riduzione sistematica dei desideri, delle esigenze e dei valori», riprendendo l’espressione usata da don Giussani ad Assago.
Cultura della responsabilitàSe l’attacco in corso riguarda la stessa concezione della persona, la risposta non può che essere a quel livello e partire, anche sul piano politico ed economico (come disse ancora don Giussani) dal rilancio dell’«irriducibilità della coscienza alle istituzioni», da quella «cultura della responsabilità» che «deve mantenere viva quella posizione originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori» e che perciò non può non partire dal senso religioso, «questo elemento dinamico, questo fattore fondamentale che si esprime nell’uomo attraverso domande, istanze, sollecitazioni personali e sociali». Da qui può nascere una base solida della società perché il senso religioso è «la radice da cui scaturiscono i valori. Un valore, ultimamente, consiste nella prospettiva del rapporto tra un contingente e la totalità, l’assoluto» e permette di guardare la realtà in modo adeguato affrontando i bisogni in cui si incarnano i desideri; immaginando e creando strutture operative capillari e tempestive che chiamiamo «opere» («forme di vita nuova per l’uomo», come disse Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982) in cui si ha presente che il fine di ogni realtà sociale, persino di un’impresa, è la felicità di chi ci lavora e il benessere collettivo di tutta la società.
Il partito del “divo”Per questo la risposta all’attuale situazione non può essere un semplice ribaltamento degli equilibri di potere: purtroppo oggi l’attuale centro-destra, che pure non ha nelle sue radici un’ideologia anti-umana, non rappresenta un’alternativa credibile alle componenti radicali, giacobine e giustizialiste del centro-sinistra. Anche la maggioranza dei suoi esponenti, infatti, come e più della vecchia Dc, non fonda la sua azione sulla valorizzazione del senso religioso come capacità di apertura e affronto della realtà. Piuttosto, in un superficiale edonismo gaio senza riferimenti a esperienze popolari mosse da valori ideali, finisce per ritenere che la politica, il partito e nel partito l’uomo forte, il “divo”, debbano e possano risolvere i problemi. Per questo, nel suo complesso, grazie al risultato elettorale, il centro-destra svolge la pur importante funzione di freno al radicalismo marxista su certi temi cruciali (vedi lavoro, famiglia, vita, statalismo economico), ma non ha forza propulsiva, al punto tale che quando diventa forza di governo le personalità e le idee che lo animano sono oscurate e non c’è di fatto una proposta di aiuto alle spinte dal basso. Non fa eccezione la parte culturalmente più nobile del centro-destra, quella che fa capo in diverso modo al pensiero neo-con. Prescindendo dal riferimento al senso religioso, gli esponenti di questa corrente finiscono per riproporre alcuni giusti valori, ma basandosi su una tradizione non verificata in modo critico dall’esperienza intesa nel suo significato integrale. Così, questo mondo finisce per sposare anche posizioni politiche che hanno mostrato i loro limiti, come l’esportazione forzata della democrazia occidentale e la guerra dell’attuale amministrazione americana in polemica con la Santa Sede e la mancanza di attenzione alla sussidiarietà sotto il profilo teorico e pratico, finendo per credere che il cambiamento possa venire dal “divo” in politica. In definitiva perciò vale oggi per tutta la politica e anche per l’anti-politica italiana un altro concetto espresso da don Giussani ad Assago 1987: «Un partito che soffocasse, che non favorisse o che non difendesse questa ricca creatività sociale, contribuirebbe a creare, o a mantenere, uno Stato prepotente sulla società. Tale Stato si ridurrebbe a essere funzionale solo ai programmi di chi fosse al potere».Come fare ora se la risposta non sta nei vecchi partiti, né nei nuovi ipotizzati anche da una parte di certo mondo cattolico dopo il successo di giuste battaglie a favore di diritti irrinunciabili? Tornaconto e libertàNon c’è altra strada che quella lunga, quotidiana, personale educazione al senso religioso che, unica, può fondare un soggetto capace di agire senza ridurre il suo desiderio. «Se ci fosse un’educazione del popolo», come ebbe a dire sempre don Giussani dopo la strage di Nassirya. Ed è per questo che la prima emergenza è l’educazione, come ha sottolineato un appello sottoscritto nel 2005 da numerosi esponenti della vita pubblica italiana e confermato dalle risposte degli intervistati in una indagine condotta dalla Fondazione per la Sussidiarietà nel 2006. Stanno venendo meno quei movimenti, quelle realtà di base, quei corpi sociali, alla radice del nostro patto costituzionale (Art. 2), dove l’aggregazione non avviene, come diceva Giussani, «nella provvisorietà di un tornaconto, ma sostanzialmente (…) secondo una interezza e una libertà sorprendenti». In queste realtà il desiderio viene educato, difeso contro le riduzioni del potere e possono nascere opere nel senso detto che, senza la pretesa di risolvere tutti i problemi «puntellando l’impero» (come ha suggerito alcuni anni fa il filosofo Alasdair MacIntyre), possono essere degli esempi da cui può ripartire una società più vera, esattamente come furono i monasteri nel Medioevo. Di questa possibilità ha parlato don Julián Carrón nell’ultima Assemblea internazionale dei responsabili di Cl a La Thuile, riprendendo il tema dell’educazione al senso religioso. La ricostruzione dell’umano e della società avviene quando si incontra «un io che, facendo l’opera, non riduca il bisogno, non riduca la risposta al bisogno. Nella modalità con cui noi rispondiamo al bisogno, nella modalità con cui noi generiamo un’opera, si vede qual è la percezione del Mistero». Ma «perché io non riduca il bisogno, perché quando guardo un altro io non lo riduca, occorre che io non sia ridotto, occorre che il mio io non sia ridotto. Se io mi rendo conto di qual è il mio bisogno, non sarò così ingenuo da pensare che, rispondendo soltanto parzialmente al bisogno dell’altro, io risponda all’altro. Occorre muoversi imitando quanto fece Gesù: che non ha cercato soltanto di rispondere alla fame, ma ha cercato di rispondere a un’altra fame, perché “non di solo pane vive l’uomo”». Quando questo avviene, senza soccombere al ricatto di volere risolvere tutto e senza perdere la propria originalità (che consiste nel porsi come io), cominciano a esistere esempi dove accade che «si comunichi l’esistenza di una risposta alla totalità del bisogno e perciò si ridesti la speranza intorno». Questo il cammino, non breve e non semplice, ma inevitabile che si apre davanti a noi. Solo così potrà ridestarsi un io in grado di dare un contributo al bene di tutti.In questo contesto, che ruolo deve avere la politica per favorire l’educazione e la valorizzazione di ciò che è di più positivo e innovativo? Dice ancora don Giussani ad Assago: «La politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento di manipolazione dello Stato, come oggetto del suo potere. Ovvero favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di “bene comune” ripreso vigorosamente dal grande e dimenticato magistero di Leone XIII». Sono parole del tutto attuali che indicano una strada possibile anche per i sinceri riformisti presenti in entrambi gli schieramenti, oggi mortificati nei loro tentativi di rinnovamento.


