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domenica 10 aprile 2011

Tunisia: con chi stiamo trattando?

di Massimo Introvigne (La Bussola Quotidiana, 6 aprile 2011) Chi sono gli interlocutori dell’Italia nel difficile negoziato con la Tunisia sull’immigrazione? E chi saranno domani? Il governo guidato dall’ottantaquattrenne Béji Caïd Essebsi è definito di solito, in Tunisia, «neo-bourguibista». Che cosa significa? Occorre sempre ricordare che nei Paesi a maggioranza islamica il processo di decolonizzazione ha visto contrapporsi due classi dirigenti alternative: una laica e secolarizzatrice, e una espressione dell’islam politico. La prima ha vinto inizialmente quasi ovunque ed è stata sostenuta sia dagli Stati Uniti e dall’Europa Occidentale – che la considerava più affidabile rispetto agli attivisti islamici – sia dall’Unione Sovietica, perché nei partiti laici dei Paesi islamici non mancava mai una componente socialista e un’ammirazione per l’URSS. In Tunisia la prima classe dirigente si è incarnata al momento dell’indipendenza dalla Francia (1956) nell’avvocato e giornalista Habib Bourguiba (1903-2000), primo presidente della Repubblica tunisina, al potere per trent’anni dal 1957 al 1987. L’azione di Bourguiba si caratterizza per posizioni fortemente laiciste, che portano alla spaccatura del partito indipendentista Destour in due fazioni, una legata all’islam politico che mantiene il nome originario Destour e una laica e bourguibista che prende il nome di Néo-Destour. Per dare un’idea del laicismo di Bourguiba sarà sufficiente ricordare che la Tunisia ha introdotto nelle sue leggi l’aborto prima della stessa Francia. Il diritto di famiglia, la scuola, i tribunali sono de-islamizzati secondo il modello della Turchia di Kemal Atatürk (1881-1938). L’unica concessione all’islam politico rimane la clausola costituzionale secondo cui un non musulmano non può diventare presidente della Repubblica. Negli anni 1980 Bourguiba perde il sostegno degli Stati Uniti per le sue posizioni filo-palestinesi e di radicale ostilità a Israele: l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) giunge perfino a porre la sua sede a Tunisi. Nello stesso tempo si moltiplicano le azioni terroristiche e di guerriglia dell’islam radicale, represse con pugno di ferro dalle forze speciali della Sicurezza Nazionale guidate dal generale Zine El-Abidine Ben Ali. Anche la salute di Bourguiba va declinando, e il 7 novembre 1987 Ben Ali organizza quello che è passato alla storia come il «colpo di Stato medico». Induce i medici di Bourguiba a dichiararlo incapace di governare il Paese, e s’insedia al suo posto senza sparare un colpo. Oggi vi sono elementi sufficienti per concludere che l’intera operazione fu condotta d’intesa con i servizi segreti italiani, molto interessati alla stabilità della Tunisia, e con l’avvallo di quelli francesi. Il governo di Ben Ali sia migliora le relazioni con gli Stati Uniti sia accentua la deriva repressiva, specie nei confronti dell’islam politico, e il regime del Néo-Destour – ribattezzato Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD) – raggiunge vertici di corruzione e potere familiare del clan del presidente inusuali perfino per il Nord Africa. La repressione funziona finché le condizioni economiche del Paese sono, se non brillanti, decorose per il contesto locale. La crisi economica internazionale del 2009 segna l’inizio della fine per il regime di Ben Ali. Il 17 dicembre 2010 un giovane venditore ambulante di frutta e verdura, Mohamed Bouazizi (1984-2011), si dà fuoco nella città di Sidi Bouzid per protestare contro la polizia che gli ha confiscato la merce e contro la politica economica di Ben Ali. È la scintilla per la «rivoluzione dei gelsomini» che si conclude il 14 gennaio 2011 con la fuga di Ben Ali, che va in esilio in Arabia Saudita dopo ventiquattro anni di presidenza della Tunisia. Se è certo che Ben Ali ha perso, la domanda è la solita di tutte le rivoluzioni del Medio Oriente: chi ha vinto? Contro ogni ipotesi complottista, la rivolta tunisina è nata dalla crisi economica e non è stata pianificata a tavolino da forze esterne: certamente non dalla Francia o dagli Stati Uniti, che avevano semmai interesse alla permanenza di Ben Ali, per non parlare dell’Italia, che aveva svolto un ruolo nel portare il generale al potere e aveva trovato con lui un modus vivendi in materia di controllo dell’immigrazione. L’islam politico ha certamente visto di buon occhio la caduta