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domenica 16 maggio 2010

Modernità e tradizione

Modernità e tradizione. Una grande lezione di Benedetto XVI dal Portogallo

di Massimo Introvigne



Mentre – in modo peraltro comprensibile – l’attenzione sul viaggio del Papa in Portogallo si concentra sull’interpretazione del messaggio di Fatima e sulle sue relazioni con la crisi nella Chiesa che nasce dagli episodi dei preti pedofili, per molti rischia di andare perduta la straordinaria lezione della modernità impartita da Benedetto XVI nel Paese iberico, che ci riporta al cuore stesso del magistero di Papa Ratzinger. Nel discorso del 2006 a Ratisbona e nell’enciclica Spe salvi del 2007 il Pontefice aveva già proposto un giudizio sui momenti centrali della modernità: Lutero, l’illuminismo, le ideologie del XX secolo. In ciascuno di questi momenti aveva distinto un aspetto esigenziale dove c’è qualche cosa di condivisibile – la reazione al razionalismo rinascimentale per Lutero, la critica del fideismo e la rivalutazione della ragione nell’illuminismo, il desiderio di affrontare i problemi e le ingiustizie causate dalle trascrizioni sociali e politiche dell’illuminismo per le ideologie novecentesche – e un esito finale catastrofico dove, ogni volta, si butta via il bambino con l’acqua sporca e si propongono rimedi peggiori dei mali che si dichiara di voler curare. Così Lutero insieme al razionalismo butta via la ragione, smantellando la sintesi di fede e di ragione che aveva dato vita alla cristianità medievale; l’illuminismo per rivalutare la ragione la separa radicalmente dalla fede, diventa laicismo e finisce per compromettere l’integrità stessa di quella ragione che voleva salvare; le ideologie del Novecento criticando l’idea astratta di libertà dell’illuminismo finisco per mettere in discussione l’essenza stessa della libertà, trasformandosi in macchine sanguinarie di tirannia e di oppressione. Nella modernità dunque a esigenze o istanze dove non tutto è sbagliato corrispondono esiti o risposte che partono da gravi errori e si risolvono in drammatici orrori.

Il tema ha anche una sua attualità all’interno della Chiesa, dove il magistero di Benedetto XVI si è concentrato sulla corretta interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Si dice, senza sbagliare, che il Concilio si fece carico della modernità. Ma questo significa che il Concilio accolse le istanze del moderno oppure che condivise anche le risposte dell’ideologia della modernità a queste istanze? Nel primo caso il Concilio può essere letto alla luce della Tradizione della Chiesa, che – dal Concilio di Trento, il quale si confrontò con le domande poste da Lutero dando però risposte totalmente diverse, fino a Leone XIII, di cui ricorre quest’anno il secondo centenario della nascita, di fronte alle ideologie nascenti – ha sempre accolto le istanze proposte dalla storia trovando nel suo patrimonio gli elementi per farvi fronte. Nel secondo caso il Vaticano II sarebbe invece un’innovazione radicale, un cedimento della Chiesa all’ideologia della modernità, una rivolta contro la Tradizione da leggere secondo quella che Benedetto XVI chiama “ermeneutica della discontinuità e della rottura” rispetto a tutto quanto è venuto prima.

In Portogallo il Papa torna su questi temi: e il discorso del 12 maggio a Lisbona rivolto al mondo della cultura è destinato a prendere posto fra i discorsi principali del suo pontificato. Qui, come di consueto, il punto di partenza è il Vaticano II, “nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita”. Benedetto XVI invita dunque a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le “istanze”, di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma “superandole” –, e gli “errori e vicoli senza uscita” in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile.

Per il Papa la modernità come plesso di esigenze può e deve essere presa sul serio e diventare oggetto di discernimento. La modernità come ideologia dev’essere invece oggetto di una rigorosa critica. Questa ideologia comporta il rifiuto della tradizione – quella con la “t” minuscola, come patrimonio culturale trasmesso dalle generazioni passate, e quella con la “T” maiuscola come verità conservata e veicolata dalla Chiesa – e l’idolatria del presente. In Portogallo il Papa denuncia un’ideologia che “assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato” e quindi fatalmente finisce per presentarsi “senza l’intenzione di delineare un futuro”. Considerare il presente la sola “fonte ispiratrice del senso della vita” porta a svalutare e attaccare la tradizione, che in Portogallo – e non solo – “ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una ‘sapienza’, cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un ‘ideale’ da adempiere”, strettamente legati all’idea di verità e all’identificazione di questa verità con Gesù Cristo. Dunque “si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo”. Il “‘conflitto’ fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita”. In questo conflitto la Chiesa non ha dubbi su da che parte stare. “La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione”: parole di Benedetto XVI che richiamano – certo con uno stile e un linguaggio diverso – quelle del suo predecessore san Pio X nella lettera apostolica del 1910 Notre charge apostolique secondo cui “i veri operai della restaurazione sociale, i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti”.

La difesa della verità contro il culto relativistico e anti-tradizionale del presente è una missione “per la Chiesa irrinunciabile”, ripete Benedetto XVI. “Infatti il popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia”. Chi rinuncia alla tradizione e taglia il suo legame con il passato in nome di un culto modernistico del presente si priva al tempo stesso di ogni vera possibilità di “delineare un futuro”.


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Giangiacomo

domenica 3 gennaio 2010

Macché ecologista, Ratzinger rifugge dalle tesi sullo sviluppo sostenibile

“…la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! […] Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”. In molti hanno commentato il XLIII Messaggio per la giornata mondiale della pace di Benedetto XVI come una svolta ecologista del Magistero pontificio. Si tratta di una evidente forzatura, sebbene comprensibile, in quanto è innegabile che l’attuale Pontefice abbia offerto una coerente riflessione sociale nella quale in modo opportuno le questioni ambientali rivestono un ruolo di primissimo piano.

Dovendo selezionare alcuni elementi tra una miriade di sollecitazioni che suscita la lettura del Messaggio, riteniamo che un aspetto meriti di essere particolarmente sottolineato. Si tratta del nesso che Benedetto XVI stabilisce tra le questioni ecologiche, propriamente dette, e la cosiddetta “ecologia umana”: “I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri”. Ne consegue che Benedetto XVI acutamente incoraggia l’educazione ad una peculiare responsabilità ecologica, che, tuttavia, non cede mai alla retorica dello “sviluppo sostenibile” (dove la denatalità è la cifra della sostenibilità), ma che di contro si ponga come obiettivo principale la salvaguardia di un’autentica “ecologia umana”.

Il nesso di Benedetto XVI rinvia alla questione antropologica e non ad una, pur nobile, per quanto ancora cristianamente inadeguata, sociologia dell’“egualitarismo” di tutti gli esseri viventi. Con tale nesso, Benedetto XVI rinnova l’appello centrale della Dottrina sociale della Chiesa in ordine “all’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione”, oltre alla rivendicazione della “dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura”.

Gli argomenti del Pontefice sono quelli tradizionali della “teologia della Creazione”, argomenti che hanno contraddistinto in modo peculiare il Magistero sociale di Giovanni Paolo II: si considerino i temi del lavoro, del capitale, dell’impresa e del profitto analizzati nelle encicliche Laborem exercens (1981); Sollicitudo rei socialis (1987); Centesimus annus (1991). Benedetto XVI evidenzia la cifra autenticamente umana dello sviluppo, riprendendo quanto sostenuto nella recente enciclica Caritas in veritate (2009), nella quale scrive: “Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad ‘essere di più’. L'uomo non è un atomo sperduto in un universo casuale, ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto donare un'anima immortale e che ha da sempre amato”.

Il Messaggio di Benedetto XVI fa propria la cifra autenticamente umana dello sviluppo, una cifra che appare in stretta relazione con la dimensione antropologica dell’uomo, del suo essere creato ad immagine e somiglianza di Dio e di partecipare con il Creatore dell’Amore del Padre, un amore che, rendendoci figli, ci rivela la fratellanza con tutti gli uomini della terra e la vocazione ad amare il prossimo come Dio ci ama. La cifra è evidentemente rintracciabile nel mistero-scandalo della Croce, è quella la misura con la quale Dio ci ha amati e ci ama.

Tale prospettiva antropologica appare ancora più evidente quando il Pontefice afferma che “Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della ‘dignità’ di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo”. Al contrario, ci dice il Papa che la Chiesa invita ad aggredire le questioni ecologiche “in modo equilibrato”, rispettando in primis la “‘grammatica’ che il Creatore ha inscritto nella sua opera”. Tale grammatica affida all’uomo un ruolo di custode attivo e non di sciocco guardiano che abdica al suo ruolo di co-creatore; un ruolo che gli deriva dall’essere stato creato ad immagine e somiglianza del Creatore.

Il rispetto, la salvaguardia del mondo, non sono che il versante minimale di uno spazio di attivazione che è aperto all’uomo perché egli vi esplichi la propria creatività. La creazione non è solo ex nihilo, dal nulla, ma anche contra nihilum, cioè contro il nulla e l’inconsistenza delle cose. Benedetto XVI ci dice che la negazione ecologica non è soltanto un deturpare antiestetico le bellezze del creato, un rendere meno ridente o attraente il cosmo: è anche sottrarre all’uomo la possibilità di un incontro sereno e comunicativo con il reale; è sottrarre al reale stesso la propria possibilità di continuo perfezionamento.

di Flavio Felice (www.tocqueville-acton.org)