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Giangiacomo

domenica 28 ottobre 2007

Lo Stato liberale di Zagrebelsky è illiberale

di Flavio Felice, 27 Ottobre 2007
In un articolo apparso su “la Repubblica” il 17 ottobre 2006, il prof. Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale, ha sostenuto una tesi tanto discussa quanto controversa. Riflettendo a margine dell’affermazione del costituzionalista Ernst W. Böckenförde, in merito alla necessità che lo stato liberale e secolarizzato cerchi, oltre le procedure che lo determinano, i presupposti che esso stesso non può garantire, Zagrebelsky sostiene l’inconciliabilità di tale assunto con la tradizione liberale.
In primo luogo, pur evidenziando la rilevanza della distinzione operata da Zagrebelsky tra asserti "descrittivi" e asserti "normativi", non si comprende come e perché egli la usi per negare rilevanza pubblica alla prospettiva cristiana, la quale, contrariamente a come recita il titolo dell’articolo, non intende “dettare” legge allo stato. Invero, si tratta di una distinzione molto importante che aiuta a comprendere le ragioni della società libera e che contribuisce a porla al riparo dalle derive totalitarie di ogni sorte e genere. È noto, infatti, che nella tradizione liberale tale distinzione è posta a fondamento della società libera, affinché quest’ultima non cada vittima della “presunzione fatale” di considerare un particolare convincimento un dover essere necessario. Come negare che, storicamente, le filosofie politiche che hanno maggiormente ceduto alla deriva totalitaria, negando la distinzione operata da Zagrebelsky, sono state proprio quelle che, in nome della presunta conoscenza del destino ultimo della storia, hanno finito per calpestare la libertà politica, economica e religiosa, tentando di cancellare l'esperienza religiosa dalla scena pubblica: multa exempla docent. In secondo luogo, per la tradizione del cattolicesimo politico, almeno quello di matrice sturziana e degasperiana, gli aggettivi "liberale" e "secolarizzato" non sono necessariamente un binomio e, comunque, non è necessario che tali aggettivi siano coniugati in termini antireligiosi. Dopo tutto, è stato l'avvento del cristianesimo a produrre (per via inintenzionale) quella rivoluzione nella storia degli ordinamenti politici che ha comportato la desacralizzazione dell'autorità politica e la sua sottomissione al regno inviolabile della coscienza. Suggerisco al prof. Zagrebelsky di porsi la seguente domanda: che cosa saremmo noi europei senza il Cristianesimo? Si tratta di un’esperienza che, storicamente, passando per errori ed orrori, ha saputo sviluppare una continua
pressione sulla forza coercitiva del potere costituito. La lapidaria sentenza di Gesù: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” - al di là di una coerente analisi esegetica -, fa notare il prof. Antiseri, rappresenta una svolta decisiva che ha favorito il processo di democratizzazione e la pietra angolare delle moderne democrazie. Con ciò, una volta per tutte ed in modo travolgente, è stato introdotto nella storia il principio che “Káisar” non è “Kyrios” - la definitiva desacralizzazione del potere politico, la sua sottomissione al regno inviolabile della coscienza ed il rispetto per la trascendente dignità della persona umana. Ed allora, conclude Antiseri, affermare che “Káisar” non è “Kyrios” significa innanzitutto mettere sotto scacco il potere politico con le sue pretese onnivore e riconoscere le conseguenze politiche di questo principio religioso: esso è alla base del principio di sussidiarietà orizzontale che esalta la realizzazione del progetto della società civile, ossia, il paradigma dell’autogoverno. Dopo tutto, come può negare il prof. Zagrebelsky che proprio la ricerca di un fondamento nella sfera meramente procedurale che potesse restituire omogeneità all'ordine politico, dopo il dissolvimento dell'unità religiosa (è questa la storia dell'Europa all'indomani della riforma protestante), abbia