del suo arcinemico Ben Ali. Ma – molto indebolito dalla repressione – non avrebbe certo avuto la forza di organizzare la rivoluzione. All’immediato indomani della rivoluzione, la Tunisia vede il tentativo dei quadri superiori dell’esercito e della burocrazia, fino all’ultimo fedeli a Ben Ali, di cambiare tutto perché tutto rimanga come prima. Esponente e simbolo di questo ambiente è il primo ministro Mohammed Ghannouchi, che si dimette precipitosamente dal partito RCD di Ben Ali e costituisce due successivi governi, non rinunciando neppure a far sparare sulla folla che denuncia subito il tradimento della rivoluzione. Il 27 febbraio 2011 deve dimettersi anche lui, aprendo una fase confusa in cui sono dichiarati legali una quarantina di partiti, ma – se si crede a sondaggi che, nell’attuale situazione tunisina, potrebbero anche essere clamorosamente smentiti – due sole forze politiche contano qualcosa. La prima è quella neo-bourguibista che fa capo all’anziano primo ministro Béji Caïd Essebsi, che ha sostituito Mohammed Ghannouchi. Legatissimo a Bourguiba, al momento della sua destituzione nel 1987 Essebsi è stato nominato ambasciatore in Germania, e in seguito ha mantenuto un basso profilo fino a riemergere nel 2011. La sua ascesa al potere – accompagnata dall’annuncio di misure contro i quadri dirigenti del RCD – segnala come nell’establishment laico tunisino, militare e civile, sia in corso una grande operazione di rivalutazione di Bourguiba. Tutti i mali contro cui è insorta la «rivoluzione dei gelsomini» sono imputati a Ben Ali, il quale avrebbe tradito Bourguiba. Una pagina Facebook dedicata a Bourguiba ha radunato 130.000 fan, superando quelle dei partiti politici tunisini, del martire e iniziatore della rivoluzione Mohamed Bouazizi, e perfino delle stelle del calcio, sport popolarissimo in Tunisia. Si tratta di un vero e proprio ritorno al passato, con Essebsi che si circonda di settantenni e ottantenni, ribattezzati dalla stampa tunisina «il clan del 6 novembre», cioè del giorno precedente al 7 novembre 1987 e al «colpo di Stato medico» contro Bourguiba. Dal punto di vista storico, l’opera di ricostruzione del mito di Bourguiba – che molti, nella giovane popolazione tunisina, non hanno mai conosciuto – comporta più di una falsificazione, perché molti mali dell’epoca di Ben Ali risalgono precisamente a Bourguiba. Ideologicamente, dovrebbe trattarsi di una riaffermazione riveduta e corretta del laicismo che ha sempre caratterizzato la Tunisia indipendente. Ma il neo-bourguibismo di Essebsi appare molto pragmatico e poco ideologico. Si tratta principalmente del tentativo di una classe dirigente intermedia di rimanere al potere evitando le purghe che colpiranno fatalmente i vertici troppo legati a Ben Ali. La principale forza di opposizione al neo-bourguibismo – a credere, con le riserve citate, ai sondaggi, molto indietro rispetto a Essebsi in vista delle elezioni che dovrebbero svolgersi il 24 luglio – è costituita dal partito islamico al-Nahda («La Rinascita»), guidato da Rachid Ghannouchi, tornato dopo la rivoluzione da vent’anni di esilio a Londra. Ghannouchi, il cui partito è la versione tunisina dei Fratelli Musulmani egiziani, mantiene con tutto l’islam politico una durissima posizione anti-israeliana, ma è contestato da esponenti più radicali del suo stesso partito per la sua dichiarata simpatia per forme di democrazia aperta alla religione sul modello statunitense e dell’attuale Turchia del primo ministro Erdogan. Nel partito al-Nahda sembra in corso uno scontro fra correnti e generazionale – nel quale non è sempre chiaro da che parte stia Ghannouchi – fra chi s’ispira al modello egiziano dei Fratelli Musulmani e chi privilegia il modello turco dell’AKP di Erdogan. L’esito di questo scontro è importante per il futuro della Tunisia. I neo-bourguibisti sembrano al momento vincenti, ma l’islam politico ha certamente delle potenzialità di crescita. L’incertezza non aiuta l’Italia, perché governi precari e provvisori non possono prendere né rispettare quegli impegni in materia d’immigrazione che sarebbero cruciali per il nostro Paese. E nello stesso tempo l’incertezza spinge molti a tentare l’avventura migratoria salendo sui barconi. È importante per il nostro Paese continuare a seguire con attenzione l’evoluzione della situazione tunisina, senza legarsi a una sola forza politica e trattando con chiunque offra qualche prospettiva di governare in modo minimamente responsabile. see u, Giangiacomo