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Giangiacomo

venerdì 5 settembre 2008

Induismo: identità e fanatismo

Le recenti tragiche violenze contro i cristiani in India hanno riportato agli onori delle cronache un dibattito che ferve da anni fra politologi e sociologi delle religioni. Ci si chiede se possa davvero essere definita “fondamentalista” la grande organizzazione indiana Rashtriya Swayamsevak Sangh (Associazione dei Volontari della Nazione, RSS), che a diverso titolo è alle origini dell’associazione internazionale di propaganda dell’induismo Vishva Hindu Parishad (VHP) e del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito politico che – dopo una lunga marcia dall’emarginazione al centro della scena politica, apertasi con la partecipazione a governi di coalizione – nel 1998 è diventato il partito di maggioranza relativa in India e ha espresso il primo ministro, Atal Binari Vajpayee, che è stato in carica fino al 2004. Nelle elezioni del 2004 una coalizione laica guidata dal Partito del Congresso dell’indiana di origine piemontese Sonia Gandhi ha sconfitto, contro tutti i sondaggi, il BJP, che è tornato all’opposizione. Il partito BJP, la VHP e molte altre organizzazioni fanno parte del Sangh Parivar, la “famiglia” di organizzazioni che derivano dal RSS e ne condividono gli ideali. Il Sangh Parivar propone una difesa intransigente dell’identità indù dell’India, con campagne contro i missionari cristiani e musulmani, che purtroppo non di rado trascendono in violenze, e gesti simbolici come la distruzione da parte della folla, nel 1992, della moschea eretta in epoca Mogul sul luogo, ad Ayodhya, dove la tradizione indù colloca la nascita di Rama, una delle più popolari incarnazioni di Vishnu.
Si tratta di “fondamentalismo”? La tesi è stata sostenuta sia nella dialettica politica indiana (dagli avversari del BJP), sia da specialisti come Andreas Schworck, ed è stata vigorosamente rifiutata non solo da alcuni studiosi occidentali che hanno evidenti simpatie per il Sangh Parivar come Koenraad Elst ma anche da altri che hanno cercato una definizione accettabile del fondamentalismo come “tipo ideale”, fra i quali lo storico svizzero Jean-François Mayer. Al di là di assonanze innegabili con i fondamentalismi protestante e islamico, il problema sottolineato da Mayer – per quanto riguarda l’induismo – sembra quello di identificare in modo chiaro quale sia il plesso di principi e dottrine religiose da cui dedurre senza mediazioni una cultura e una politica. L’induismo è un mosaico di principi e di correnti diverse, che la VHP ha tentato di unificare in una sorta di “Chiesa” induista, senza però riuscire a costruire più di una federazione di gruppi che rimangono diversi e che comunque rappresentano solo una parte del variegato mondo induista. Le parole d’ordine intorno alle quali il Sangh Parivar raduna un numero cospicuo di seguaci fanno riferimento a un’immagine essenziale e mitica dell’induismo quale elemento unificatore della nazione indiana e bastione contro il colonialismo culturale “straniero” (cioè musulmano e cristiano). Perché questa immagine tenga, occorre ridurre al minimo i dettagli, così che il riferimento alla religione (senza volerlo necessariamente squalificare come strumentale o posticcio) costruisce più un “nazionalismo religioso” che non un autentico fondamentalismo.
Ultimamente, decidere se si tratti di “fondamentalismo” o di “nazionalismo” è certamente importante per gli studiosi, ma non fa molta differenza per le vittime di violenze contro la minoranze cristiana e quella musulmana – senza dimenticare che tra queste due c’è una differenza, che è forse poco “politicamente corretto” ma è obbligatorio ricordare: i cristiani non hanno mai reagito alla violenza con la violenza, mentre i musulmani si sono organizzati per rispondere al sangue con il sangue, alimentando vari conflitti regionali e locali che hanno fatto migliaia di morti. La condanna della violenza – come ha ricordato Papa Benedetto XVI – non può che essere intransigente e assoluta. La violenza contro i cristiani non può essere giustificata o “compresa” – come purtroppo talora si legge anche su qualche giornale occidentale – in nome dell’anticolonialismo o della difesa dell’identità indiana minacciata dalla globalizzazione.
Resta tuttavia un grande problema culturale o politico. Tutto il Sangh Parivar – un immenso movimento il cui braccio politico, il BJP, nelle elezioni indiane del 2004 ha preso (pure arretrando rispetto alla tornata elettorale precedente) ottantacinque milioni di voti – può essere squalificato come una congrega di “fondamentalisti” e di assassini di cristiani? C’è chi lo pensa, con buone ragioni che derivano dalle dichiarazioni di alcuni suoi esponenti, i quali sono almeno “cattivi maestri” rispetto alle folle ubriache di slogan nazionalisti che assaltano le parrocchie e gli orfanotrofi. Di fatto, però, la coalizione che si esprime nel Sangh Parivar e nel partito BJP comprende una ricca varietà di correnti e gruppi che vanno da un ultra-fondamentalismo indù radicale a forme di conservatorismo piuttosto pragmatico. Il partito regionalista Shiv Sena, con base a Bombay (Mumbai) e guidato da Bal Thackeray (con cui ho avuto un’interessante conversazione qualche anno fa) non manca di accenti pressoché razzisti contro i non indù e gli immigrati. Altre componenti del movimento e del partito sono assai più moderate e pragmatiche. Di fatto sono state queste ultime a prevalere (anche se non senza compromessi con le tendenze più estremiste) nella classe dirigente del BJP. Il primo ministro Vajpayee aveva saputo coniugare ultra-antico e ultra-moderno: simboli che risalgono ai Veda e ai poemi epici e una decisa modernizzazione dell’economia in direzione del libero mercato, con risultati economici da molti definiti straordinari.
Il rivale storico del BJP, il Partito del Congresso di Sonia Gandhi oggi al potere, guida un’eterogenea coalizione di forze unite dal richiamo al secolarismo e al laicismo anch’essi tipici di una certa tradizione indiana. Sonia Gandhi ha beneficiato del voto della minoranza cattolica promettendo l’abolizione delle leggi anti-missionarie: tuttavia in molti Stati queste rimangono in vigore, e la Gandhi ha potuto vincere solo mettendo insieme decine di partiti alcuni dei quali a loro volta fieramente anti-cattolici. Quanto al BJP, i suoi oltre ottanta milioni di elettori non sono certo tutti “fondamentalisti” con la bava alla bocca: molti votano BJP perché considerano i nazionalisti più competenti in economia e più onesti della coalizione guidata dal Partito del Congresso, la cui storia è segnata da gravi episodi di corruzione. Il BJP insieme rappresenta e in qualche modo controlla gli elementi più facinorosi della rinascita induista. La comunità internazionale deve chiedere a voce alta e con la necessaria severità a questo grande partito (che potrebbe tornare presto al potere in India) di condannare e isolare i violenti. Ma tagliare i ponti e interrompere il faticoso dialogo con il BJP che gli Stati Uniti e l’Europa hanno avviato da anni sarebbe invece un errore.


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Giangiacomo

mercoledì 3 settembre 2008

Lo scontro di civiltà con la fede al dito

La Chiesa cattolica italiana ha ormai una vasta esperienza di matrimoni misti fra cattolici e musulmani. Ha condotto diverse indagini interne, e dispone di enti come il Centro Federico Peirone a Torino che da anni sono vicini alle coppie miste. La disponibilità all’aiuto in tutti i casi concreti non significa che la Chiesa non segnali con realismo i rischi. Del resto, su questo punto la posizione dei vescovi italiani non è lontana da quella di un combattivo apologista dell’islam come Tariq Ramadan, il quale usa parole piuttosto severe nei confronti di quei musulmani che sposano un coniuge cristiano con una buona dose di superficialità, andando incontro nella maggior parte dei casi a un inevitabile fallimento.
Il problema è anzitutto teologico. La nozione del matrimonio non è la stessa nel cristianesimo e nell’islam. Il diritto islamico – sia pure con precisazioni e limitazioni – ammette la poligamia, e permette al marito di ripudiare la moglie semplicemente dichiarandolo, mentre la donna per divorziare deve passare attraverso un tribunale. Una musulmana non può sposare un uomo di un’altra religione; un musulmano può sposare una cristiana o un’ebrea ma dev’essere chiaramente stipulato che i figli saranno educati nella religione islamica. L’idea soggiacente è che il matrimonio non è, come per i cristiani, anzitutto un’istituzione di diritto naturale, per quanto elevata da Gesù Cristo alla dignità di sacramento. Per l’islam il matrimonio è un contratto rigorosamente normato dal Corano e dal diritto islamico, e l’idea che un musulmano sia coinvolto in un legame matrimoniale meramente “naturale”, non regolato dalla sua religione, non ha senso.
Quando questa mentalità entra in contatto con il diritto occidentale iniziano i problemi. Per cominciare, in Italia una donna ha diritto di sposare chi vuole, prescindendo dalla religione. Ma una donna musulmana che non sia cittadina italiana in pratica avrà molte difficoltà a sposare un non musulmano. Il suo consolato, nella maggior parte dei casi, le negherà il nulla osta matrimoniale. Se il fidanzato italiano non ha una forte identità cristiana si presenterà al consolato per una “falsa” conversione all’islam, che dimenticherà poco dopo il matrimonio, salvo però esporsi a un’accusa di apostasia ove dovesse tornare alla pratica del cristianesimo. In mancanza di conversione dello sposo più o meno fasulla, ci sono oggi sentenze dei nostri tribunali che permettono a donne musulmane straniere di sposarsi in Italia anche senza il nulla osta del Paese di origine. Ma per il loro Paese questo matrimonio è illecito, e se tornano in patria le conseguenze possono essere molto serie.
In realtà, in Italia sono più spesso donne cristiane a sposare immigrati musulmani. Non mancano casi di poligamia, i più gravi, perché il matrimonio poligamo per la legge italiana non esiste e la seconda (o terza, o quarta) moglie potrà essere ripudiata senza godere di alcuna tutela giuridica. La Chiesa sa però che anche i matrimoni misti monogamici spesso falliscono. L’uomo musulmano ha difficoltà a rinunciare all’idea del ripudio facile, evidentemente incompatibile con la nozione cattolica di matrimonio, e certamente non accetta che nel percorso educativo ai figli sia proposto il cristianesimo. Ha ragione – per una volta – Tariq Ramadan: il romanticismo non è un sostituto per la prudenza, e i richiami all’amore non bastano a superare una differenza culturale che si rivela nella maggior parte dei casi insormontabile.


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Giangiacomo

martedì 19 agosto 2008

Non nobis, Domine

"Non nobis, Domine, sed nomine Tuo da gloriam"
Non a noi, o Signore, ma al Tuo nome da gloria


Motto templare che esprime l’aspirazione al retto agire secondo la dottrina tradizionale

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Giangiacomo

giovedì 3 gennaio 2008

Ruini: attaccano la Chiesa perché adesso sta vincendo

Un'intervista datata di Aldo Cazzullo a Ruini. lunga, ma in questo periodo in cui VOI sicuramente sarete in ferie, potete leggerlo tranquillamente.

L’ex presidente della Cei: non si può guidare un Paese guardando solo all’immediato, è indispensabile affrontare i temi epocali