trovato il suo punto massimo nella sacralizzazione dello “Stato” o di qualche altra forma di divinizzazione che via via ha assunto il nome di “Razza”, di “Nazione”, di “Classe” e via dicendo? L'esperienza vissuta e l'elaborazione culturale prodotta dalla riflessione cristiana hanno consegnato un principio sul quale la cultura politica, giuridica ed economica da tempo hanno fatto i conti. Si tratta del principio di sussidiarietà. Tale cardine della dottrina sociale della Chiesa disegna la giusta articolazione tra i soggetti che compongono il variegato corpo sociale. Se la persona e la famiglia hanno una fondazione ed una legittimazione autonoma dallo “Stato” e, di conseguenza, lo precedono e, in un certo senso, lo pongono in essere, ne consegue che lo “Stato” deve in primo luogo rispettare e promuovere queste dimensioni, senza alcuna pretesa egemonica. Tutto ciò significa che lo “Stato” dovrà astenersi sempre dal promuovere azioni che siano di competenza delle comunità che lo precedono. Ignoranza, fallibilità e limitatezza fisica e morale sono le ragioni in forza delle quali da sempre la dottrina sociale della Chiesa propone tale principio. Non si tratta, allora, di pensare ad un nuovo fondamento, quanto di riconoscere la rilevanza dell’esperienza: una cultura, un sentire comune ed un ethos di popolo che assumono la forma di società civile, intesa non come massa informe, ma come l’ordine spontaneo di comunità poste in essere da persone libere con il proposito di perseguire un obiettivo di interesse sociale. È questo anche l'antidoto più potente contro le pretese onnivore dello “Stato” onnipotente. Ciò che a mio modestissimo parere appare incomprensibile nell'articolo di Zagrebelsky è il modo in cui egli darebbe per scontato l'assunto che i principi religiosi siano un fattore esterno al vivere sociale. Questi, al contrario, sono percepiti da chi li testimonia come il motore stesso del proprio vivere sociale. La lezione di un liberale come Tocqueville dovrebbe insegnare! Se si assume - come fa Zagrebelsky - che l’esperienza di fede rappresenta un elemento esterno allo stato liberale, vuol dire semplicemente che si è scelto di assumere una ben determinata scala valoriale, una specifica istanza antropologica, assegnando a questa, e negandola ad altre, il ruolo egemone di fattore interno; e allora mi domando: non è forse questa un'operazione lucidamente illiberale? L'operazione di Zagrebelsky è quella di espellere la proposta antropologica cristiana dalla scena pubblica, accompagnata dalla subdola presunzione che esistano una cultura e un'antropologia eticamente neutre. Ma non c'è nulla di più insensato della pretesa neutralità delle prospettive antropologiche! In quanto tutti gli assunti sono eticamente orientati. Non si capisce perché mai i cristiani dovrebbero auto-censurarsi (o comunque farsi da parte) e scomparire dalla scena pubblica, dal momento che la loro prospettiva infastidirebbe altre proposte antropologiche. Mi dispiace per Zagrebelsky, ma i cristiani sono convinti di poter offrire un contributo significativo all'edificazione di un ordine sociale tutt’altro che perfetto, ma che abbia nel proprio DNA gli antidoti contro la deriva totalitaria. Nessuno pretende di imporlo e non si dica che ciò significherebbe la fuoriuscita dalla tradizione liberale - ovvero, se proprio si è convinti di ciò, lo si motivi meglio. Non è forse stato un laico non credente come Hayek a parlare di necessario incontro tra liberalismo e cristianesimo per
il consolidamento delle stesse istituzioni liberali? Forse, e del tutto legittimamente, per Zagrebelsky Hayek aveva torto, così come avrebbero torto tutta una serie di grandi autori liberali. Tuttavia, la storia ci insegna che lì dove le istanze religiose sono state soffocate o rese irrilevanti sono emersi idoli feroci per la cui demolizione è stata necessaria la testimonianza fino al martirio di tanti cristiani: preti e laici.
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Giangiacomo