domenica 27 marzo 2011

Ecco il vero progetto della Francia che danneggia l'Italia

di Carlo Pelanda, una persona che stimo L’indecisione dell’America che per quasi 60 anni ha presidiato il Mediterraneo, stabilizzandolo sostanzialmente, sta lasciando spazio alle ambizioni neo-imperiali di Francia e Regno Unito. Questa è la vera ragione dell’attacco franco-inglese alla Libia, con timido e riluttante sostegno tecnico degli Stati Uniti, e non certo il motivo umanitario. L’Italia è in grave imbarazzo morale, politico ed economico. Dobbiamo riflettere su come uscire da questa situazione, intanto cercando di capirla. La vera guerra - indiretta, non spaventatevi - è tra Francia e Italia. Non solo per il controllo delle risorse petrolifere della Libia, ma, soprattutto, per ottenere il mandato proconsolare dagli Stati Uniti, in ritirata, per la gestione del Mediterraneo. Sarkozy ne ha bisogno per: (a) recuperare consenso entro un elettorato nazionalista in vista delle elezioni presidenziali; (b) bilanciare con tale ruolo di potenza lo strapotere tedesco sulle questioni economiche e monetarie nell’Eurozona, cioè per poter finanziare in deficit il consenso in violazione delle euroregole; (c) ergersi a potenza protettrice degli arabi sunniti in alleanza privilegiata con l’Arabia Saudita che si sente sempre meno protetta dall’America. Da tempo la Francia ha creato una base militare negli Emirati a protezione dei regimi arabi sunniti contro l’Iran sciita. Infatti sta collaborando con i sauditi per la repressione delle popolazioni sciite in rivolta negli Emirati stessi. Parigi, inoltre, ha il problema di contenere la crescente influenza geoeconomica della Cina nell’Africa francofona, obiettivo per cui ha bisogno del sostegno dei movimenti islamisti. Esattamente quelli, maggioritari in Cirenaica, che si sono ribellati al dominio delle tribù tripolitane alleate di Gheddafi cogliendo l’occasione dei moti popolari in Egitto e Tunisia. Lo scopo finale è quello di portare il petrolio libico entro l’orbita dell’influenza saudita, con un sostanzioso assegno per Parigi se ci riesce. Conoscendo queste cose, Londra si è ingaggiata con la Francia proprio per non lasciarle campo libero, puntando ad obiettivi simili sia proconsolari sia di protettore degli arabi sunniti, questi rilevanti anche perché i loro capitali tengono in vita la piazza finanziaria di Londra. Lo scenario è molto più articolato, ma quanto detto è sufficiente per almeno far sospettare ai lettori quanto sia ridicolo parlare di primavera araba - pur origine reale dei moti, poi strumentalizzati per giochi di potere - e di interventi umanitari. Prova ne è che la risoluzione Onu, il cui testo prevede azioni limitate, è stata violata da Francia e Regno Unito che stanno portando un attacco militare totale contro le tribù della Tripolitania alleate con Gheddafi a favore di quelle islamiste filo-saudite della Cirenaica, sostenuto dalle televisioni a diffusione panaraba controllate dagli Emirati (Al Jazeera e Al Arabjia). Gli sviluppi della situazione descritta comportano gravi rischi di danni economici per l’Italia. Quello della perdita delle nostre concessioni petrolifere in Libia sarebbe il minore, pur pesante per l’Eni. Danni sistemici verrebbero dall’instabilità areale creata dall’azione francese che, se fuori controllo, ed è probabile, colpirebbe l’Algeria, regime laico che i sauditi vorrebbero rovesciare, e complicherebbe la stabilizzazione dell’Egitto, inducendo crisi dei rifornimenti energetici, del nostro export, problemi di immigrazione, ecc. Al momento l’Italia ha deciso di assecondare Parigi per poterla ingabbiare. Ma sarà difficile e bisogna pensare a qualche azione più forte. www.carlopelanda.com see u, Giangiacomo

venerdì 28 maggio 2010

Libero mercato: Crisi Grecia 2010

Sprechi pubblici, assunzioni di Stato, conti in dissesto: questo è il welfare state che la Grecia ha realizzato con la demagogia del Partito Socialista al governo. Ovviamente si dà la colpa al libero mercato e si pretende che l’Unione Europea intervenga con gli aiuti (di chi, invece, lavora). Negare questi sussidi è insensibilità al bene comune, come in troppi ripetono, o evitare di far pagare a tutti le colpe dei responsabili?

see u,
Giangiacomo

sabato 7 novembre 2009

L'Europa e il crocifisso

L’Europa e il crocefisso, la cristianofobia al potere
di Massimo Introvigne

Ci siamo. Da diverso tempo si accumulavano i segnali di un prossimo colpo delle istituzioni europee contro il cristianesimo e la Chiesa Cattolica. Qualche mese fa, il 4 marzo 2009, avevo avuto occasione di partecipare come esperto a Vienna a una conferenza dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) dove era stato lanciato l’allarme su una montante «cristianofobia», che in diversi Paesi non si limitava più alla propaganda ma si esprimeva in leggi e sentenze contro la libertà religiosa e di predicazione dei cristiani e contro i loro simboli. L’attacco anticristiano si era finora svolto in modo prevalentemente indiretto, attraverso la proclamazione di presunti «nuovi diritti»: anzitutto, quello degli omosessuali a non essere oggetto di giudizi critici o tali da mettere in dubbio che le unioni fra persone dello stesso sesso debbano godere degli stessi riconoscimenti di quelle fra un uomo e una donna. Tutelando gli omosessuali non solo – il che sarebbe ovvio e condivisibile – da violenze fisiche, ma da qualunque giudizio ritenuto discriminante ed etichettato come «omofobia», le istituzioni europee violavano fatalmente la libertà di predicazione di tutte quelle comunità religiose, Chiesa Cattolica in testa, le quali hanno come parte normale del loro insegnamento morale la tesi secondo cui la pratica omosessuale è un disordine oggettivo e uno Stato bene ordinato non può mettere sullo stesso piano le unioni omosessuali e il matrimonio eterosessuale.

