domenica 20 settembre 2009

La strana sfida di Chavez

La strana sfida di Chavez: convertire gli indigeni venezuelani all’islam

di Massimo Introvigne (Libero, 9 settembre 2009)

«Passerella trionfale, applausi scroscianti e standing ovation»: tutta la sinistra italiana (e non solo) si è commossa per il presidente venezuelano Hugo Chavez di passaggio alla Mostra del Cinema di Venezia. Mentre sventolano le bandiere rosse, sarà bene ricordare che Chavez non è un simpatico capo di Stato esotico, ma ha una posizione e un ruolo per lo meno ambigui sul tema delicatissimo del terrorismo internazionale.

Prima di Osama bin Laden, il peggiore terrorista della storia recente è stato il venezuelano Ilich (così battezzato dal papà comunista in onore di Lenin) Ramirez Sanchez, meglio conosciuto come Carlos. Negli anni 1970 la sua organizzazione fa almeno 1.500 morti. Condannato nel 1997 a un ergastolo che sta tuttora scontando in Francia, Carlos si converte all’islam in prigione e propone l’alleanza mondiale del terrore fra comunisti puri e duri e ultra-fondamentalisti islamici. Ma già negli anni d’oro Carlos riusciva a mettere insieme il KGB e Khomeini, le Brigate Rosse e Arafat, i teologi della liberazione catto-comunisti e i primi fondamentalisti islamici in armi.

Chavez intrattiene una corrispondenza con il terrorista e lo definisce «un grande amico e un grande venezuelano». In una lettera a Carlos, Chavez scrive che «nelle profondità della nostra solidarietà sento pulsare la nostra intuizione condivisa che ogni cosa ha il suo tempo: il tempo di accumulare le pietre e il tempo di lanciarle», «un tempo in cui si combatte apertamente e un tempo in cui si resta nascosti ad aspettare in fervida attesa il momento della verità, così come Arianna lasciava dietro di sé i fili che l'avrebbero condotta fuori del labirinto».

Arianna oggi però per Chavez si chiama Ahmadinejad. In America Latina, grazie al patrocinio di Chavez, l’Iran è sempre più presente. Con forniture di armi ai governi più ostili agli Stati Uniti, con accordi economici e ora anche con la propaganda religiosa. Lontano dai riflettori, Chavez ha chiuso una vasta area tribale del Venezuela abitata da indiani goajiros ai cattolici e ai protestanti e ci ha fatto entrare solo missionari musulmani sciiti addestrati dall’Iran. Le missioni, ben finanziate, funzionano – un’intera tribù, i Wayuu, si sarebbe convertita – e l’Iran può sventolare le prime fotografie di donne indios venezuelane velate come fossero a Teheran. I maschietti, invece, si fanno chiamare “Hezbollah Venezuela” e insieme al Corano mostrano il kalashnikov. Israele sospetta che alcuni di questi neo-convertiti siano dietro a un tentato attentato alla sua ambasciata a Caracas.

Uno che lo conosceva bene, il cardinale venezuelano Castillo Lara (1922-2007), aveva definito Chavez «un dittatore paranoico», che «parla del socialismo del XXI secolo ma nella sua testa ha una specie di comunismo nella fase peggiore, concentrato di populismo e autoritarismo». È questo l’eroe, amico del terrorista Carlos e di Ahmadinejad, che la sinistra italiana applaude a Venezia.