domenica 21 ottobre 2007

Comitato per la difesa della Legge Biagi

Se qualcuno, con la vocazione del kamikaze (perché l’avrebbero menato), si fosse presentato ieri con un cartello inneggiante alla legge Biagi sul palco della manifestazione romana di Piazza S.Giovanni e postosi davanti a Pietro Ingrao mentre parlava, si fosse fatto riprendere dalle televisioni (ammesso e non concesso che i giornalisti e gli operatori presenti si fossero prestati a portare acqua al suo mulino come hanno fatto con i
contestatori del Capranica), oggi in tanti parlerebbero di provocazione fascista. Ieri, durante lo svolgimento di una riunione aperta e civile al cinema Capranica promossa dal Comitato per la difesa e l’attuazione della legge Biagi, a sostegno di quella legislazione innovativa sul mercato del lavoro che nel pomeriggio sarebbe stata linciata nelle piazze, un gruppetto di giovani comunisti, funzionarietti di partito (altro che precari !) hanno all’improvviso (con la tecnica dei commando) srotolato ed esibito uno striscione collocandosi davanti al palco dove era in corso la seconda tavola rotonda dell’iniziativa.
Alcuni di loro intanto distribuivano un volantino pieno di insulti e menzogne. Visto che non rispondevano all’invito del moderatore di andarsene e lasciar proseguire il dibattito, è stato necessario allontanarli con un po’ d’energia senza tuttavia che fossero necessari atti violenti. La domanda è: chi aveva ragione e chi torto? A noi sembra che la risposta sia semplice e che sia espressione di una cultura fascista il sentirsi legittimati a dileggiare l’avversario nei confronti del quale tutto sarebbe permesso proprio per la sua indegnità morale. Eppure quell’atto di maleducazione e di arroganza è diventata la notizia - che ha contraddistinto l’evento - nel Tg 2 delle 20,30 nonchè il titolo del Giornale di oggi. Come se non bastasse si vedono gli articoli odierni del Corriere della Sera e soprattutto di Repubblica, chiaramente simpatizzanti con i giovani provocatori, alla cui azione viene
dedicata la gran parte della cronaca dell’evento (con un rilievo assolutamente sproporzionato e senza una sola parola di biasimo). E’ poi il caso di fare un’altra segnalazione. Per lanciare il Convegno, i promotori avevano fatto stampare dei manifesti (una centesima parte di quelli affissi per la manifestazione comunista). Questi manifesti – a causa della precarietà organizzativa di un Comitato che non ha risorse e che non ha voluto chiedere aiuto ai partiti, i quali peraltro si sono anche defilati dall’iniziativa, a parte la lettera di Berlusconi, ma una lettera non la si nega a nessuno) – erano stati affissi giovedì 18 ottobre. Bene. Si vada a vedere quanti di quei manifesti sono stati immediatamente coperti da quelli che annunciavano l’altra manifestazione. Ciononostante la manifestazione è riuscita, ha conseguito gli obiettivi bipartisan che gli organizzatori si erano prefissi. E ha fornito un punto di riferimento diverso – sicuramente autorevole – contendendo la scena alla marcia della sinistra reazionaria.

da www.comitatoleggebiagi.it

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Giangiacomo

venerdì 19 ottobre 2007

Una legge antiblog

Ricardo Franco Levi, braccio destro di Prodi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha scritto un testo per tappare la bocca aInternet. Il disegno di legge è stato approvato in Consiglio dei ministri il 12 ottobre. Nessun ministro si è dissociato. Sul bavaglio all'informazione sotto sotto questi sono tutti d'accordo. La legge Levi-Prodi prevede che chiunque abbia un blog o un sito debba registrarlo al ROC, un registro dell'Autorità delle Comunicazioni, produrre dei certificati, pagare un bollo, anche se fa informazione senza fini dilucro. I blog nascono ogni secondo, chiunque può aprirne uno senza problemi e scrivere i suoi pensieri, pubblicare foto e video. L'iter proposto da Levi limita, di fatto, l'accesso alla Rete. Quale ragazzo si sottoporrebbe a questo iter per creare un blog? La legge Levi-Prodi obbliga chiunque abbia un sito o un blog a dotarsi di una società editrice e ad avere un giornalista iscritto all'albo comedirettore responsabile. Il 99% chiuderebbe. Il fortunato 1% della Rete rimasto in vita, per la legge Levi-Prodi, risponderebbe in caso di reato di omesso controllo su contenuti diffamatori ai sensi degli articoli 57 e 57 bis del codice penale. In pratica galera quasi sicura. Il disegno di legge Levi-Prodi deve essere approvato dal Parlamento. Levi interrogato su che fine farà il blog del sottoscritto risponde da perfetto paraculo prodiano: "Non spetta al governo stabilirlo. Sarà l'Autorità per le Comunicazioni a indicare, con un suo regolamento, quali soggetti e quali imprese siano tenute alla registrazione. E il regolamento arriverà solo dopoc he la legge sarà discussa e approvata dalle Camere". Prodi e Levi si riparano dietro a Parlamento e Autorità per le Comunicazioni, ma sono loro, e i ministri presenti al Consiglio dei ministri, i responsabili. Se passa la legge sarà la fine della Rete in Italia. Il mio blog non chiuderà, se sarò costretto mi trasferirò armi, bagagli e server in uno Stato democratico.