La sentenza Lautsi c. Italie del 3 novembre 2009 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo segna il passaggio della cristianofobia dalla fase indiretta a una diretta. Non ci si limita più a colpire il cristianesimo attraverso l’invenzione di «nuovi diritti» che, proclamando il loro normale insegnamento morale, le Chiese e comunità cristiane non potranno non violare, ma si attacca la fede cristiana al suo cuore, la croce. I giudici di Strasburgo – dando ragione a una cittadina italiana di origine finlandese – hanno affermato che l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane viola i diritti dei due figli, di undici e tredici anni, della signora Lautsi, li «perturba emozionalmente» e nega la natura stessa della scuola pubblica che dovrebbe «inculcare agli allievi un pensiero critico». Ove tornasse in Finlandia, la signora Lautsi dovrebbe chiedere al suo Paese natale di cambiare la bandiera nazionale, dove come è noto figura una croce, con quale perturbazione emozionale dei suoi figlioli è facile immaginare. Basta questa considerazione paradossale per capire come, per qualunque persona di buon senso, la croce a scuola o sulla bandiera non è uno strumento di proselitismo religioso ma il simbolo di una storia plurisecolare che, piaccia o no, non avrebbe alcun senso senza il cristianesimo. In Italia la signora Lautsi intascherà cinquemila euro dai contribuenti – un piccolo omaggio della Corte di Strasburgo – e avrà diritto di far togliere i crocefissi dalle aule dove studiano i figli. Certo, ci sarà l’appello, e giustamente il nostro governo rifiuterà di applicare questa sentenza ridicola e folle. Ma le «toghe rosse» italiane si sentiranno incoraggiate dai colleghi europei. Che non sono tutti «stranieri» dal momento che uno dei firmatari della sentenza è il giudice italiano a Strasburgo, il dottor Vladimiro Zagrebelsky, campione – insieme al fratello minore Gustavo – del laicismo giuridico nostrano.

see u,
Giangiacomo

domenica 20 settembre 2009

La strana sfida di Chavez

La strana sfida di Chavez: convertire gli indigeni venezuelani all’islam

di Massimo Introvigne (Libero, 9 settembre 2009)

«Passerella trionfale, applausi scroscianti e standing ovation»: tutta la sinistra italiana (e non solo) si è commossa per il presidente venezuelano Hugo Chavez di passaggio alla Mostra del Cinema di Venezia. Mentre sventolano le bandiere rosse, sarà bene ricordare che Chavez non è un simpatico capo di Stato esotico, ma ha una posizione e un ruolo per lo meno ambigui sul tema delicatissimo del terrorismo internazionale.

Prima di Osama bin Laden, il peggiore terrorista della storia recente è stato il venezuelano Ilich (così battezzato dal papà comunista in onore di Lenin) Ramirez Sanchez, meglio conosciuto come Carlos. Negli anni 1970 la sua organizzazione fa almeno 1.500 morti. Condannato nel 1997 a un ergastolo che sta tuttora scontando in Francia, Carlos si converte all’islam in prigione e propone l’alleanza mondiale del terrore fra comunisti puri e duri e ultra-fondamentalisti islamici. Ma già negli anni d’oro Carlos riusciva a mettere insieme il KGB e Khomeini, le Brigate Rosse e Arafat, i teologi della liberazione catto-comunisti e i primi fondamentalisti islamici in armi.

Chavez intrattiene una corrispondenza con il terrorista e lo definisce «un grande amico e un grande venezuelano». In una lettera a Carlos, Chavez scrive che «nelle profondità della nostra solidarietà sento pulsare la nostra intuizione condivisa che ogni cosa ha il suo tempo: il tempo di accumulare le pietre e il tempo di lanciarle», «un tempo in cui si combatte apertamente e un tempo in cui si resta nascosti ad aspettare in fervida attesa il momento della verità, così come Arianna lasciava dietro di sé i fili che l'avrebbero condotta fuori del labirinto».

Arianna oggi però per Chavez si chiama Ahmadinejad. In America Latina, grazie al patrocinio di Chavez, l’Iran è sempre più presente. Con forniture di armi ai governi più ostili agli Stati Uniti, con accordi economici e ora anche con la propaganda religiosa. Lontano dai riflettori, Chavez ha chiuso una vasta area tribale del Venezuela abitata da indiani goajiros ai cattolici e ai protestanti e ci ha fatto entrare solo missionari musulmani sciiti addestrati dall’Iran. Le missioni, ben finanziate, funzionano – un’intera tribù, i Wayuu, si sarebbe convertita – e l’Iran può sventolare le prime fotografie di donne indios venezuelane velate come fossero a Teheran. I maschietti, invece, si fanno chiamare “Hezbollah Venezuela” e insieme al Corano mostrano il kalashnikov. Israele sospetta che alcuni di questi neo-convertiti siano dietro a un tentato attentato alla sua ambasciata a Caracas.