Vicario di due Papi, dal ’91 al marzo scorso capo dei vescovi italiani, il cardinale Camillo Ruini ha sul tavolo i due libri appena usciti da Piemme che riassumono la sua vicenda: Chiesa contestata e Chiesa del nostro tempo (domani la presentazione a Milano alla Cattolica, con Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Angelo Scola). È la prima intervista da quando ha lasciato la presidenza della Cei. Sono giorni di riflessioni e di bilanci, che il cardinale prepara tra le carte del suo studio, dove neppure la bomba del ’93 è riuscita a seminare il disordine. «Esplose proprio qui sotto. Io ero in Francia, rientrai subito, arrivai in Laterano mentre ne usciva il Papa. I danni erano seri,ma nello studio tutto era rimasto intatto».
I suoi primi anni alla guida della Conferenza episcopale videro il crollo della Dc. Come li ricorda?«Tutto accadde in fretta. Nei cinque anni passati alla Cei come segretario, tra l’86 e il gennaio del ’91, non intravidi gli sviluppi successivi. Ma già a settembre era cominciato il travaglio, accelerato dalle elezioni del ’92, che in breve avrebbe portato alla fine dell’unità politica dei cattolici. Ma anche la nostra risposta fu abbastanza rapida. Nel novembre del ’95, al convegno ecclesiastico di Palermo, Giovanni Paolo II approvò la nuova impostazione, il diverso rapporto tra Chiesa e mondo politico: anziché ricercare l’unità perduta, privilegiare i contenuti essenziali, la questione antropolica, sociale, morale».
Quello che appariva un problema si rivelò un’opportunità. Alla Chiesa di Ruini si attribuisce la riconquista quasi gramsciana dell’egemonia cattolica sulla società. E anche, talora, un’ingerenza eccessiva. «Non abbiamo mai puntato a un’egemonia. Sarebbe stata un’ingenuità. Nel discorso pubblico condotto dai mezzi di comunicazione, in Italia o in qualsiasi altro Paese, la Chiesa non potrebbe trovarsi in posizione egemonica. La Chiesa è una voce in un contesto pluralistico; per quanto cerchi di essere una voce non meno decisa, non meno forte di altre».
Da qui forse l’accusa di ingerenza, di interventismo. «L’accusa di interventismo è legata all’idea di un confronto tra potere civile e potere ecclesiastico, ognuno con una sua legittimità. Ma viviamo oggi qualcosa di nuovo, che non si può rinchiudere nella dialettica tra Stato e Chiesa. Lo sviluppo scientifico e biotecnologico da una parte, e l’evoluzione del costume dall’altra fanno sì che le questioni etiche, che il pensiero liberale e altre moderne correnti di pensiero riconducevano alla sfera del privato, diventino questioni pubbliche. Ciò ha richiesto alla Chiesa di dare maggior rilievo pubblico alla missione che le è propria, occuparsi dell’ethos; che è inscindibile dalla fede. Non ne rappresenta il centro, il centro della fede è il rapporto con Dio e Gesù; ma il cristianesimo ha a che fare con la vita ».
Il momento più teso è stato il referendum sulla procreazione assistita. Vi è stato rimproverato un atteggiamento politicista: non solo la Chiesa si schierava, ma sceglieva lo strumento dell’astensione. «Non eravamo di fronte a una questione astratta ma concreta, che riguardava la vita, e richiedeva un intervento efficace. Si trattava di un referendum non proposto e non voluto da noi, per cancellare una legge non certo "cattolica" ma che conteneva aspetti positivi. In passato, nel ’74 e nell’81, erano stati proposti referendum da parte dei cattolici, sia pure non da soli. Stavolta il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto. Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo».
Intende dire che la Chiesa piace ai laici quando perde, come su divorzio e aborto, e disturba quando vince?«Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" come dice lei, tutto fila liscio. Nel caso contrario, la reazione è molto diversa, e riprendono vigore le croniche accuse di interventismo. Ciò che ha specificamente colpito e disturbato è che le nostre proposte abbiano avuto un notevole consenso nell’opinione pubblica».
Esiste in Italia un sentimento anticattolico, una sensibilità ipercritica verso la Chiesa? «Purtroppo sì. Esiste. È legittimo, perché siamo un Paese libero. Non bisogna maggiorarne l’efficacia; ma non si può negarne l’esistenza. C’è una pubblicistica specifica, non ineditamasempre più intensa, che si concentra in particolare sul vissuto della Chiesa».
È proprio la coerenza della Chiesa con i suoi insegnamenti a essere in questione. Le si rimprovera di essere tutt’altro che povera. «Non credo affatto che la Chiesa sia ricca. Potrà esserlo il singolo ecclesiastico, ma non lo è certo la Chiesa come istituzione. Contrariamente a quel che viene proposto, il rapporto tra i mezzi di cui la Chiesa dispone e le opere che riesce a compiere è incredibilmente favorevole. E questo lo si deve al volontariato. La gran parte delle risorse della Chiesa non vengono dallo Stato ma dai fedeli, sia in forma di offerte sia in forma di militanza. Questo la gente lo percepisce; e vedere una campagna in senso contrario, che proietta un’immagine rovesciata e presenta la Chiesa come un’istituzione che prende anziché dare, suscita interrogativi, diffidenze, timori».
Vi si accusa anche di nascondere le violazioni della morale sessuale, in particolare la pedofilia. «La fragilità umana esiste nella Chiesa come nel mondo intero. Neppure la Chiesa è fuori da un contesto socioculturale in cui la sessualità è concepita ed esaltata come fine a se stessa. Il contraccolpo è inevitabile, pure tra i credenti. Ci sono state, e temo continuino a esserci, realtà molto dolorose, che colpiscono profondamente quanti amano la Chiesa e in particolare coloro che hanno la responsabilità di governarla. Va anche detto che si può e si deve, sempre rispettando la dignità delle persone, essere attenti e vigili. Non è vero che queste realtà vengano coperte. Sia nella mia esperienza diretta, sia nell’esperienza di tanti altri, la vigilanza c’è sempre stata; anche se è difficile, poiché chi si rende responsabile di tali comportamenti tende a nasconderli.Ma la contestazione verso la Chiesa non si muove solo sul versante del vissuto».
A cosa si riferisce? «La contestazione attacca il centro della fede, il suo cuore. La persona di Gesù Cristo, la sua credibilità storica, il farsi carne del Verbo di Dio. Del resto, una cultura in cui il dolore non ha senso, la sofferenza viene negata, la morte emarginata, non può comprendere il cristianesimo. Che resta pur sempre la religione della croce».
Questa contestazione c’è sempre stata, non crede? «Certo. Ma oggi la sua violenza polemica è in crescita. E penso sia collegata all’impressione, fondata o infondata che sia, di una maggiore vitalità del cristianesimo».
Fondata, o infondata? «Quest’estate ho letto un libro di fine anni ‘60, che raccoglie una serie di conferenze radiofoniche nella Germania dell’epoca, con l’intervento di vari credenti — teologi, filosofi, psicologi—e di un intellettuale ateo. Che diceva più o meno questo: "Mi trovo in difficoltà, perché sono abituato a discutere con credenti ben decisi ad affermare che Dio esiste; ma qui mi pare che Dio sparisca dall’orizzonte, che il cristianesimo sia solo un modo di intendere la vita; a queste condizioni, non ho più nulla da obiettare". Parole dal tono involontariamente canzonatorio. Maanch’io, leggendo quel libro, ho pensato che allora ci fosse la paura di mettere la fede cristiana al centro, con un atteggiamento tanto guardingo da configurare una specie di ritirata. Oggi non è più così. E questo dà nuovo vigore a certe polemiche classiche, che si riaccendono ora che Benedetto XVI sostiene la plausibilità razionale della fede, e dopo che Giovanni Paolo II ha impresso la grande svolta con il suo grido: "Non abbiate paura". Non era uno slogan,mal’indirizzo di un pontificato. Ricordo che fu accolto con perplessità anche dentro la Chiesa: pareva un motto velleitario. Invece una partita che pareva conclusa, con esito a noi sfavorevole, ora è riaperta. Non tutto il clero l’ha colto; il popolo, forse di più. Mi è capitato di ritrovare un gruppo di miei coetanei, non tutti cattolici praticanti, e di essere da loro non soltanto incoraggiato ma spronato. Quando un’identità forte viene colpita allo scopo di distruggerla, essa reagisce, eccome ».
Alcuni intellettuali, che uno di loro ha definito autoironicamente «atei devoti», guardano alla Chiesa come al caposaldo dei valori che definiscono l’identità occidentale. Come valuta questo fenomeno? «Nella Chiesa si è discusso molto sui non credenti, o non pienamente credenti, che vedono con favore la sua presenza in campo culturale e civile. Dalla Chiesa sono venute risposte varie. Io credo che a Verona Benedetto XVI abbia dato un’indicazione precisa, in termini quanto mai positivi, favorevoli, disponibili. Certo, è impossibile ridurre il cristianesimo a un’eredità culturale; ma è vero che il cristianesimo ha sempre avuto la propensione a farsi generatore di cultura. In una situazione come quella di oggi, in cui vengono messi in discussione i fondamentali antropologici, è più che mai importante la convergenza tra tutti coloro che i fondamentali difendono e valorizzano».
Questo fa sì che la Chiesa sia vista come forza dichiaratamente conservatrice. Al punto da chiedersi se un cattolico possa ancora votare a sinistra. «Ma queste preoccupazioni per i fondamentali non sono limitate ad alcuni settori dell’arco culturale e politico. Sono condivise da molte parti. Non credo all’equazione tra difesa dei valori e conservatorismo, almeno non nell’accezione negativa del termine, come freno allo sviluppo; perché esiste anche un’accezione positiva. È cosa buona conservare i fondamentali, appunto».
Qual è l’attitudine verso l’Italia dei due Papi di cui lei è stato vicario? «C’è una differenza, non solo di stile: Benedetto XVI viveva già in Italia da oltre vent’anni; Giovanni Paolo II era sconosciuto a molti, me compreso. Ma c’è una grande somiglianza: entrambi partecipano della profonda convinzione che l’Italia e la Chiesa italiana abbiano un ruolo centrale nel contesto europeo e mondiale. Io stesso, nei due decenni trascorsi nel Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, ho notato che dall’estero si guarda all’Italia come a un’esperienza che ha qualcosa da dire anche a loro».
La Chiesa italiana è un modello per gli altri episcopati? «La situazione reale è rovesciata rispetto a quella talora raffigurata in Italia: non c’è qui da noi una Chiesa di retroguardia rispetto ad altri Paesi più illuminati, più aperti al futuro; è vero semmai il contrario, sono gli altri a rivolgersi a noi con grande interesse».
Qual è la sua opinione su Padre Pio? «Posso raccontarle qualcosa di personale. Mi sono imbattuto in lui in modo involontario, ma ripetuto. Mio padre era un medico ospedaliero, che fondamentalmente credeva, ma escludeva i miracoli. Una notte di oltre cinquant’anni fa — io ero già seminarista a Roma —, assistette alla guarigione subitanea di un ammalato che giudicava terminale, cui era apparso in sogno il frate. Mio padre fu molto traumatizzato da quell’esperienza. E conosco due suore che ebbero da lui un segno tangibile, una fotografia, che le lasciò attonite. Né mio padre né le suore ne hanno mai parlato, questi due fatti sono rimasti sconosciuti fino a oggi, e chissà quanti altri testimoniano la dimensione umanamente inspiegabile di Padre Pio, che buona parte della cultura contemporanea vorrebbe censurare come magica e non autentica».
Posso farle una domanda sulla sua successione? «Quella lasciamola al Santo Padre...».
...Intendevo la successione alla guida della Cei. Il cardinal Bagnasco ha ricevuto minacce. «Il mio successore sta facendo un ottimo lavoro. Ci sono stati segnali preoccupanti, che però non vanno sopravvalutati. In un clima polemico, uno sprovveduto può essere tentato da un gesto scorretto. Ma la possibilità è la stessa di finire travolti da un’auto per strada...».
Lei è stato il primo presidente della Cei a diventare una figura mediatica, oggetto di entusiasmi e invettive. Questo l’ha infastidita? «No. Non mi ha galvanizzato, non mi ha depresso; non gli ho mai dato molta importanza. È stato un processo graduale, iniziato tardi: sono arrivato a Roma a 55 anni... Per natura tendo a relativizzare. Del resto, la decisione implica l’accettazione del rischio. Anche se non ho purtroppo la meravigliosa capacità, che ho visto in Giovanni Paolo II, di affidarsi totalmente al Signore».
Quale le sembra la temperatura morale dell’Italia? Si è approdati all’alternanza politica, ma la sfiducia è tale che ogni volta il governo viene congedato... «È difficile trovare una sintesi della temperatura morale di un Paese. Ci sono segni positivi e altri negativi. Non nego che la situazione sia difficile, e che la temperatura possa apparire troppo fredda, segno di scarso entusiasmo, o troppo calda, segno di una malattia. L’Italia ha grandi potenzialità e una sostanziale robustezza; ma varie questioni non trovano uno sbocco convincente e duraturo nel tempo. È necessario che la dirigenza politica, come quella economica, sindacale, giornalistica, ecclesiale, guardino di più al medio e al lungo periodo, e non solo all’immediato. È indispensabile affrontare i temi epocali, dalla questione demografica indicata nel 2004 anche da Ciampi all’emergenza educativa di cui parla Benedetto XVI. Non si può guidare un aese guardando solo all’immediato. Chi metterà questi grandi problemi al centro dell’agenda politica, farà il bene dell’Italia, e sarà capito dalla gente».