Ps: Chi volesse esprimere la sua opinione a Ricardo Franco Levi può inviargli una mail a: levi_r@camera.it

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Giangiacomo

mercoledì 17 ottobre 2007

Gentile Ministro Padoa Schioppa... grazie!

Gentile Ministro Padoa Schioppa,
sono un ragazzo di 30 anni, lavoro come operaio, vivo in periferia di una grande città e, ahimè, vivo ancora a casa dei miei. L'altro giorno ho sentito le sue parole in tv, e mi sono immediatamente identificato in coloro che lei definisce " bamboccioni", quei trentenni che lei vorrebbe "mandar fuori da casa". Mi son detto: "Grande Ministro, Lei ha ragione".
Mi sono così rivolto alla mia Banca per ottenere un mutuo.
"Grande Ministro, avrò finalmente una casa tutta mia", ho pensato!
Guadagno 1.000 Euro al mese + 13esima e 14esima, le quali spalmate in 12 mesi mi garantiscono un reddito mensile di 1.166 Euro.
Visto che la rata mutuo non può superare 1/3 dello stipendio, mi posso permettere una rata di 388 Euro al mese. Con questa rata mi viene concesso un mutuo di € 65.770 Euro in 30 anni (se aspettavo un altro po', vista l'età, non me lo concedevano un mutuo trentennale... Grande Ministro, grazie per avermi fatto fretta! )
Con il mio bel preventivo in tasca, ho deciso di rivolgermi immediatamente ad uno studio notarile, per farmi preventivare le spese che dovrò sostenere per acquistare una casa. Dai 65.000erotti Euro, dovrò infatti togliere:
- Euro 3.000 circa di Tasse in fase d'acquisto ("solo" 3.000 euro visto che è la mia Prima Casa! Grande Ministro, grazie)
- Euro 2.500 circa di Notaio per l'acquisto
- Euro 2.000 circa di Notaio per il mutuo
- Euro 2.500 circa di Allacciamenti alle utenze acqua, gas, enel. Per un totale di Euro 10.000 circa Beh... ho ancora a disposizione ben 55.770 Euro per la mia casetta! La dovrò arredare, ovvio, mica posso dormire per terra... Mi sono rivolto così ad un mobilificio, per ora posso accontentarmi di una cucina, un tavolo con 2 sedie, un divano a due posti , un mobile tv, un letto matrimoniale, un armadio e due comodini... il minimo, ma mi conosco, mi saprò adattare. Euro 7.000 circa, se i mobili me li monto io! Beh... pensavo peggio!
Ho ancora a disposizione ben 48.770 Euro per la mia casettina, sono sempre 90erottimilioni di una volta!
Grande Ministro, grazie!
Entro gasatissimo in un'agenzia immobiliare, è arrivato il momento... Con 48.770 euro mi dicono che posso acquistare:
- un garage di 38 mq. al livello - 2 di un condominio di 16 piani;
- due cantine (non comunicanti tra loro) di mq. 18 ciascuna nel condominio adiacente.

Per l'abitazione più piccola ed economica- un bilocale trentennale di 45 mq. al piano seminterrato di uno stabile a 20 km dalla città - dovrei spendere 121.000 Euro!

Me ne torno a casa Ministro, a casa dei miei, ovviamente!
Ho fatto quattro conti: per potermi permettere quel bilocale, dovrei:
- o indebitarmi per altri 63 anni, quindi l'ultima rata la verserò finalmente a 93 anni!
- oppure dovrei guadagnare 3.000 euro al mese!


Grande Ministro, grazie!

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Giangiacomo

lunedì 15 ottobre 2007

Tasse, tasse, tasse

Le tasse? “sono una cosa bellissima”
Parola del ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa (7.10.2007)
La pressione fiscale mai così alta in Italia

La legittimazione del prelievo fiscale nello Stato moderno è lo strumento perfezionato del totalitarismo: grazie al suo aumento, al tempo stesso, si sviluppano gli apparati dello Stato, cresce la capacità di controllo sulla società e si riducono le libertà delle famiglie e delle persone (perché sempre più dipendenti dallo Stato e sempre più espropriate dei loro beni). Storicamente, è di sinistra l'aumento della pressione fiscale come mezzo per accrescere le funzioni dello Stato (e il relativo potere). E', invece, di destra il proposito di restituire libertà economica con la riduzione del prelievo fiscale (e il relativo ridimensionamento della invadenza della iniziativa statale). Il binomio sinistra-tasse è storicamente inscindibile, tanto che la tassazione è il termometro per misurare il grado di spostamento o di collocazione a sinistra di una compagine governativa.