Uno che lo conosceva bene, il cardinale venezuelano Castillo Lara (1922-2007), aveva definito Chavez «un dittatore paranoico», che «parla del socialismo del XXI secolo ma nella sua testa ha una specie di comunismo nella fase peggiore, concentrato di populismo e autoritarismo». È questo l’eroe, amico del terrorista Carlos e di Ahmadinejad, che la sinistra italiana applaude a Venezia.


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Giangiacomo

"Berlusconi e Sarkozy, la democrazia del leader"

Il politologo francese Marc Lazar: «Il sistema è in mutazione, ma non siamo agli Anni Venti, il fascismo non è alle porte»

E’ un momento duro, difficile, «l’immagine dell’Italia è indebolita, ma non siamo negli Anni Venti, il fascismo non è alle porte, la società italiana è vitale e democratica». Marc Lazar è ottimista. Politologo, professore a Sciences-Po, uno dei santuari dell’intellighenzia parigina, Lazar è tornato in Francia dopo due anni vissuti in Italia dov’è tuttora docente alla Luiss. In quest’intervista riflette sulla situazione politica del nostro paese a partire dall’editoriale di Gian Enrico Rusconi sulla Stampa di martedì «Anche questa è democrazia».

Professor Lazar, pure lei pensa che la democrazia italiana sia in mutazione, come ha scritto Rusconi?
«Sì, in mutazione, come molte altre democrazie. L’Italia non è un caso anomalo. Si è verificata l’ascesa di quella che noi politologi chiamiamo la democrazia dell’opinione o del leader. Più di prima sono importanti i personaggi. I partiti non sono scomparsi, ma appaiono molto indeboliti come le tradizionali culture politiche. Gli elettori sono volatili, incerti. La televisione e Internet forniscono un’informazione continua che tiene i politici sotto pressione, ogni decisione viene presa nell’emergenza».

Chi è un leader?
«Qualcuno che sa farsi vedere, riconoscere, è uno che sa parlare direttamente al popolo. Ha una democrazia semplice, con una componente populistica. Prendiamo due campioni di questa stagione, Berlusconi e Sarkozy, hanno molti tratti comuni, entrambi hanno fondato il loro discorso sulla critica delle tradizionali élite politiche e sulla trasformazione del sistema».

Una tendenza che contagiato anche le sinistre europee che appaiono tutte in crisi?
«Hanno anche loro un problema comune: adattarsi a questo modello di democrazia, trovare il leader giusto. E sono in difficoltà perché è un modello che più si adatta alla destra perché si fonda sul principio di autorità».

Quali sono le altre caratteristiche della democrazia italiana?
«C’è un diffuso sentimento di anti-politica, una caduta di fiducia nei confronti degli uomini politici: si usa dire che sono tutti uguali, tutti corrotti. In Italia questo sentimento è più forte che altrove».

Si direbbe che la democrazia classica non funzioni più. È così?
«Io credo che la democrazia della rappresentanza sia in difficoltà, ma non sia morta. In ogni paese si cercano soluzioni. Per esempio le primarie italiane del Partito democratico sono state un modello molto studiato. E poi cresce la voglia di controllare i politici. Ci sono state grandi mobilitazioni contro la guerra, c’è un grande fermento associativo e di volontariato, lo si è visto in occasione del terremoto».

Però la democrazia italiana appare debole e secondo molti totalmente condizionata dalla televisione. Lei che ne pensa?
«Io non credo che l’Italia sia anestetizzata dalla tv e non penso che la democrazia italiana sia in pericolo. Ci sono delle ragioni storiche di debolezza, diciamo che in Italia la democrazia è più recente che in Francia o Gran Bretagna. È un dato che pesa nella coscienza collettiva, ma ultimamente si sono fatti enormi progressi».

Scendiamo al concreto del confronto di attualità: ci sono punti comuni tra il premier italiano e il presidente francese?
«L’uomo Berlusconi ha molti punti in comune con Sarkozy, ma anche alcune specificità come il conflitto di interessi. Un’anomalia pericolosa che non significa fascismo, ma provoca tensione».

Ma sul piano dell’informazione vede molte differenze?
«Sarkozy non è il proprietario ma ha tendenza a controllare le televisioni, da questo punto di vista la Francia non può certo dare lezioni all’Italia. E non dimentichiamo che un direttore di giornale è stato licenziato su richiesta del presidente, ci sono state denunce e scontri tra lui e i giornali. Il modello in questo campo semmai è l’Inghilterra. In questo momento in Italia c’è però una tensione sull’informazione che non si verifica in altri paesi. Il premier è proprietario editoriale e di televisioni. In questo il caso italiano è unico».

Lei vede un’evoluzione nelle relazioni tra i due paesi?
«Il rapporto tra Italia e Francia è solido sul piano economico e nella tradizione delle relazioni tra le due amministrazioni. Per il resto l’immagine dell’Italia è indebolita, non c’è dubbio. Pesano la questione Berlusconi, le polemiche, l’incertezza sul futuro. Come professore di Sciences-Po posso dirle che fino a due anni fa molti nostri studenti chiedevano di venire in Italia a fare l’anno obbligatorio all’estero. Ora molti meno».