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Giangiacomo

L’Honduras, i cattolici e il finto golpe

di Massimo Introvigne (Articolo pubblicato su Libero del 17 settembre 2009, p. 25, con il titolo “I cattolici italiani si sono divisi pure sulla presidenza dell’Honduras”)

Per capire dove si situano le linee di faglia che dividono i cattolici italiani ogni tanto, oltre che a Fini e a Casini, sarebbe bene dare uno sguardo alla politica estera. In particolare a un Paese piccolo, bellissimo (provare per credere: io ci sono stato) e dimenticato, l’Honduras. Qui nel giugno scorso è venuto al pettine il nodo di uno scontro che da mesi vedeva contrapposti da una parte il presidente, Manuel Zelaya, dall’altra la maggioranza del Parlamento, la magistratura, l’Esercito e la Chiesa Cattolica. La materia del contendere era una modifica costituzionale che avrebbe permesso a Zelaya di farsi rieleggere presidente, cosa che la Costituzione gli vietava. Zelaya voleva imporre la modifica per decreto e farla ratificare da un referendum. Ma in realtà in Honduras il presidente non può modificare la Costituzione: può farlo solo il Parlamento. La Corte Suprema ha dichiarato illegale il decreto di Zelaya, e l’Esercito lo ha deposto e mandato in esilio, nominando capo dello Stato provvisorio il presidente del Parlamento. Si tratta dell’imprenditore di origini bergamasche Roberto Micheletti – peraltro dello stesso partito di Zelaya –, il quale ha subito indetto nuove elezioni per novembre, assicurando che abbandonerà la carica non appena sarà stato eletto un nuovo presidente.

Una virulenta campagna di stampa internazionale ha presentato il civile Micheletti come l’ennesimo militare golpista latino-americano. Dietro questa campagna c’è il presidente venezuelano Hugo Chavez, che ha perso un pezzo – l’Honduras – della sua alleanza anti-americana e filo-castrista ALBA (Alleanza Bolivariana delle Americhe), di cui con Venezuela e Cuba rimangono parte Bolivia, Ecuador, Nicaragua e le isole caraibiche di Antigua e Dominica. Zelaya, in effetti, voleva seguire Chavez sulla strada che porta a diventare presidenti a vita. Il vero golpista era lui. L’arcivescovo della capitale dell’Honduras, Tegucigalpa, cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga e i vescovi del Paese hanno giustificato la deposizione di Zelaya. Ma la propaganda di Chavez e Castro urla così forte che nessuno dà loro retta. Anche gli Stati Uniti e l’Europa esitano a riconoscere il governo provvisorio di Micheletti. E pure un certo numero di cattolici e di ecclesiastici europei critica il presunto golpe.

In Italia, mentre un bel pezzo della sinistra cattolica ha aderito a un “Comitato pro Zelaya”, altri scendono in campo contro l’ex-presidente, dalla rivista “Tempi”, vicina a Comunione e Liberazione, al blog “Comunità Ambrosiana”, la voce milanese di Alleanza Cattolica, che riprendono le posizioni dei vescovi honduregni e condannano Zelaya. Caduti altri miti rossi, come si è visto nella sua passeggiata trionfale a Venezia, quello del Sudamerica di Chavez – e dei suoi alleati – è l’ultimo sogno che scalda i cuori comunisti: e anche quelli catto-comunisti. Passa per il giudizio sull’Honduras, e su Chavez, la linea di discrimine fra i cattolici che amano la libertà e i nostalgici di Che Guevara e di Castro.

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Giangiacomo

Discorso di Obama ai suoi studenti

Ragazzi, volete il successo?
Dovete studiare!


http://www.cidi.it/edicola/Obama_08set09.pdf

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Giangiacomo

"Berlusconi e Sarkozy, la democrazia del leader"

Il politologo francese Marc Lazar: «Il sistema è in mutazione, ma non siamo agli Anni Venti, il fascismo non è alle porte»

E’ un momento duro, difficile, «l’immagine dell’Italia è indebolita, ma non siamo negli Anni Venti, il fascismo non è alle porte, la società italiana è vitale e democratica». Marc Lazar è ottimista. Politologo, professore a Sciences-Po, uno dei santuari dell’intellighenzia parigina, Lazar è tornato in Francia dopo due anni vissuti in Italia dov’è tuttora docente alla Luiss. In quest’intervista riflette sulla situazione politica del nostro paese a partire dall’editoriale di Gian Enrico Rusconi sulla Stampa di martedì «Anche questa è democrazia».