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Giangiacomo

sabato 8 dicembre 2007

Natale siamo noi!

E' on line la versione 2007 di www.natalesiamonoi.it.
Leggi, stampa e porta a scuola il "Promemoria pro presepe": nuove argomentazioni per dire a studenti, insegnanti e dirigenti perchè fare il presepe fa bene alla scuola.

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Giangiacomo

domenica 2 dicembre 2007

Cosa significa la bellissima enciclica di Benedetto XVI sulla speranza

Un testo bellissimo da leggere e meditare…
Antonio Socci, "Libero" 1 dicembre 2007

Una bomba. E' la nuova enciclica di Benedetto XVI, "Spesalvi" dove non c'è neanche una citazione del Concilio (scelta di enorme significato), dove finalmente si torna a parlare dell'Inferno,del Paradiso e del Purgatorio (perfino dell'Anticristo, sia pure in una citazione di Kant), dove si chiamano gli orrori col loro nome (pere sempio "comunismo", parola che al Concilio fu proibito pronunciare econdannare), dove invece di ammiccare ai potenti di questo
mondo siriporta la struggente testimonianza dei martiri cristiani, le vittime, dove si spazza via la retorica delle "religioni" affermando che uno solo è il Salvatore, dove si indica Maria come "stella di speranza" e dove si mostra che la fiducia cieca nel (solo) progresso e nella (sola) scienza porta al disastro e alla disperazione. Benedetto XVI, del Concilio, non cita neanche la "Gaudium et spes",che pure aveva nel titolo la parola "speranza", ma spazza via proprio l'equivoco disastrosamente introdotto nel mondo cattolico da questa che fu la principale costituzione conciliare, "La Chiesa nel mondocontemporaneo". Il Papa invita infatti, al n. 22, a "un'autocritica del cristianesimo moderno". Specialmente sul concetto di "progresso". Per dirla con Charles Péguy, "il cristianesimo non è la religione delprogresso, ma della salvezza". Non che il "progresso" sia cosanegativa, tutt'altro e moltissimo esso deve al cristianesimo comedimostrano anche libri recenti (penso a quelli di Rodney Stark, "Lavittoria della Ragione" e di Thomas Woods, "Come la Chiesa Cattolicaha costruito la civiltà occidentale"). Il problema è l' "ideologia delprogresso", la sua trasformazione in utopia. Il guaio grave della "Gaudium et spes" e del Concilio fu quello dimutare la virtù teologale della "speranza" nella nozione mondanizzatadi "ottimismo". Due cose radicalmente antitetiche, perché, comescriveva Ratzinger, da cardinale, nel libro "Guardare
Cristo": "loscopo dell'ottimismo è l'utopia", mentre la speranza è "un dono che ciè già stato dato e che attendiamo da colui che solo può davveroregalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storiacon Gesù". Nella Chiesa del post-Concilio l' "ottimismo" divenne un obbligo e unnuovo superdogma. Il peggior peccato diventò quello di "pessimismo". Adare il là fu anche l'
"ingenuo" discorso di apertura del Conciliofatto da Giovanni XXIII, il quale, nel secolo del più grande macellodi cristiani della storia, vedeva rosa e se la prendeva con icosiddetti "profeti di sventura": "Nelle attuali condizioni dellasocietà umana" disse "essi non sono capaci di vedere altro che rovinee guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con isecoli passati,
risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al puntodi comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia… ANoi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti disventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo". Roncalli fu ritenuto, dall'apologertica progressista, depositario diun vero "spirito profetico", cosa che si negò – per esempio – allaMadonna di Fatima la quale invece, nel 1917, metteva in guardia da orribili sciagure, annunciando la gravità del momento e il pericolomortale rappresentato dal comunismo in arrivo (dopo tre mesi) inRussia. Si verificò infatti un oceano di orrore e di sangue. Ma 40anni dopo, nel 1962, allegramente – mentre il Vaticano assicurava Mosca che al Concilio non sarebbe stato condannato esplicitamente ilcomunismo e mentre si "condannavano" a mille
vessazioni santi comepadre Pio – Giovanni XXIII annunciò pubblicamente che la Chiesa del Concilio preferiva evitare "condanne" perché anche se "non mancano dottrine fallaci… ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensia condannarli". E infatti di lì a poco si ebbe il massimo dell'espansione comunista nel mondo, non solo con regimi che andavano da Trieste alla Cina e
poiCuba e l'Indocina, ma con l'esplosione del '68 nei Paesi occidentali che per decenni furono devastati dalle ideologie dell'odio. Pochi annidopo la fine del Concilio Paolo VI tirava il tragico bilancio, per laChiesa, del "profetico" ottimismo roncalliano e conciliare: "Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole perla storia della Chiesa. È venuta invece una
giornata di nuvole, ditempesta, di buio, di ricerca, di incertezza…L'apertura al mondo èdiventata una vera e propria invasione del pensiero secolare nellaChiesa. Siamo stati forse troppo deboli e imprudenti", "la Chiesa è inun difficile periodo di autodemolizione", "da qualche parte il fumo diSatana è entrato nel tempio di Dio". Per questa leale ammissione, lo stesso Paolo VI fu isolato
come"pessimista" dall'establishment clericale per il quale la religionedell'ottimismo "faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione"(oltre a far dimenticare l'enormità dei pericoli che gravanosull'umanità e dogmi quali il peccato originale e l'esistenza diSatana e dell'inferno). Ratzinger, nel libro citato, ha parole di fuoco contro questa sostituzione della "speranza" con l' "ottimismo". Dice che "questo ottimismo metodico veniva prodotto da coloro che desideravano la distruzione della vecchia Chiesa, con il mantello dicopertura della riforma", "il pubblico ottimismo era una specie ditranquillante… allo scopo di creare il clima adatto a disfare possibilmente in pace la Chiesa e acquisire così dominio su di essa". Ratzinger faceva anche un esempio personale. Quando esplose il casodel suo libro intervista con Vittorio Messori, "Rapporto sulla fede",dove si illustrava a chiare note la situazione della Chiesa e delmondo, fu accusato di aver fatto "un libro pessimistico. Da qualche parte" scriveva il cardinale "si tentò perfino di vietarne la vendita, perché un'eresia di quest'ordine di grandezza semplicemente non potevaessere tollerata. I detentori del potere d'opinione misero il libroall'indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Vennedimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lospirito dell'epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo". Oggi Benedetto XVI, con questa enciclica dal pensiero potente (che valorizza per esempio i "francofortesi"), finalmente mette in soffitta il burroso "ottimismo" roncalliano e conciliare, quell'ideologismofacilone e conformista che ha fatto inginocchiare la Chiesa davanti almondo e l'ha consegnata a una delle più tremende crisi della suastoria. Così la critica implicita non va più solo al post concilio,alle "cattive interpretazioni" del Concilio, ma anche ad alcuneimpostazioni del Concilio. Del resto già un teologo del Concilio comefu Henri De Lubac (peraltro citato nell'enciclica) scriveva aproposito della Gaudium et spes: "si parla ancora di oncezionecristiana', ma ben poco di fede cristiana. Tutta una corrente, nelmomento attuale, cerca di agganciare la Chiesa, per mezzo delConcilio, a una piccola mondanizzazione". E persino Karl Rahner disseche lo "schema 13", che sarebbe divenuto la Gaudium et spes, "riducevala portata soprannaturale del cristianesimo". Addirittura Rahner !Ratzinger visse il Concilio: è l'autore del discorso con cui il cardinale Frings demolì il vecchio S. Uffizio che non pochi danniaveva fatto. E oggi il pontificato di Benedetto XVI si staqualificando come la chiusura della stagione buia che, facendo tesoro delle cose buone del Concilio, ci ridona la bellezza bimillenaria della tradizione della Chiesa. Non a caso nell'enciclica non è citato il Concilio, ma ci sono S. Paolo e Gregorio Nazianzeno, S. A
gostino e S. Ambrogio, S. Tommaso e S. Bernardo. Un'enciclica bella, bellissima. Anche
poetica, che parla al cuore dell'uomo, alla sua solitudine e ai suoi desideri più profondi. E' consigliabile leggerla e meditarla attentamente.

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Giangiacomo

mercoledì 28 novembre 2007

Cento anni fa, l'enciclica "Pascendi"

Pio X e il modernismo

Non è stato facile definire il modernismo per la grande varietà di forme e di adattamenti che esso assume. In sintesi si può dire che il modernismo ripropone all’interno della Cattolicità, in modo più o meno nascosto, la lezione e gli orientamenti del protestantesimo. Il modernismo costituisce la grande prova della Chiesa contemporanea. Come tale fu compresa in tutta la sua drammaticità all’inizio del XX secolo; non così avvenne, però, quando le stesse tendenze riemersero turbinosamente nella seconda metà del secolo determinando una vertiginosa sostituzione dell’evento cristiano con una triste intellettualizzazione della fede.

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Giangiacomo

domenica 16 settembre 2007

L’Europa che vuole il Papa è fondata sulla ragione

Nel suo viaggio in Austria Benedetto XVI è idealmente tornato a Ratisbona e al memorabile discorso che lì tenne un anno fa. Un discorso che molti ricordano solo per la critica all’islam, che in realtà era assunto come elemento di contrasto per mostrare come l’Europa dovrebbe essere e come purtroppo non è.
La «questione essenziale» per Benedetto XVI non riguarda la fede ma la ragione. La grande domanda è - come ha detto il Papa a Vienna - se la ragione «stia al principio di tutte le cose e a loro fondamento o no». Questa domanda ha una risposta positiva, che nasce dall’eredità greca, dall’ebraismo e dal cristianesimo.
La cultura laica europea ha certamente dato nuovi significati - non tutti accettabili per la Chiesa - alla parola libertà. Ma questa idea di libertà - ha ricordato Benedetto XVI in Austria con le parole del filosofo non credente Jürgen Habermas - nasce sulle fondamenta ebraiche e cristiane del primato della ragione: «È un’eredità immediata della giustizia giudaica e dell’etica cristiana dell’amore», un lascito - aggiunge Habermas - cui «fino ad oggi non esiste alternativa». Solo se si crede che la ragione sia un principio e fondamento universale si può credere nella verità.
Credere, cioè, che alcune norme e valori siano veri per tutti gli uomini in quanto tali. La stessa fede cattolica può avanzare la sua pretesa unica di verità, che il Papa ha ricordato sabato a Mariazell precisando che «non significa disprezzo per le altre religioni», solo se, prima di cominciare a parlare di Dio, si è d’accordo sul fatto che esiste la verità e che la ragione può conoscerla.
Ma, ha aggiunto, alla domanda cruciale sulla ragione purtroppo non tutti rispondono di sì. C’è un’ampia parte della cultura europea che oggi pensa che «la ragione sia un casuale prodotto secondario dell’irrazionale e nell’oceano dell’irrazionalità, in fin dei conti, sia anche senza un senso». A Vienna e a Mariazell, il Papa ha mostrato come per l’Europa l’abbandono del primato della ragione porta a una «rassegnazione che considera l’uomo incapace della verità». Se non esiste «la» verità, non esistono «le» verità, né valori universali.
Nasce da qui la grande lezione del Papa sulla domenica, che o è occasione per mettere nel nostro tempo un «ordine interiore» intorno alla verità, o è semplice «tempo libero» che diventa «tempo vuoto». E «se per l’uomo non esiste una verità egli non può neppure distinguere tra il bene e il male». Si penserà così che il Papa sia contro l’aborto, l’eutanasia, le manipolazioni di una scienza che, senza limiti morali, diventa una «terribile minaccia» capace di «distruggere l’uomo» per un suo «interesse specificamente ecclesiale», senza comprendere che la Chiesa difende la vita in nome della ragione prima ancora che della fede. E si perderà anche la speranza, costruendo un’Europa ricca di beni materiali ma «povera di bambini». Contro questo «invecchiamento spirituale» il Papa chiede a tutti, anche ai non cristiani e ai non credenti, di tornare a riconoscere il primato della ragione.