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Giangiacomo

lunedì 8 ottobre 2007

L'orrore rosso della Birmania è già scomparso dai giornali

di Massimo Introvigne, Il Giornale, 8 ottobre 2007
Abbiamo già dimenticato la Birmania? Dopo le dimostrazioni, l’invito a esibire indumenti rossi per solidarietà con i monaci e qualche minuto di gloria sulle prime pagine dei giornali, la repressione sta lentamente scivolando nelle pagine interne. Poi sparirà del tutto. L’orrore del carcere, della tortura e della fame quotidiana di un regime post-comunista non fa notizia. L’agenzia cattolica Asianews è rimasta quasi sola a descrivere «la
rabbia e la delusione» dei birmani che si sentono presi in giro dalle istituzioni internazionali. L’inviato dell’Onu, l’ex ministro degli Esteri nigeriano Ibrahim Gambari, è stato trattato più o meno come una pezza da piedi dal sanguinario generale Than Shwe. Dimostrando di non temere le Nazioni Unite i generali post-marxisti di Rangoon hanno continuato con una repressione peggiore di quella del 1988. Secondo il governo birmano la repressione ha fatto «solo» venti morti, ma le ambasciate straniere lasciano filtrare da Rangoon cifre ben diverse, e secondo le organizzazioni umanitarie sono «sparite» almeno seimila persone, di cui 1.400 monaci. Certo, c’è stato qualche appello, qualche blanda minaccia di sanzioni. Ma gran parte dell’Occidente si è ritirato in buon ordine dopo che con il regime si sono schierate la Cina e la Russia. La Cina ha fame di petrolio, e le serve anche quello birmano. Del resto, la giunta militare di Rangoon si è tutta formata in un partito che cantava le lodi di Mao Tze-Tung. La Russia non ha interessi significativi in Birmania, ma da qualche tempo ogni scusa per dar fastidio agli Stati Uniti è buona. In più, se si comincia a parlare di dittature, Putin teme che qualcuno gli chieda conto di quella, a lui fedelissima, della Bielorussia, l’ultimo regime dittatoriale europeo, un coltello insanguinato piantato nel cuore del nostro continente. Resterebbero i marciatori della pace e le sinistre umanitarie, che dopo avere versato una lacrima per i monaci birmani sono presto tornate alle loro cause preferite. Ad Assisi si sta per marciare citando sì la Birmania ma insieme ai soliti palestinesi, così mettendo sullo stesso piano la democrazia israeliana che cerca di proteggersi dal terrorismo e la macabra dittatura di Rangoon. Né si è visto per la Birmania nulla di simile alle manifestazioni oceaniche che i pacifisti senza se e senza ma non dimenticano mai d’inscenare quando si tratta di attaccare gli Stati Uniti. E ai monaci e ai laici birmani, in via di sparizione anche dai telegiornali, rimangono appunto solo gli Stati Uniti, l’unico Stato che continua a fare pressioni sul regime ed è pronto a imporre sanzioni unilaterali. Da solo, però, Bush può fare ben poco. E tra quelli delle bandiere arcobaleno è già scattato il riflesso condizionato secondo cui ogni causa
sostenuta da Bush deve avere comunque qualcosa di sbagliato.

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Giangiacomo

domenica 7 ottobre 2007

Nuovo paradigma antropologico

Il fenomeno Grillo sanziona definiticamente il fallimento del '68. Niente dittatura del proletariato, nè fine del capitalismo e dell'imperialismo americano: ed ora il comico Grillo, che per le sue demagogiche proposte monetarie di giova nientemeno che delle teorie di Giacinto Auriti.
La confusione regna sovrana e nessuna analisi contraddice le elecubrazioni del comico sulla necessità di far scomparire i partiti. Anche Duccio Galimberti nel suo progetto di Costituzione Europea prevedeva di escludere partiti, sindacati liberi e sciopero. Altra statura, altra tempra e altri tempi, si dirà, ma certe proposte possono essere il frutto colto o il malvezzo di periodi difficili per la Società. E allora invece di rispondere a demagogia con anatemi, chiniamoci a comprendere la realtà, dando risposte sagge, con respiro culturale e consapevolezza di un nuovo paradigma antropologico. Perchè il 68, sconfitto, contnua a sciogliere grumi tossici. Dobbiamo saper contrastare lo smantellamento del principio di realtà (che ha operato una mutazione genetica modificiando il modo di essere e di pensare delle persone), riaffermando la concezione della realtà nella sua dimensione oggettiva. Poste queste basi diventa agevole muovere per formare una classe dirigente adeguata alle necessità di dare risposte puntuali ed urgenti per il lavoro, per il fisco, per i governi, per la famiglia, per l'impresa, per le professioni, per la scuola, per l'università, per la ricerca, per l'arte e anche per il tempo libero.

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Giangiacomo

Turchi ed Europa: Battaglia di Lepanto 1571


La battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571): la libertà nei confronti dell’islam.