Professor Lazar, pure lei pensa che la democrazia italiana sia in mutazione, come ha scritto Rusconi?
«Sì, in mutazione, come molte altre democrazie. L’Italia non è un caso anomalo. Si è verificata l’ascesa di quella che noi politologi chiamiamo la democrazia dell’opinione o del leader. Più di prima sono importanti i personaggi. I partiti non sono scomparsi, ma appaiono molto indeboliti come le tradizionali culture politiche. Gli elettori sono volatili, incerti. La televisione e Internet forniscono un’informazione continua che tiene i politici sotto pressione, ogni decisione viene presa nell’emergenza».

Chi è un leader?
«Qualcuno che sa farsi vedere, riconoscere, è uno che sa parlare direttamente al popolo. Ha una democrazia semplice, con una componente populistica. Prendiamo due campioni di questa stagione, Berlusconi e Sarkozy, hanno molti tratti comuni, entrambi hanno fondato il loro discorso sulla critica delle tradizionali élite politiche e sulla trasformazione del sistema».

Una tendenza che contagiato anche le sinistre europee che appaiono tutte in crisi?
«Hanno anche loro un problema comune: adattarsi a questo modello di democrazia, trovare il leader giusto. E sono in difficoltà perché è un modello che più si adatta alla destra perché si fonda sul principio di autorità».

Quali sono le altre caratteristiche della democrazia italiana?
«C’è un diffuso sentimento di anti-politica, una caduta di fiducia nei confronti degli uomini politici: si usa dire che sono tutti uguali, tutti corrotti. In Italia questo sentimento è più forte che altrove».

Si direbbe che la democrazia classica non funzioni più. È così?
«Io credo che la democrazia della rappresentanza sia in difficoltà, ma non sia morta. In ogni paese si cercano soluzioni. Per esempio le primarie italiane del Partito democratico sono state un modello molto studiato. E poi cresce la voglia di controllare i politici. Ci sono state grandi mobilitazioni contro la guerra, c’è un grande fermento associativo e di volontariato, lo si è visto in occasione del terremoto».

Però la democrazia italiana appare debole e secondo molti totalmente condizionata dalla televisione. Lei che ne pensa?
«Io non credo che l’Italia sia anestetizzata dalla tv e non penso che la democrazia italiana sia in pericolo. Ci sono delle ragioni storiche di debolezza, diciamo che in Italia la democrazia è più recente che in Francia o Gran Bretagna. È un dato che pesa nella coscienza collettiva, ma ultimamente si sono fatti enormi progressi».

Scendiamo al concreto del confronto di attualità: ci sono punti comuni tra il premier italiano e il presidente francese?
«L’uomo Berlusconi ha molti punti in comune con Sarkozy, ma anche alcune specificità come il conflitto di interessi. Un’anomalia pericolosa che non significa fascismo, ma provoca tensione».

Ma sul piano dell’informazione vede molte differenze?
«Sarkozy non è il proprietario ma ha tendenza a controllare le televisioni, da questo punto di vista la Francia non può certo dare lezioni all’Italia. E non dimentichiamo che un direttore di giornale è stato licenziato su richiesta del presidente, ci sono state denunce e scontri tra lui e i giornali. Il modello in questo campo semmai è l’Inghilterra. In questo momento in Italia c’è però una tensione sull’informazione che non si verifica in altri paesi. Il premier è proprietario editoriale e di televisioni. In questo il caso italiano è unico».

Lei vede un’evoluzione nelle relazioni tra i due paesi?
«Il rapporto tra Italia e Francia è solido sul piano economico e nella tradizione delle relazioni tra le due amministrazioni. Per il resto l’immagine dell’Italia è indebolita, non c’è dubbio. Pesano la questione Berlusconi, le polemiche, l’incertezza sul futuro. Come professore di Sciences-Po posso dirle che fino a due anni fa molti nostri studenti chiedevano di venire in Italia a fare l’anno obbligatorio all’estero. Ora molti meno».