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Giangiacomo

domenica 9 settembre 2007

Date a Cesare quello che è di Cesare... e a Dio?

il mio amico, Carmelo Ferlito, mi segnala un suo articolo accattivante che vi riporto!

Il recente intervento del Cardinal Bertone al Meeting per l'amicizia fra i popoli, l'importante kermesse culturale riminese organizzata da Comunione e Liberazione, ha riaperto il dibattito circa il dovere per un cattolico di pagare le tasse; la questione, lo ricordiamo era stata sollevata qualche mese fa quando il premier Prodi si era lamentato del fatto che vescovi e parroci durante l'omelia domenicale poco si prodigano per sollecitare i fedeli a versare l'obolo allo Stato. Dal palco di Cl il Segretario di Stato Vaticano ha invitato i cattolici a pagare le tasse, così il Presidente del Consiglio si è affrettato a dichiararsi in sintonia con la gerarchia ecclesiastica. Di sicuro scordandosi che poco più di un anno fa, durante la campagna referendaria per la fecondazione assistita, aveva voluto marcare le sue distanze da S. Pietro, definendosi cattolico adulto…
Peraltro, non ci accoderemo nella lista dei commentatori della vicenda. Piuttosto, vogliamo provare a svolgere una riflessione circa il noto passo evangelico in cui Gesù invita a rendere a Cesare quel che è di Cesare: «Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?". Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: "Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo". Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: "Di chi è questa immagine e l'iscrizione?". Gli risposero: "Di Cesare". Allora disse loro: "Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio"» (Mt, 22, 15-21). Questi versetti non sono mai risparmiati da coloro che sostengono il dovere morale di pagare le tasse. Ma, in realtà, cosa intendeva dire Gesù? Fu la sua una lezione di educazione civica? Intendeva invitare i suoi discepoli ad essere cittadini modello?
Nulla di tutto questo, a nostro modestissimo avviso. Ipocriti, perché mi tentate? osserva Gesù… Infatti, sa benissimo che rispondendo positivamente, affermando cioè che è lecito pagare il tributo, i farisei potevano accusarlo di non sostenere la causa di Israele nei confronti di Roma; sarebbe stato considerato al servizio del potere imperiale. D'altro canto, se avesse invitato allo sciopero fiscale l'avrebbero attaccato perché sobillatore e rivoluzionario. Così, come al solito, scelse una risposta dialetticamente e praticamente inoppugnabile. Ma, di nuovo, cosa intendeva dire? Ci pare di poter scorgere nelle parole di Gesù un atteggiamento sprezzante; come a dire, ci si consenta: «non avete proprio capito nulla del perché Io sia qui; davvero secondo voi può importarMi delle tasse? Sulla moneta c'è Cesare? Rendete a lui ciò che è suo, cosa Me ne può importare? Però, badate, rendete a Dio ciò che è di Dio». Quello di Gesù è un atteggiamento di compassione nei confronti dell'uomo. I farisei sono intenti a coglierlo in fallo attraverso tattiche meschine, neanche provando a scendere sul piano della scommessa che Lui poneva. È un'altra la cosa importante che il Cristo chiede di verificare: «Sono il Figlio di Dio, venuto a dirti che la tua vita ha un senso ed è eterna. Ti interessa?». Il resto sono cose di Cesare, cioè del mondo, al massimo strumento, come tante altre cose, per la Salvezza.
Deve quindi un cristiano interrogarsi sulla necessità di pagare le tasse? Un cristiano, se desidera essere tale, deve prima di tutto preoccuparsi di essere in rapporto mistico con Gesù e di cogliere quale stile di vita, quale attitudine lo può condurre alla Salvezza, alla vita eterna. Si tratta di una predisposizione dell'anima, un percorso di conoscenza reale del Mistero. All'interno di una simile esperienza sta anche il pagare le tasse: ma perché ci si trova in questa realtà concreta, fatta di queste cose che vanno fatte perché si vive qui ed ora e non da un'altra parte. Però, reso a Cesare quel che è di Cesare, forse è più interessante per un cristiano iniziare a capire la portata del rendere a Dio ciò che è di Dio…
E che cosa, dunque, è di Dio? Questa, nella visione cristiana, è la grande battaglia dell'Io, della scelta dell'uomo su se stesso. In ballo non ci sono le tasse, i soldi, le cose, ma se stessi. Di chi sono io? Di Cesare o di Dio? Del mondo o di qualcun Altro? A chi appartengo? Per cosa do la vita? Per Cesare, per i soldi, per le donne, per il lavoro, per la carriera o per Dio? In definitiva, dietro la chiusura Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio è sottintesa una domanda: il mio Io a chi lo do? A Cesare o a Dio?
Le tasse si pagano perché, come dice Paolo, siamo nel mondo. A Gesù, però, non interessa a chi pago le tasse. Ma a chi concedo me stesso. Cioè, se siamo Suoi o del mondo.

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Giangiacomo

martedì 4 settembre 2007

L'egiziano e la fatwa negata

Lo scorso 20 Agosto ero presente all'incontro di Magdi Allam presso il Meeting dell'Amicizia tra i popoli, a Rimini.
Siccome lo scrittore di "Salviamo i cristiani" aveva presentato il caso di un giovane egiziano, oggi vi ripropongo l'articolo dello scorso Venerdì su Il Corriere della Sera sullo stesso caso. Sconcertante la situazione egiziana!

"Il caso del giovane egiziano Mohamed Hegazi condannato a morte perché convertito al cristianesimo che vi ho raccontato sul Corriere lo scorso 20 agosto sarebbe dunque un falso. E lui sarebbe solo un «mitomane prezzolato». Un «mitomane prezzolato» che avrebbe venduto la sua anima a una «organizzazione criminale» dedita a sobillare la guerra religiosa in un Paese, l'Egitto, dove musulmani e cristiani andrebbero d'amore e d'accordo. Lei, Suad Saleh, preside della Facoltà di studi islamici e arabi dell'Università islamica di Al Azhar, non avrebbe mai emesso alcuna fatwa, un responso giuridico islamico, legittimante la morte dell'apostata. Sono rimasto incredulo nel leggere, riportato integralmente da due siti italiani di spiccata simpatia islamica, l'articolo pubblicato il 22 agosto dal Riformista con il titolo «Caso Higazi. Ma la fatwa dov'è?», a firma di Paola Caridi, che inizia così: «Al Cairo cadono dalle nuvole. Studiosi d'islamismo e persone della maggioranza silenziosa che segue l'islam politico moderato. Nessuno sa nulla della fatwa di Al Azhar contro Mohammed Hegazy, il 25enne egiziano convertitosi al cristianesimo nove anni fa, che ha richiesto la modifica della sua appartenenza religiosa sui documenti d'identità. Perché, finora, nessuna fatwa è stata emessa. E cadono dalle nuvole anche quando si spiega che sui giornali italiani, invece, il caso sta montando come panna. Sulla stampa egiziana, anche su quella indipendente — invece — poco si legge. E quello che si legge, a dire il vero, è decisamente moderato ». Bene. Cominciamo dai fatti. Hegazi, 25 anni, è un militante politico dell'opposizione, rappresentante a Port-Said del movimento Kifaya (Basta!). Ha rilasciato delle dichiarazioni pubbliche, raccolte anche dal corrispondente del quotidiano francese Le Figaro, Tangi Salaun, in cui denuncia che «ricevo delle minacce di morte sul mio cellulare».
Quanto alla Saleh, piaccia o meno, le viene riconosciuto il titolo di «mufti», giureconsulto abilitato a rilasciare dei responsi legali islamici, così come è formalizzato sul sito islam-online.net, legato ai Fratelli Musulmani, in data 21 febbraio 2007, che pubblica una sua fatwa in cui prescrive che «la donna può accedere alla carica di capo dello Stato ma a condizione che non sia in contrasto con il suo ruolo fondamentale in seno alla società, ovvero di essere madre e moglie ». Ed è proprio l'alto incarico che detiene in seno all'università-moschea, che viene considerata una sorta di «Vaticano dell'islam sunnita», che accredita i suoi responsi giuridici e li trasforma in sentenze per coloro che prestano obbedienza cieca e assoluta alla sharia, la legge islamica. Ebbene il responso giuridico con cui la Saleh legittima la condanna a morte di Hegazi, a condizione che la pena venga attuata dallo Stato e non dai singoli, è stato reso noto nel corso di un suo incontro pubblico con delle militanti islamiche pubblicato dal quotidiano indipendente Al Dostour lo scorso 14 agosto. La stessa fatwa di condanna a morte di Hegazi è stata da lei reiterata in una dichiarazione rilasciata al quotidiano Al Quds Al Arabi del 20 agosto. Suffragata da fatwe simili emesse da altri esponenti di primo piano di Al Azhar, tra cui Abdel Sabbur Shahine, Youssef Al Badri, Mohammad Hosam, Amina Nasir. Questi stessi personaggi avevano sostenuto la condanna a morte dell'apostata in dichiarazioni raccolte dal quotidiano indipendente Al Masri Al Youm l' 11 agosto. Così come il caso Hegazi è stato al centro di inquietanti inchieste dei settimanali Rose El Yossef del 25 agosto e Al Ahram Al Arabi del 18 agosto. Come si fa a sostenere che nessuna fatwa di condanna a morte di Hegazi sarebbe stata emessa quando ce ne sono diverse, tutte di autorevoli esponenti di Al Azhar, pubblicate dalla stampa egiziana? E come si fa a sostenere che il regime egiziano sarebbe moderato dal momento che è lui che designa gli alti gradi di Al Azhar e paga gli stipendi a tutti i suoi dipendenti? E come si fa a negare la persecuzione e l'esodo a cui sono sottoposti i cristiani in Egitto, documentato da fatti e da cifre incontestabili? Evidentemente nell'era del negazionismo dell'Olocausto, del genocidio armeno e dell'11 settembre, non ci si fa scrupoli a negare l'evidenza e a mistificare la realtà, anche quando la posta in gioco è la sacralità della vita di tutti noi".

Magdi Allam


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Giangiacomo

martedì 21 agosto 2007

Turchi ed Europa: Martiri di Otranto, 1480

Nell'estate del 1480, i Turchi di Acmet Pascià assediarono la città di Otranto.
Entrati con forza nella città, raccolsero gli uomini superstiti. Gli abitanti furono portati sulla vicina collina della Minerva e obbligati a rinnegare Cristo.
Quegli uomini preferirono la morte.