Il Senato veneto: "Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit" ("Non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori").
Turks and Europe: The Battle of Lepanto 1571
The Venetian Senate: "It was not generals nor battalions nor arms that brought us victory; but it was Our Lady of the Rosary".
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Giangiacomo

La Finanziaria Prodi è la madre di tutti gli inganni

Un primo commento sulla nuova manovra Finanziaria che nelle prossime settimane passerà all'esame del Parlamento.
Una manovra che è madre di tutti gli inganni. L'esecutivo è allo sbando su welfare e pensioni. Alla fine della patetica sceneggiata ci saranno solo altri aumenti fiscali e qualche elemosina da fame. Dopo avere saccheggiato le tasche degli italiani con la manovra 2007, l'esecutivo presenta una manovra fatta di detrazioni fantasma, briciole e oboli.
Tra gli inganni da evidenziare ci sono quelli relativi all'ICI (la cui riduzione annunciata sarà ampiamente annullata, a livello comunale, dalla revisione degli estimi catastali), alla mancata riduzione della pressione fiscale (aumentata del 2,5% del PIL negli ultimi due anni e ora attestata al livello record del 43,1%), al modestissimo taglio dell'Irap (già aumentata lo scorso anno), al mancato recupero dei paurosi tagli già effettuati lo scorso anno al comparto sicurezza e all'aumento delle spese a favore degli immigrati (il Ministro Ferrero ha proposto il raddoppio a 50 milioni di euro degli stanziamenti a loro riservati).

Sta andando in onda un'altra puntata della presa in giro degli Italiani!

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Giangiacomo

sabato 6 ottobre 2007

No alle narcosale, luoghi di morte. Sì alle comunità di recupero

Se a Torino venisse approvato il progetto di istituire delle narcosale, la nostra città potrebbe assumere un volto simile a quello di città straniere come Francoforte, dove, ogni giorno, verso l’ora di pranzo, una piccola folla di tossicodipendenti, guardati a vista da poliziotti, si riunisce intorno alla stazione centrale. Sono in attesa che i medici aprano le narcosale, per la consueta distribuzione di siringhe. Una scena che si potrebbe ripetere anche qui, se passasse la mozione presentata da venti consiglieri comunali del centrosinistra, che impegna il sindaco Chiamparino a sperimentare queste “sale del consumo di droga”. Non condivido la posizione di chi afferma “che il loro scopo sia quello di non lasciare sole persone già provate, per attivare un percorso di recupero”. Le “stanze del buco” sono piuttosto, come ha affermato lo stesso psicanalista Claudio Risé, una “proposta delirante e anacronistica”, avanzata già dai ministri Ferrero e Turco. Rappresentano una condizione di resa da parte dello Stato e cedimento alla cultura della morte, rendendo i loro frequentatori tossicodipendenti cronici. Il sindaco Chiamparino dovrebbe allora pensare non alle narcosale, ma a potenziare le comunità di recupero, sul modello di San Patrignano, per il reale recupero di questi ragazzi.

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I kamikaze in Afghanistan sono killer d’importazione

L’attentato suicida contro un bus della polizia a Kabul è stato il più letale nella storia del terrorismo in Afghanistan. Il terrore ha colpito nel cuore della capitale, mentre la grande maggioranza degli attentati suicidi era finora avvenuta nella zona di Kandahar. Il metodo dell’attentato suicida finora non è stato comune in Afghanistan. Il primo rivendicato dai talebani risale al 15 gennaio 2006 e il suo obiettivo era il console canadese Glyn Berry, ucciso a Kandahar con il suo seguito. Un analogo attacco fu tentato contro il vice-presidente americano Dick Cheney, mentre morirono un soldato americano, un sudcoreano e 19 afghani. Il precedente più diretto per l’attacco di martedì scorso risale al 16 gennaio 2006, quando un terrorista suicida si lanciò in motocicletta fra la folla uccidendo 23 persone.
Anche allora l’attacco fu rivendicato dai talebani. Ma la rivendicazione era falsa. Le indagini portarono a identificare una cellula di Al Qaida, venuta dal vicino Pakistan, in cui non c’erano afghani. La cultura afghana ha un’avversione radicata e secolare per il suicidio. L’alleanza fra il mullah Omar e Bin Laden fa spesso dimenticare che i talebani nascono da una matrice ideologica diversa da quella di Al Qaida. Mentre quest’ultima è il frutto maturo dell’ultra-fondamentalismo arabo ed egiziano, i talebani (il cui nome vuol dire «studenti») vengono dalle scuole coraniche del movimento Deobandi in Pakistan e in India, la cui ideologia non è fondamentalista ma tradizionalista. Come dimostra la rivolta della Moschea Rossa che è scoppiata in Pakistan nello scorso luglio, il tradizionalismo Deobandi può essere violento, ma le sue prime preoccupazioni sono morali, non politiche: se la prende con i negozi di videocassette pornografiche e le donne non velate, e si cura assai meno degli scenari politici globali che sono invece al cuore del progetto di Al Qaida. È l’alleanza con Bin Laden che ha importato elementi di fondamentalismo nell’ideologia dei talebani. Ma questi continuano a mescolare la legge islamica, la sharia, con il codice tribale pashtun che regge l’Afghanistan da millenni. La stragrande maggioranza degli esponenti religiosi afghani - compresi molti che sono ostili all’Occidente - esclude assolutamente che il terrorismo suicida possa trovare giustificazioni nella tradizione islamica locale.
Non si può allo stato escludere che Al Qaida sia riuscita a reclutare alcuni afghani. È però un dato di fatto che tutte le cellule identificate come responsabili di attentati suicidi in Afghanistan sono risultate composte e dirette da stranieri, e che l’opinione pubblica afghana è convinta che il terrorismo suicida sia un terrorismo d’importazione. Per fermarlo occorre quindi smantellare le linee di reclutamento di Al Qaida dove operano con maggiore successo: in Pakistan e nelle moschee europee. Con buona pace di chi pensa che la guerra al terrorismo sia finita.