A causa di un giudizio negativo su Berlusconi?
«Con significative eccezioni. Per esempio il lavoro fatto dal governo al G8 dell’Aquila è stato riconosciuto e apprezzato. Tuttavia in Francia pesa il modo schematico in cui i media riportano le polemiche politiche italiane. C’è interesse, ma l’informazione è un po’ banalizzata. La domanda che mi sento rivolgere più spesso è: come possono gli italiani votare per Berlusconi?».

E lei come risponde?
«Che in un paese in preda a una crisi fortissima, dove erano crollati i riferimenti classici, Berlusconi ha saputo affermare la sua forza di leader, anche come uomo di Stato per quanto diverso dagli altri. Ha espresso un’egemonia culturale e io considero questa una grande lezione del berlusconismo. Ha saputo tenere insieme coppie di valori che sembrano opposti: liberismo-protezionismo, conservazione-innovazione ecc. Approfittando dell’incapacità del centrosinistra, ha saputo essere il cemento di un blocco sociale in cui ci sono i forti e i deboli, gli integrati e gli esclusi: imprenditori, commercianti, gli impauriti da immigrazione, globalizzazione, Europa. Lui ha saputo incarnare tutto questo persino nell’aspetto fisico».

Gli ultimi mesi sono stati segnati dalle rivelazioni sulla sua vita privata. Quanto hanno pesato sulla sua immagine pubblica?
«Lo hanno messo in difficoltà e sono state la prima vera frattura. L’ha pagata nell’elettorato cattolico e si è visto molto nettamente nelle elezioni di primavera. Ma lui ha saputo giocare la sua carta preferita, quella del rovesciamento. Ha detto: non sono un santo. I molti italiani che peccano come lui possono averlo capito».

Lei crede che queste rivelazioni possano condizionare il suo futuro di leader?
«Sappiamo che l’uomo, quando sembra in difficoltà, sa risalire. La battaglia gli piace, è il suo vero terreno. Ha ancora tre anni di legislatura, non vedo proprio chi possa metterlo in difficoltà. Come si dice in francese, dalla foresta non è uscito nessuno in grado di contestare la sua leadership. Gianfranco Fini sta prendendo un appuntamento con il futuro. Ma per il momento non vedo alternative a Berlusconi».

Lei crede che la democrazia italiana saprà sopravvivere a questa crisi?
«Sì, non siamo sull’orlo del fascismo, non siamo negli anni Venti. Una svolta autoritaria come allora sarebbe insopportabile. Non siete minacciati, la società ha una grande vitalità, avete superato tante crisi, è un momento duro, intenso, ma io sono ottimista, anche perché, come diceva Brecht, il popolo non si può sciogliere».

see u,
Giangiacomo

domenica 14 giugno 2009

Ronald Reagan

considerato che in settimana qualche dittatore libico ne ha parlato male...

Ronald Reagan (1911-2004)
Il grande Reagan
A cinque anni dalla morte (5 giugno 2004)

"Guerra fredda": Ronald Reagan (1911-2004)
"Nei 2.765 giorni della nostra amministrazione, non un solo centimetro di terra è caduto sotto il comunismo" (Republican National Convention - 15 agosto 1988)

"Cold war": Ronald Reagan (1911-2004) "In the 2,765 days of our administration, not 1 inch of ground has fallen to the Communists" (Republican National Convention - August 15, 1988)

http://www.storialibera.it/epoca_contemporanea/comunismo_nel_mondo/guerra_fredda/ronald_reagan/

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Giangiacomo

domenica 7 giugno 2009

No all'Eurabia

Islam ed Europa: l'islamizzazione dell'Europa
Il continente da cui è nata la civiltà è in agonia. Le vestigia che ricoprono il Vecchio Continente, e che costituiscono la dimostrazione delle sue radici, sembrano oggi le lapidi della sua decadenza.L'Europa è moribonda in una drammatica combinazione di suicidio e di omicidio: pregiudizio e allergia a tutto ciò che è cristiano e tolleranza e simpatia verso tutto ciò che è islamico.

Islam and Europe: the Islamization of Europe
The continent where civilization is born is in agony. Today the vestigia that cover the old continent, and that are the demonstration of its roots, appear as the headstones of its decline.Europe is dying in a dramatic combination of suicide and murder: prejudice and allergy to everything that is Christian and tolerance and sympathy towards everything that is Islamic.