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Giangiacomo

venerdì 10 agosto 2007

Il Papa contro la teologia "politicamente corretta"

Nell’udienza di mercoledì 8 agosto 2007 – rievocando la figura di un grande padre della Chiesa del IV secolo, san Gregorio di Nazianzo (330-390) – Benedetto XVI ha colto l’occasione per denunciare la teologia “politicamente corretta” che, anziché denunciare le malefatte dei governanti, predica una fede “politicamente utile”. È perché non accettava di predicare nel senso gradito agli uomini di governo del suo tempo che san Gregorio, eletto vescovo di Costantinopoli e come tale presidente del Concilio ecumenico, che si svolgeva in quella città, dovette subire “una forte opposizione” che lo indusse, dopo un discorso di addio “di grande effetto”, alle dimissioni.
Un commentatore malizioso potrebbe immaginare un riferimento a recenti vicende italiane, che in una settimana hanno visto dapprima il presidente del Consiglio salire in cattedra per dare istruzioni ai sacerdoti su quali temi devono trattare nelle omelie: in particolare, il dovere di pagare senza protestare le innumerevoli tasse del suo governo. C’è stato poi un fiorire di iniziative di giudici che, sulla base di testimonianze alquanto dubbie, sbattono mostri in prima pagina e accusano di abusi sessuali sacerdoti che, vedi caso, manifestano opinioni diverse da quella della sinistra. Infine, non è mancato un sermone di Eugenio Scalfari che indica nella Chiesa la radice di tutti i mali d’Italia e suggerisce anche lui per mettere a posto le cose (Prodi evidentemente ha fatto scuola) una teologia e una predicazione alternative a quelle proposte dal Papa e dai vescovi. Ma l’interpretazione sarebbe riduttiva: infatti, non c’è solo l’Italia. Anche in Cina – un Paese di cui Benedetto XVI si è occupato in una recente lettera – il governo sostiene una Chiesa scismatica che predica una religione “politicamente utile”. E in Venezuela il presidente Hugo Chavez minaccia la galera ai vescovi che rifiutino di sostenere pubblicamente il suo regime.
La Chiesa, tuttavia – è il senso del discorso del Papa – non si lascia imbavagliare. Proprio in questi giorni è stato presentato un fascicolo che raccoglie tutti gli interventi di Benedetto XVI contro il riconoscimento delle unioni civili come “piccoli matrimoni” aperti anche agli omosessuali, che si chiamino PACS, DICO o CUS. E a chi oppone le ragioni di un umanesimo laico a quelle della Chiesa nel discorso di mercoledì 8 agosto Benedetto XVI replica che “senza Dio l’uomo perde la sua grandezza, senza Dio non c’è vero umanesimo”.
Ma c’è anche dell’altro. Il monito che viene dall’esempio di san Gregorio di Nazianzo è rivolto anzitutto a quella teologia cattolica che accetta di giocare il gioco del “politicamente corretto” e. così facendo, si mette al servizio dei potenti privi di scrupoli, giustificandone le prevaricazioni e le cattive leggi. Oggi come nel IV secolo la strategia di questi teologi consiste nel presentare la fede come qualche cosa di molto complicato. Ed è attraverso quelle che il Papa chiama “complicate speculazioni” che i teologi al servizio del potere politico confondono i fedeli. Il vero teologo, invece, presenta la dottrina cattolica come semplice e alla portata di tutti, e spiega in termini chiari e accessibili “alla nostra ragione” anche le “meraviglie del mistero rivelato”. Chi siano oggi i teologi “politicamente corretti” che ingannano il popolo cattolico non è esplicitato nel discorso di Benedetto XVI. Ma una lettura delle cronache e delle opposizioni che incontrano il suo insegnamento e i suoi documenti mostrano che non vanno cercati molto lontano.


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Giangiacomo

Chavez è un "dittatore paranoico"

Intervista di Franca Giansoldati da Il Messaggero, 29 luglio 2007

Hugo Chavez è un paranoico. Per la precisione un dittatore paranoico». Come scusi? «Paranoico, ha capito benissimo». Il cardinale Josè Castillo Lara da Caracas, all’indomani dell’ennesimo scontro frontale tra il presidente venezuelano e uno dei più illustri cardinali latino-americani (l’honduregno Maradiaga definito un ”pagliaccio imperialista”), è un fiume in piena e non si sottrae a chi gli chiede di spiegare perchè i rapporti tra l’episcopato e Chavez sono così pessimi. «S’è fissato di essere il liberatore dell’America Latina dagli Usa, dall’Impero come lo chiama lui. Idea peraltro non troppo originale, copiata pari pari da Fidel Castro».
Anche lei in passato è stato offeso da Chavez..
«Sì, mi ha accusato di essere un bandito, un ipocrita. Non ho mai reagito, del resto che si potrebbe rispondere? E’ come se uno entrasse in un manicomio e venisse insultato dai matti. Mica si può replicare loro, si tira dritto e basta».
Chavez, una specie di fotocopia del Lider Maximo?
«Peggio. La paranoia gli fa perdere il senso della realtà. Vede solo quello che gli interessa. Parla del socialismo del XXI secolo ma nella sua testa è una specie di comunismo nella fase peggiore, concentrato di populismo e autoritarismo. E ora vuole pure modificare la costituzione, come se non gli bastasse il potere che ha. Io sono molto preccupato per il mio Paese».
E’ davvero così grave la situazione?
«Chavez è al lavoro per eliminare la proprietà privata. Vuole sopprimerla e lasciare solo la proprietà collettiva. Ha già fatto fallire e chiudere due terzi delle imprese in Venezuela. E’ una cosa terribile. I vescovi hanno garbatamente denunciato questa deriva. Lui reagisce in modo violento».
Lei lo ha definito un dittatore. Ma non era stato eletto?«E come no. Solo che ha tutti i poteri in mano. Quello giudiziario: non vengono emesse le sentenze sgradite. Quello legislativo: controlla l’Assemblea eletta solo col 9 per cento degli elettori. C’è stata una astensione completa, circa l’80 per cento. Alle elezioni non sono state rispettate le regole, è mancato il registro elettorale, si sono verificati problemi. Si procede a colpi di decreti e in un anno e mezzo è maturata, guarda un po’, l’idea di cambiare la Costituzione. Se non è una dittatura questa, cos’è?»
Eppure Chavez si dice cristiano...
«E’ un pagliaccio, nel senso che è quello che gli conviene. Se incontra Gheddafi si presenta musulmano. Di sè dice di essere cristiano e si fa vedere con un crocifisso in mano ma la gente non gli crede».
Perchè ce l’ha così tanto con la Chiesa?
«La ragione della sua rabbia sta nel fatto che la Chiesa in Venezuela è gode di credibilità. E’ al primo posto nei sondaggi e i vescovi non possono tacere i rischi di questa deriva populista e di tante ingiustizie».
E il Papa?
«Si sono incontrati in Vaticano l’anno scorso. Benedetto XVI gli ha consegnato una lettera nella quale implorava anche di rilasciare i prigionieri politici. Delle cinque cose chieste finora solo una: la restituzione di una università cattolica».


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Giangiacomo

sabato 14 luglio 2007

«La messa in latino unisce i fedeli»

C’è stato chi, dalle colonne di un quotidiano, si diceva certo, anzi certissimo, che il Papa non l’avrebbe mai firmato. Chi, seguendo la dottrina Bush, ha combattuto la sua «guerra preventiva» contro un documento di cui non conosceva il contenuto. Chi ha addirittura detto che Papa Ratzinger liberalizzando l’antico messale avrebbe «sbeffeggiato» il Concilio.
Benedetto XVI, con il Motu proprio e la lettera pubblicati ieri, ha preso una decisione coraggiosa e per certi versi epocale, peraltro in linea con le posizioni che aveva espresso negli ultimi vent’anni su questa materia. Non si torna indietro, non si abolisce il Vaticano II.
I timorosi che hanno paventato un tuffo nell’oscurità del passato - come se i cinque secoli durante i quali si è usato il rito di San Pio V fossero una triste parentesi da dimenticare - possono stare tranquilli. Non ci saranno, almeno in Italia, frotte di fedeli agguerriti a bussare alle parrocchie pretendendo le vecchie celebrazioni, e chi va a messa la domenica non si troverà improvvisamente di fronte a liturgie sconosciute e vetuste.
Con una punta di ironia, lo stesso Ratzinger tranquillizza tutti spiegando che l’antico rito «presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina» che «non si trovano tanto di frequente». A nessuno sarà imposto o impedito alcunché, verrà soltanto impedito di impedire la celebrazione secondo il rito antico.Perché, allora, questa decisione, se in fondo riguarda una minoranza di fedeli, peraltro in qualche caso anche portatori di nostalgiche posizioni socio-politiche in stile ancien régime? «Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura», spiega Benedetto XVI, e «si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa».
Il messale antico non è stato mai proibito né mai abolito. Il Papa apre dunque la porta a tutti i tradizionalisti, compresi i fedeli lefebvriani, il cui mancato ritorno alla piena comunione, dopo questo documento, apparirebbe inspiegabile.
È comunque ben strano che chi invoca un giorno sì e l’altro pure maggiore democrazia nella Chiesa non tenga in alcun conto le richieste provenienti dal basso, dai gruppi di fedeli tradizionalisti. Così come è ben strano che chi quotidianamente combatte contro un certo potere clericale, lo invochi per affermare che i tradizionalisti non hanno il diritto alla celebrazione secondo il vecchio rito. Diciamola tutta: i veri «ispiratori» inconsapevoli del Motu proprio sono quei vescovi i quali negli ultimi anni, disattendendo la richiesta di Giovanni Paolo II che li aveva invitati ad essere generosi nell’autorizzare la vecchia messa, hanno opposto rifiuti e in diversi casi non hanno nemmeno voluto parlare con questi fedeli.
Salvo poi concedere, magari, le chiese della diocesi ai «fratelli separati» dell’ortodossia o ai protestanti, incuranti però di quei fratelli «uniti» nella fede anche se portatori di una diversa sensibilità liturgica. È stato detto che questa decisione papale mette a repentaglio l’unità della Chiesa.
In realtà nella Chiesa le diversità, anche liturgiche, sono state sempre considerate una ricchezza e non si vede perché un rito cattolico usato da grandi santi debba essere oggi considerato alla stregua di una pericolosa bomba ad orologeria. Andrebbe poi ricordato che questa preoccupazione per l’unità liturgica non è stata quasi mai invocata quando si è trattato di intervenire di fronte a certi abusi del postconcilio.
Si può dire messa con i burattini, si possono trasformare le liturgie in show, si può ballare e recitare il Padre Nostro con le melodie dei Beatles, si possono cambiare i testi, si può persino omettere parte del canone senza che qualcuno intervenga.
Solo il messale di San Pio V romperebbe l’unità.Quello del Papa è, invece, un atto in linea con le direttive di Giovanni Paolo II, e l’offerta benevola di una maggiore libertà nell’uso del rito antico per favorire la riconciliazione non può che essere bene accolta anche da quanti, come chi scrive, non sono tradizionalisti e si sentono pienamente a loro agio con la nuova messa ben celebrata.