A causa di un giudizio negativo su Berlusconi?
«Con significative eccezioni. Per esempio il lavoro fatto dal governo al G8 dell’Aquila è stato riconosciuto e apprezzato. Tuttavia in Francia pesa il modo schematico in cui i media riportano le polemiche politiche italiane. C’è interesse, ma l’informazione è un po’ banalizzata. La domanda che mi sento rivolgere più spesso è: come possono gli italiani votare per Berlusconi?».

E lei come risponde?
«Che in un paese in preda a una crisi fortissima, dove erano crollati i riferimenti classici, Berlusconi ha saputo affermare la sua forza di leader, anche come uomo di Stato per quanto diverso dagli altri. Ha espresso un’egemonia culturale e io considero questa una grande lezione del berlusconismo. Ha saputo tenere insieme coppie di valori che sembrano opposti: liberismo-protezionismo, conservazione-innovazione ecc. Approfittando dell’incapacità del centrosinistra, ha saputo essere il cemento di un blocco sociale in cui ci sono i forti e i deboli, gli integrati e gli esclusi: imprenditori, commercianti, gli impauriti da immigrazione, globalizzazione, Europa. Lui ha saputo incarnare tutto questo persino nell’aspetto fisico».

Gli ultimi mesi sono stati segnati dalle rivelazioni sulla sua vita privata. Quanto hanno pesato sulla sua immagine pubblica?
«Lo hanno messo in difficoltà e sono state la prima vera frattura. L’ha pagata nell’elettorato cattolico e si è visto molto nettamente nelle elezioni di primavera. Ma lui ha saputo giocare la sua carta preferita, quella del rovesciamento. Ha detto: non sono un santo. I molti italiani che peccano come lui possono averlo capito».

Lei crede che queste rivelazioni possano condizionare il suo futuro di leader?
«Sappiamo che l’uomo, quando sembra in difficoltà, sa risalire. La battaglia gli piace, è il suo vero terreno. Ha ancora tre anni di legislatura, non vedo proprio chi possa metterlo in difficoltà. Come si dice in francese, dalla foresta non è uscito nessuno in grado di contestare la sua leadership. Gianfranco Fini sta prendendo un appuntamento con il futuro. Ma per il momento non vedo alternative a Berlusconi».

Lei crede che la democrazia italiana saprà sopravvivere a questa crisi?
«Sì, non siamo sull’orlo del fascismo, non siamo negli anni Venti. Una svolta autoritaria come allora sarebbe insopportabile. Non siete minacciati, la società ha una grande vitalità, avete superato tante crisi, è un momento duro, intenso, ma io sono ottimista, anche perché, come diceva Brecht, il popolo non si può sciogliere».

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Giangiacomo

domenica 6 settembre 2009

La Chiesa sull'immigrazione

La recente polemica sulle politiche in materia di immigrazione
Quando da esponenti della Chiesa vengono parole poco sensate ...

Qual è il vero pericolo della società “multiculturale” a cui l’Europa sembra condannata.

Attualità: Islam e immigrazione
L'immigrazione massiccia verso i Paesi europei, specie verso l'Italia, fa parte di un disegno di costruire una grande comunità islamica anche in Occidente e fare progressivamente dell'Europa una terra islamica. Non bisognerà attendere molto: la sottomissione degli occidentali alla sacralità coranica è già avviata grazie ad un errata concezione di tolleranza.


Actuality: Islam and immigration

The massive immigration to European Countries, especially to Italy, is a part of a plan to build a great Islamic community in Occident too and make of Europe an Islamic land.We don't need to wait too long: the Occidental submission to the sacrality of Koran is already started thanks to a wrong conception of tolerance.


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Giangiacomo

giovedì 3 settembre 2009

Io sto con Feltri!

Con la posizione e visione di Feltri tutta la vita!

Moralisti...

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Giangiacomo