www.storialibera.it/attualita/islam_ed_europa/

see u,
Giangiacomo

La debolezza della Ragione

Il discorso del presidente Obama al Cairo

Il discorso del presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama pronunciato all’Università del Cairo il 4 giugno 2009 (che cito dal testo ufficiale diffuso dal sito della Casa Bianca: http://www.whitehouse.gov/the_press_office/Remarks-by-the-President-at-Cairo-University-6-04-09/ ) dimostra, anzitutto, che a differenza di buona parte della stampa europea gli speechwriter del presidente americano sono attenti lettori dei discorsi di Benedetto XVI. Senza mai citare il Pontefice, alcuni passaggi sono ripresi quasi letteralmente. E tuttavia, mentre ripete la lettera di Benedetto XVI, Obama si allontana dallo spirito dei testi pontifici: e sta qui la debolezza di fondo del suo discorso.
Per un confronto, sarà sufficiente riassumere l’essenziale del magistero di Benedetto XVI in tema di rapporti con l’islam. Il Papa riconosce che è difficile che cristiani e musulmani (e anche, naturalmente, cristiani e buddhisti, induisti o atei) raggiungano un consenso sulla base dei rispettivi testi sacri o credenze in materia di religione. Il confronto interreligioso di natura teologica offre materia per interessanti congressi internazionali, ma di rado porta a un vero consenso con serie conseguenze pratiche. Questo va cercato invece argomentando non dal Corano o dalla Bibbia ma dalla ragione, che è comune a tutti gli uomini e che di per sé non è né cristiana né musulmana, né buddhista né atea. Attraverso la ragione è possibile scoprire quella legge naturale che costituisce, secondo l’espressione di Benedetto XVI, “la grammatica della vita sociale” e che consente di fissare verità condivise e regole del gioco valide per tutti. Argomentando, appunto, anzitutto dalla ragione il Pontefice – parlando ai musulmani a Castel Gandolfo dopo il discorso di Ratisbona nel 2006, in Turchia nello stesso 2006 e in Terra Santa nel 2009 – non si limita a principi generali ma mostra in concreto su che cosa, sulla base della legge naturale, cristiani e musulmani possono convenire. Si tratta anzitutto dei principi non negoziabili in materia d’inizio e fine della vita (con il no all’aborto e all’eutanasia) – su cui un certo consenso già esiste –, quindi di temi delicati, che il Papa invita l’islam ad approfondire proprio sulla base della ragione, riassunti nei tre elementi del ripudio della violenza e del terrorismo, dei diritti fondamentali garantiti agli uomini così come alle donne e della libertà religiosa. Benedetto XVI non si nasconde che il filo del dialogo fra fede e ragione – che storicamente è dialogo fra cultura religiosa ed eredità della filosofia greca – nell’islam, come aveva rilevato a Ratisbona, a un certo punto si è interrotto, perché la linea maggioritaria del pensiero islamico si è ritratta di fronte al rischio che l’uso della ragione e della filosofia portasse da una parte all’ateismo e dall’altra al panteismo. Ma auspica che questo filo possa essere riannodato, e in ogni caso il comune riferimento alla ragione è l’unica via per evitare lo scontro e il conflitto permanenti.
Al Cairo Obama riprende l’idea di una “verità che trascende nazioni e popoli – è una verità che non è nuova, che non è né nera né bianca né marrone, che non è né cristiana né musulmana né ebrea”. Declinando le conseguenze di questa verità “che trascende nazioni e popoli”, Obama segue lo stesso schema di Benedetto XVI: condanna senza appello della violenza e del terrorismo, diritti delle donne, libertà di religione. Il tono è diverso – con qualche concessione retorica all’audience musulmana che diventa errore sociologico e storico, come quando i fondamentalisti sono definiti una minoranza “piccola ma potente” (potente certo, ma non poi tanto piccola: si tratta di almeno cento milioni di persone) o s’idealizza la tolleranza dei musulmani in Andalusia e a Cordoba, confrontandola con “l’Inquisizione” cattolica – ma l’architettura rimane molto simile a quella reiteratamente proposta dal Pontefice.
E tuttavia manca qualcosa che non è secondario ma essenziale. Quando Benedetto XVI fa appello alla verità, il fondamento filosofico proposto – che è al cuore della nozione stessa di Occidente, ma nello stesso tempo è universale – è che vi siano principi e leggi iscritte nella natura stessa delle cose, che la ragione (una ragione, dunque, “forte”) è in grado di conoscere. Nel discorso di Obama non c’è nessun riferimento a una legge naturale che la ragione può discernere. Né ci potrebbe essere: perché ogni teoria della legge naturale sarebbe in aperto contrasto – meglio, in clamorosa contraddizione – con tutto quanto Obama pensa e fa in materia, per esempio, di aborto e con un atteggiamento generale che privilegia i cosiddetti “nuovi diritti” rispetto a principi morali universali e non negoziabili, di cui anzi si nega l’esistenza, che è tipico del presidente americano e del suo partito e che determina i noti contrasti con i vescovi cattolici degli Stati Uniti e con altri ambienti religiosi.