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Giangiacomo

Libertà religiosa a rischio in tutta l'Asia

Medio Oriente
ARABIA SAUDITA(Abitanti: 24.293.844 – Cristiani: 840.000)
Portata più volte ad esempio, negativo, da Giovanni Paolo II come Paese che nega la libertà religiosa, l’Arabia Saudita vieta qualsiasi attività non islamica, anche individuale, ed il semplice possesso di libri e oggetti religiosi. Pur in mancanza di dati ufficiali, sono centinaia i cristiani in prigione, soprattutto per aver guidato riunioni di preghiera.
IRAN(Abitanti:: 65 milioni - Cristiani: 340.000)
I cristiani in Iran sono tollerati come cittadini di seconda classe, come una “minoranza etnica” separata, soggetta a molte limitazioni. Tutte le chiese sono “protette” dalla polizia, ma anche controllate. È proibita la missione. La mancanza di prospettive economiche e di libertà religiosa spinge i cristiani all’emigrazione. Le conversioni dall’Islam avvengono, ma in segreto e fuori dell’Iran. Fra i protestanti si registrano arresti, sequestro di materiale religioso e condanne a morte per musulmani convertiti. Talvolta tali condanne sono trasformate poi in ergastolo. Controlli, violenze, distruzioni, esecuzioni caratterizzano anche la setta dei Baha’i.
IRAQ(Abitanti:: 28 milioni - Cristiani: 1,5 milioni)
Due sacerdoti, uno caldeo, uno ortodosso, sono stati uccisi dopo essere stati fermati e rapiti da gruppi islamici. L’attuale situazione di anarchia e mancanza di sicurezza e di aumento del fondamentalismo, ha generato una totale insicurezza per la vita dei cristiani. In certe zone del Paese essi soffrono per stupri, rapimenti, pagamenti di riscatti, minacce, uccisioni sequestri, tutti perpetrati con moventi religiosi. Decine di chiese hanno subito attentati e distruzioni. Centinaia di migliaia di cristiani stanno fuggendo all’estero. Secondo alcune stime ufficiose, più del 50% dei cristiani ha lasciato il Paese.La mancanza di ordine, sicurezza e le crescenti violenze spingono all’emigrazione anche molte famiglie musulmane. Per tutti i profughi irakeni è emergenza umanitaria; la stragrande maggioranza dei profughi è cristiana.
PALESTINA(Abitanti: circa 2.900.000 – Cristiani: circa 200.000)
Formalmente liberi, i cristiani subiscono vessazioni ed anche attacchi violenti, come quello di metà giugno alle suore del Rosario a Gaza, di fronte ai quali le autorità non reagiscono. La situazione si è aggravata con la crescita dei fondamentalisti, da Hamas alla Jihad. A centinaia di migliaia hanno lasciato il Paese. A Betlemme venti anni fa erano l’80% della popolazione, ora sono il 10%. A Nazareth erano la maggioranza, oggi sono il 15%.
SIRIA(Abitanti: 17.585.540 - Cristiani: 920.000)
Più che di mancanza di libertà religiosa, si può parlare di mancanza di libertà, che accomuna tutti i siriani. La minoranza cristiana è comunque in diminuzione: nel 1973, i cattolici costituivano il 2,8% della popolazione, nel 2005 essi sono scesi all'1,9%.
TURCHIA(Abitanti: 68.109.469 – Cristiani: circa 100.000)
Paese formalmente “laico”, continua a non riconoscere personalità alle Chiese, che non possono neppure essere proprietarie dei loro edifici di culto. La Corte suprema ha di recente negato la qualifica di “ecumenico” al patriarcato di Costantinopoli, che tale è definito da 17 secoli da tutti gli ortodossi. E’ in forte crescita il fondamentalismo, manifestatosi nelle uccisioni di don Andrea Santoro, dei tre cristiani impiegati in una casa editrice protestante, degli attacchi ad altri religiosi.


Asia del Nord
RUSSIA(Abitanti: 141.377.752 - Cristiani: 33.223.771 )
Si può parlare per lo più di discriminazione: l’atteggiamento verso i musulmani è negativo in molte regioni della Federazione, per la facile associazione con il terrorismo ceceno. In aumento gli episodi di anti-semitismo. Un sondaggio del 2006 indicava la Russia come il Paese più antisemita tra quelli a maggioranza cristiana, con aggressioni e minacce alla comunità ebrea. Molti cittadini credono che l’adesione almeno nominale alla Chiesa russo-ortodossa sia il cuore dell’identità nazionale.


Asia del Sud
AFGHANISTAN(Abitanti: 31.889.923 - Cristiani e altri: 605.908)
La Costituzione nazionale si impegna a garantire la libertà di religione salvo poi porre la sharia a fondamento legale. La legge islamica prevede fino alla pena di morte per chi si converte dall’islam. Come ha rischiato Abdul Rahman nel 2006, convertitola cristianesimo, costretto a rifugiarsi in Italia per non essere giustiziato. Non esistono chiese pubbliche, l’unica ammessa è la cappella interna all’ambasciata italiana a Kabul.
BANGLADESH(Abitanti: 150.448.339 - Cristiani: 1.053.138)
Fondamentalismo e terrorismo islamico sono in crescita: sarebbero 50mila gli estremisti pronti ad attaccare anche obbiettivi religiosi, moschee, chiese, templi indù e buddisti. L’ultimo governo del BNP, per mantenere l’appoggio dei gruppi radicali, ha promosso la diffusione di un islam ortodosso, permettendo di fatto la persecuzione di comunità musulmane ritenute eretiche, come gli ahmadi. Sono attive 64mila scuole coraniche, la maggior parte fuori dal controllo statale.
INDIA(Abitanti: 1.075.784.000 - Cristiani: 66.698.608)
Sono almeno 215 gli attacchi subiti dai cristiani in India nel corso del 2006. Gli incidenti vanno dalla profanazione dei luoghi religiosi fino all'omicidio di esponenti della comunità di minoranza. Intense le violazioni alla libertà religiosa negli Stati governati dai nazionalisti indù, in crescita in quelli che si definiscono laici. Sotto tiro anche la comunità musulmana, che ha dovuto affrontare non meno di 70 attacchi violenti nello stesso periodo. Il tutto rientra nel quadro della “zafferanizzazione” dell’India, ovvero il “ritorno alle origini” predicato dai fondamentalisti indù, che usano la violenza per “riconvertire” gli aderenti alle minoranze religiose dell’Unione.
NEPAL(Abitanti: 28 milioni - Cristiani e altri: 600mila)
Dal maggio 2006 è uno Stato laico, dopo 238 anni di teocrazia indù. Ma non sono finite le frequenti persecuzioni contro i cristiani da parte di estremisti indù, con accuse di proselitismo Nell’aprile 2005 un coppia cristiana che dal 1995 gestisce un orfanotrofio è stata arrestata con l’accusa di battezzare bambini indù. Sono esplose bombe nell’aprile 2007 contro un orfanotrofio cristiano e nel luglio 2005 in una scuola gestita da suore.
PAKISTAN(Abitanti: 149.723.000 - Cristiani: 3.743.075)
Il Paese si dichiara sulla carta “di ispirazione musulmana” e garantisce nella Costituzione la libertà religiosa dei singoli. In realtà, è in vigore una legislazione ferocemente contraria ai non musulmani ed alle sette non riconosciute dell’islam. Brilla in negativo la legge sulla blasfemia, introdotta nel 1986, che fino ad ora ha prodotto circa 5.000 denunce. Di queste, 560 sono poi divenute condanne (da un minimo di cinque anni all’impiccagione) mentre altre 30 sono in attesa di giudizio. Inoltre, si sono registrati negli ultimi anni almeno 24 casi di omicidi extragiudiziari di “blasfemi”, per la maggior parte di fede ahmadi. Diversi testimoni parlano di un uso strumentale della legge, usato per eliminare oppositori politici e rivali economici.

Asia Centrale
KAZAKISTANAbitanti: 15 milioni – Cristiani: 1,6 milioni)
C’è una crescente intolleranza verso le minoranze religiose, come protestanti, musulmani Ahmadi, Hare Krisna e Testimoni di Geova, anche con una diffusa propaganda contraria sui media statali. Permane una mentalità “stile sovietico”: lo Stato ha ampi poteri per “combattere l’estremismo” e garantire “l’ordine pubblico”, concetti che la legge lascia indefiniti. Ai gruppi non registrati è proibita qualsiasi attività, anche riunirsi in case private per pregare. Chi lo fa è punito con pesanti multe, arresti e carcere. A molti gruppi l’autorizzazione non è data sebbene richiesta.
KIRGHIZISTAN(Abitanti: 5 milioni – Cristiani: 300mila)
Negli ultimi anni l’estremismo islamico ha operato contro i cristiani, soprattutto protestanti, con aggressioni e percosse, minacce e chiedendo la chiusura delle chiese. Nei villaggi la folla ha aggredito cristiani, intimando loro di andar via. Le autorità non intervengono e invitano i cristiani a essere “meno attivi” e operano uno stretto controllo sui finanziamenti dei gruppi religiosi. Nel dicembre 2005 nel meridione è stato ucciso un islamico convertito al cristianesimo.
TAGIKISTAN(Abitanti: 6,5 milioni - Cristiani e altri: 130mila)
C’è finora stata ampia tolleranza verso ogni fede. Ma desta preoccupazione nelle minoranze religiose una proposta di legge all’esame dei parlamento, che prevede che siano riconosciuti solo i gruppi religiosi con almeno 400 iscritti maggiorenni nel distretto e 800 nelle città (oggi ne bastano 10), proibisce l’insegnamento religioso nelle case e ai bambini fino a 7 anni, prevede il controllo statale su tutti i finanziamenti e le spese dei gruppi, inibisce ai leader religiosi uffici pubblici elettivi.
TURKMENISTAN(Abitanti: 5,5 milioni - Cristiani ortodossi: 129mila)
A dicembre è morto il dittatore Niyazov, autore del Ruhnama, testo “sacro” esposto in tutte le moschee e insegnato a scuola. Ma non ci sono stati miglioramenti e lo Stato pretende il completo controllo su tutte le religioni. I cristiani sono colpiti con multe, carcere, espulsioni, alla comunità cattolica armena è negato il riconoscimento e possono celebrare messa solo in territorio diplomatico. Pesanti gli interventi sugli islamici, con il mufti capo condannato a 22 anni di carcere e lo Stato che vuole scegliere i predicatori delle moschee e limita i visti per partecipare all’haji.
UZBEKISTAN(Abitanti: 26 milioni - Cristiani ortodossi 195mila)
Lo Stato vuole un pieno controllo su tutte le religioni e le loro attività, anche gli islamici e opera una sistematica persecuzione contro cristiani e altre minoranze religiose, puniti con multe e gravi condanne anche se si incontrano in casa per pregare. Chi è in carcere subisce violenze fisiche e mentali affinché abiuri. La polizia segreta istiga i funzionari amministrativi locali a vere campagne di intolleranza contro i cristiani. Colpiti anche i gruppi e i predicatori islamici che vogliano essere autonomi.