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Giangiacomo

lunedì 1 ottobre 2007

Viva il Sismi

I nostri 007 restano efficienti, nonostante a sinistra molti amino odiarli
L’operazione militare italo-britannica che ha permesso la liberazione degli italiani rapiti in Afghanistan e l’uccisione dei loro sequestratori è stata resa possibile, come ha spiegato il ministro della Difesa, dalla capacità dell’intelligence militare di individuare con grande tempestività la “prigione” nella quale venivano tenuti incatenati i nostri connazionali.
La decisione di non cercare la strada delle trattative con i terroristi e i loro amici, ma di intervenire immediatamente in forze, esprime la considerazione di cui ancora gode il servizio di informazione militare, il Sismi, e che essa è ben riposta. Il ministro della Difesa e il presidente del Consiglio hanno resistito alle solite pressioni dell’estrema sinistra, ribadite nel dibattito parlamentare, che continua a preferire quel metodo di interlocuzione che, nel caso del rapimento di Daniele Mastrogiacomo, aveva portato alla liberazione di pericolosi assassini e al massacro degli accompagnatori del giornalista italiano.
La questione tuttavia sul piano politico resta aperta, tra Romano Prodi che, giustamente, rivendica il carattere di monito anche per il futuro della dura punizione inflitta ai rapitori e le posizioni di chi, come il sottosegretario verde Paolo Cento, insiste a chiedere che il blitz non diventi “una regola”, cioè venga ripetuto in casi analoghi.
L’efficienza dimostrata dal Sismi in queste difficili condizioni dimostra che la struttura è riuscita a mantenersi solida nonostante i colpi che ha subito, in patria, dalla magistratura e dalla politica sul caso Abu Omar, che ha comportato la decapitazione dei suoi vertici.
Anche questo fatto, oltre all’evidente necessità di disporre di un’intelligence robusta e capace di agire in una situazione che vede truppe italiane dislocate in aree assai pericolose, dovrebbe pesare sulla discussione che è in corso sulla riforma dei servizi di sicurezza e di informazione.
La tentazione, che pareva finora prevalente nelle forze di maggioranza, di accontentarsi di una sorta di servizio di polizia, privo delle prerogative tipiche di un vero servizio segreto, dopo gli ultimi avvenimenti, potrebbe essere ridimensionata. Se c’è un campo nel quale non si può certo risparmiare è il presidio della sicurezza dei cittadini insidiata dal terrorismo interno e internazionale e la protezione dei militari impegnati in missioni decise dal Parlamento. Smantellare ora il Sismi, o anche solo continuare a indebolirlo, sarebbe, come mostrano i fatti, un pessimo affare.

Il Foglio

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Giangiacomo

Benedetta ingerenza in Birmania

Suore e monaci buddisti capeggiano la rivolta contro la giunta militare

Migliaia di monaci buddisti, ora seguiti dalle loro consorelle, stanno mettendo il regime militare birmano davanti alla prova più severa che abbia mai dovuto superare.
Dando corpo e visibilità alla protesta diffusa nel paese per la negazione delle principali libertà, a cominciare da quella politica e d’espressione, i monaci rendono evidente l’intrinseca debolezza di un sistema tecnocratico che puntava a far prevalere i successi economici come metro su cui valutare l’idoneità del governo ad affrontare i problemi della Birmania.
Nonostante un richiamo, per la verità piuttosto flebile e formale delle massime autorità religiose buddiste, inefficace anche perché privo di qualsiasi minaccia di sanzioni, gli uomini e le donne che sono usciti dai conventi per mettersi in marcia con il loro popolo svolgono un’attività politica coraggiosa e profondamente coinvolgente. Nessuno può dire, ora, se da qui prenderà l’avvio il percorso che porta alla caduta del regime oppure se si aprirà una nuova fase di repressione ancora più dura.
E’ comunque indiscutibile che la pretesa dei militari di esercitare un mandato della popolazione d’ora in poi non sarà più sostenibile, che le pressioni internazionali, a cominciare da quelle sempre più esplicite degli Stati Uniti, diventeranno più corpose, che la delegittimazione di un governo che si regge esclusivamente sul monopolio della forza è ormai completa.
Nessuno mette in discussione, nel mondo democratico, il valore della rivolta dei monaci birmani per la libertà, nessuno li richiama all’esigenza di non interferire con le scelte politiche che non dovrebbero mai essere confuse con la religione. Questo, naturalmente, dipende dal fatto che l’assenza di libertà giustifica ogni iniziativa tesa a instaurarla.
Pone però una domanda, soprattutto ai censori di professione delle “ingerenze” religiose: dov’è il confine al di là del quale agli uomini di fede è lecito far pesare la loro opinione nel discorso pubblico? Solo nelle dittature militari?


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Giangiacomo