Asia dell’Est
CINA (Abitanti:: 1,3 miliardi - Cattolici: 12-15 milioni; protestanti: 35-50 milioni; ortodossi: 13 mila)
Due vescovi non ufficiali dell’Hebei sono scomparsi nelle mani della polizia: mons. Han Dingxian, 67 anni, scomparso da un anno; mons. Giacomo Su Zhimin, 74 anni, da più di 10 anni. Decine di vescovi sono in isolamento o sotto controllo, come anche i sacerdoti. Alcuni preti scontano la pena ai lavori forzati.Distruzione di chiese, arresti, battiture, condanne sono subiti anche da molti gruppi protestanti. Il piccolo gruppo ortodosso non è riconosciuto come religione ufficiale. Una persecuzione molto pesante – con condanne a morte e rischio di genocidio – è vissuta da uighuri del Xinjiang e dai buddisti tibetani.
COREA DEL NORD(Abitanti: 22.776.000 - Cristiani: 159.432)
La situazione della libertà religiosa è drammatica. Dalla fine della guerra civile (1953), l’unica fede ammessa è il culto del Presidente eterno Kim Il-sung e del Caro Leader Kim Jong-il. Si stimano in oltre 300mila i cristiani “scomparsi” durante i primi anni del regime comunista, mentre quasi 80mila buddisti sono stati costretti a fuggire nel Sud. I fedeli di ogni religione, se colti in preghiera, vengono condannati al lager. Ad oggi non vi sono spiragli di nessun genere per la libertà religiosa, se si esclude l’ortodossia russa “beneficiata” dalle pressioni di Mosca su Pyongyang.

Asia Sud Est
FILIPPINE (Abitanti: 84.538.000 - Cristiani: 75.830.586)
Il Paese, a maggioranza cattolica, è teatro di una guerriglia indipendentista musulmana che dura da oltre 30 anni. Nel sud, dove si verificano con più frequenza gli scontri, si sono verificati diversi attacchi ai cristiani locali da parte di milizie islamiche. Tuttavia, spiegano gli esperti, si tratta per lo più di guerriglieri infiltrati dall’estero, che cercano di mantenere aspro lo scontro con il governo.
INDONESIA(Abitanti: 234.693.997 - Cristiani: 22.530.623)
Terrorismo ed estremismo islamico, innestati su locali conflitti politici e interessi personalistici, rappresentano un reale ostacolo per la garanzia della libertà religiosa nel Paese musulmano più popoloso del mondo. Numerosi attentati sono avvenuti in festività religiose e contro obiettivi sacri. Nel 2006 sono stati condannati a morte, dopo un processo sommario, 3 cattolici in merito a scontri interreligiosi per cui nessun musulmano ha ricevuto pena così alta. Nel 2005 un gruppo di terroristi decapita 3 ragazze cristiane a Poso. Costruire un luogo di culto per le religioni di minoranze richiede anni di attesa per i permessi e le chiese domestiche vengono chiuse con la forza dagli estremisti. Solo dal 2004 si registrano 70 casi.
LAOS(Abitanti: 6.068.117 - Cristiani: circa 100.000)
Alla conquista del potere da parte dei comunisti, nel 1975, il governo dichiarò di voler eliminare il cristianesimo, in quanto “religione straniera imperialista”, furono espulsi tutti i missionari e ancora non è possibile entrare e operare per nessun istituto religioso internazionale con membri stranieri. Negli ultimi anni varie decine di cristiani protestanti sono stati arrestati, due ancora nell’agosto dell’anno scorso. Anche la Chiesa cattolica subisce pesanti controlli.
MALAYSIA(Abitanti: 24.821.286 - Cristiani: 2.060.166)
Da anni il governo promuove un’islamizzazione volta a favorire l’etnia maggioritaria dei malay. La libertà religiosa delle minoranze, ma anche dei musulmani, è fortemente limitata dall’ambiguità del sistema giuridico che verte su due legislazioni: quella costituzionale, che garantisce la libertà di religione e la legge islamica, che invece proibisce la conversione dall’islam. Gli “apostati” vengono puniti con la "riabilitazione" forzata, con il carcere e multe salate.
MYANMAR(Abitanti: 47.373.958 - Cristiani: 2.321.323)
La violazione della libertà religiosa è sistematica e legata alla persecuzione delle minoranze etniche. Colpisce indistintamente cristiani, musulmani e in alcuni casi anche i buddisti. La giunta militare usa il buddismo per mera propaganda imbavagliando la libertà d’espressione della comunità. Non sono ammessi missionari stranieri che risiedano stabilmente nel Paese. Il governo limita l’evangelizzazione, la costruzione e la manutenzione di chiese.
TAILANDIA(Abitanti: 62 milioni – Cristiani: 440mila, musulmani 2.850.000)
C’è una generale tolleranza verso tutte le religioni, ma un acceso conflitto nel meridione, zona a maggioranza islamica in un Paese buddista. Gli estremisti musulmani vogliono la secessione e ci sono continui attentanti e uccisioni da entrambe le parti, con più di 2.200 morti e oltre 3mila feriti dal 2003. Molto colpite le scuole statali, dove gli insegnanti buddisti vanno con la scorta dell’esercito. Ad aprile una bomba è esplosa davanti a una moschea.
VIETNAM(Abitanti: 82.689.518 – Cattolici: 6.180.000)
Fortemente perseguitati fin dal 1975, i cristiani, minoranza forte di oltre sei milioni di persone, hanno potuto resistere, malgrado arresti e deportazioni. Nel 2006, il desiderio del governo di entrare nel Wto ha favorito qualche concessione, ma ottenuto l’ingresso nell’Organizzazione, sembra ci sia qualche passo indietro, con nuovi episodi di vessazioni ed arresti, specialmente tra i montagnard. Perseguitati sono anche gli aderenti alla Chiesa unificata buddista del Vietnam.


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Giangiacomo

lunedì 2 luglio 2007

Mano tesa verso Pechino

Chi si aspettava dalla «Lettera ai cattolici cinesi» di Benedetto XVI un atteggiamento remissivo nei confronti del governo è rimasto spiazzato. Certo, la lettera è stata preparata da discussioni diplomatiche con Pechino, che trova soddisfazione su tre punti. Sono revocate le direttive pastorali, sia pubbliche sia discrete, che autorizzavano forme di disobbedienza civile nei confronti dello Stato. Si esprime disponibilità a trattare con il regime sulle province ecclesiastiche, il che significa che la Chiesa è pronta al dialogo sulla questione di Taiwan. E non si esclude «un accordo con il governo» sulle future nomine di vescovi, fermo restando che ogni nomina spetta sempre e solo al Papa. In concreto, sembra delinearsi una disponibilità alla soluzione in vigore in Vietnam, e che ha illustri precedenti storici in Europa, secondo cui la Chiesa sottopone allo Stato una rosa di candidati tra i quali è il governo a esprimere la sua preferenza.
A queste possibili concessioni fa però da pendant un fermo richiamo ai principi non negoziabili, o «irrinunciabili», che il Papa ha spesso ricordato in questi anni anche ai governi europei. Il primo riguarda la vita e la famiglia. La Chiesa non può rinunciare in nessuna parte del mondo, neppure nella Cina che ha il record mondiale degli aborti e ha preteso di limitare per legge il numero dei figli, ad annunciare «il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia». Non ci sarebbe libertà religiosa se la Chiesa fosse lasciata libera di predicare sulla fede ma non potesse denunciare in modo «vivo e stringente» le «forze che in Cina influiscono negativamente sulla famiglia».
Il secondo principio non negoziabile riguarda la struttura stessa della Chiesa, «petrina» e «apostolica». In Cina dal 1957 esiste una «Chiesa patriottica» controllata dal governo, che ha mantenuto la successione apostolica - nel senso che la sua linea di successione episcopale è riconosciuta da Roma - ma ha rotto la comunione con Roma ed è oggettivamente scismatica. Le sue ordinazioni e i suoi riti sono considerati dal Papa validi ma illeciti. La lettera rileva la compresenza in Cina di tre tipi di vescovi: quelli clandestini fedeli a Roma; quelli della «Chiesa patriottica» che però sono stati segretamente ricevuti nella comunione con Roma (anche se non sempre lo hanno rivelato ai loro fedeli, e ora Benedetto XVI li esorta a farlo); e il «numero molto ridotto» di vescovi «patriottici» che non si sono riconciliati con Roma. I fedeli possono del tutto lecitamente partecipare alle Messe dei primi e dei secondi, e dei sacerdoti da loro ordinati; quelle dei terzi sono valide ma illecite, e il fedele può assistervi solo quando non possa «senza grave incomodo» trovare una Messa celebrata in comunione con il Papa. Quanto al «Collegio dei Vescovi Cattolici di Cina», riconosciuto dal regime e che riunisce i «patriottici», per il Papa non si tratta di una vera conferenza episcopale e professa anzi «elementi inconciliabili con la dottrina cattolica».
Per la prima volta, il Papa rende pubblica una verità nota al regime e agli specialisti: l'esperimento della Chiesa patriottica è fallito, tranne un «numero molto ridotto» i suoi vescovi si sono riconciliati segretamente con Roma. Invita il regime a prenderne atto, e a riconoscere una Chiesa unita guidata da una vera Conferenza Episcopale, che sarà disponibile al dialogo con il governo. Ma nel rispetto dei «principi irrinunciabili»: comunione con il Papa e possibilità di parlare chiaro sulla vita e sulla famiglia.

di Massimo Introvigne, Il Giornale, 1 luglio 2007

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mercoledì 27 giugno 2007

L'anima cattolica dell'Europa

Un libro di Hilaire Belloc
L'ANIMA CATTOLICA DE L'EUROPA (Europe and Faith)

Presentazione con parole dell'apologista: Io dico con intenzione la "coscienza" cattolica della storia: parlo di "coscienza", cioè di conoscenza intima raggiunta attraverso l'identità che l'intuizione lascia scorgere tra l'oggetto della conoscenza e chi conosce, non di un "punto di vista cattolico sulla storia". Questo indugiarsi su "punti di vista" è cosa moderna e perciò segno e manifestazione di decadenza; cosa falsa perciò effimera; errore quindi che eviterò con cura. Renderò pertanto un omaggio più reale alla verità dicendo che non vi è un "punto di vista" cattolico sulla storia europea. Vi può essere un punto di vista protestante come ve n'è uno ebraico, o mussulmano, o giapponese: perché tutti questi considerano l'Europa dal di fuori. Il cattolico invece guarda l'Europa dall'interno: non può esistere quindi un "punto di vista" cattolico della storia europea allo stesso modo che una persona non può avere un punto di vista su se stessa.

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Giangiacomo

venerdì 15 giugno 2007

Cristiani perseguitati

Sempre in Medio Oriente si sta consumando un'altra tragedia, quella dei cristiani, perseguitati e cacciati nella sostanziale indifferenza del resto del mondo.
Il coraggioso Magdi Allam - uno che quando lo leggi diventi subito a favore della clonazione - ha lanciato un appello dal Corriere: una manifestazione per i cristiani perseguitati "propongo di indire una manifestazione nazionale a difesa dei cristiani perseguitati in Medio Oriente e altrove nel mondo, da svolgersi a Roma e che potrebbe coincidere con il 30 giugno, la festa liturgica dei protomartiri romani. Una grande manifestazione per la vita, la dignità e la libertà dei cristiani e per il riscatto dell'insieme della nostra civiltà umana".
www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2007/06_Giugno/13/magdi.shtml

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