Su che cosa dunque Obama pretende di fondare una verità capace di “trascendere nazioni e popoli”? In verità tertium non datur: le due ali con cui l’uomo cerca di volare, come insegna Giovanni Paolo II più volte citato da Benedetto XVI, sono la ragione e la fede. Se non ci si vuole fondare su una nozione forte di ragione, una ragione debole finirà per fare appello alla fede, che però rischierà di essere assunta in modo confuso o di diventare fideismo. Al Cairo Obama invoca la “visione di Dio”: una visione, sembra di capire, che “conosciamo” attraverso un’analisi di quanto le scritture sacre delle grandi religioni hanno in comune. Da questo punto di vista, paradossalmente, Obama appare molto più fideista del Papa. Citando il Corano, il Talmud e la Bibbia Obama pensa di avere trovato “la singola regola che sta al cuore di ogni religione – facciamo agli altri quello che vorremmo che gli altri facessero a noi”. Questa credenza, dice Obama, “non è nuova”. In effetti non lo è. La cosiddetta “regola aurea” – non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te – è certamente, per alcuni versi, un antico principio di buon senso, che i cristiani condividono. Tuttavia – dal filosofo tedesco Immanuel Kant in poi – molti hanno messo in luce come si tratti di uno schema formale che dev’essere riempito: chi sono gli altri? Come facciamo a conoscerne la volontà? Questa volontà che attribuiamo agli altri è necessariamente conforme alla ragione e al bene? Se rimane uno schema vuoto, la “regola aurea” non ha conseguenze pratiche e resta solo una pia aspirazione, più o meno sentimentale, al buonismo universale.
Non potendo, per non smentire il suo relativismo in campo morale, fare appello alla legge naturale e a una ragione forte e fiduciosa di potere giungere a verità universali, Obama si trova costretto a proporre o una ragione debole – qualche cosa che ricorda i tentativi di costruire a tavolino etiche universali alla Hans Küng – o il faticoso e ultimamente sterile tentativo di partire dalle scritture sacre delle religioni per discernerne il presunto spirito comune che ci permetterebbe di conoscere la stessa “visione di Dio” per l’umanità (una prospettiva che, appunto, Benedetto XVI ha ampiamente abbandonato, sostituendola con l’appello alla ragione).
In questo fondamento debole della ricerca di consenso con l’islam – un fondamento che non persuaderà i musulmani che vogliono rimanere musulmani – sta il limite essenziale del discorso di Obama al Cairo. L’attenzione di molti si concentra, a proposito di questo discorso, su aspetti strettamente politici: la dichiarazione secondo cui l’Iran ha diritto a un “programma nucleare pacifico” (il cui trasferimento sul piano militare – che Obama condanna – potrebbe poi peraltro avvenire rapidamente e al di fuori di ogni possibile controllo, ammesso e non concesso che non sia già avvenuta), e l’appello alla soluzione dei due Stati per risolvere il conflitto israeliano-palestinese. Anche Benedetto XVI in Terra Santa ha ricordato la storica preferenza della Santa Sede per la “two-state solution” (forse anche perché opzioni diverse, al momento, appaiono politicamente ancora meno praticabili), ma non si è nascosto il rischio che, nell’attuale temperie medio-orientale, questa soluzione resti “un sogno”. Nel discorso di Obama, retorica a parte, non c’è molto di più perché, se è vero che si chiede a Israele un passo indietro sugl’insediamenti di coloni nei territori palestinesi, si esige pure da Hamas di “riconoscere il diritto d’Israele a esistere”. Dal momento che questo riconoscimento è vietato a Hamas dal suo stesso statuto, per passare dal sogno alla realtà c’è ancora molta strada da fare.
Su Afghanistan (dove dichiara di voler intensificare l’impegno) e Iraq (dove promette un cauto disimpegno, dicendosi comunque “convinto che gl’iracheni stiano meglio oggi che sotto la tirannia di Saddam Hussein”) Obama ribadisce posizioni note. La novità, semmai, sta nell’apertura di credito in bianco all’Iran e a Hamas, ingrediente obbligatorio di un messaggio che si vuole a tutti i costi nuovo, ma che non sembra per ora accompagnata da alcuna concessione da parte dei destinatari.
Tuttavia, non è per i riferimenti ai coloni israeliani e neppure al nucleare iraniano che Obama presenta il suo discorso come “storico” e occupa le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. È per la pretesa di fondare una nuova ricerca di consenso tra l’Occidente e l’islam sull’appello a verità comuni. Questo consenso – come insegna Benedetto XVI – è difficile ma non è impossibile, purché si tratti delle verità di una ragione forte che si oppone a ogni relativismo. Se la ragione è debole, o cerca precari appoggi in una pretesa e sincretistica “visione comune” delle religioni, tutto l’edificio, per quanto sembri svettare orgogliosamente verso il cielo, è in realtà costruito sulla sabbia. E non potrà che cadere.

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Giangiacomo

venerdì 22 agosto 2008

8-24 Agosto 2008, Olimpiadi insanguinate

8-24 August
The blood Olympic Games

La Cina che ospita i giochi olimpici è una terribile macchina di oppressione e di menzogna

Comunismo in Asia: Cina
La Cina, lo Stato comunista più popoloso del mondo, il più sovraffollato lager («Laogai», in cinese) mai esistito, si sta trasformando in una macchina industriale e commerciale dalle sconfinate potenzialità volta alla conquista economica del mondo.

Communism in Asia: China
China, the most populated Communist country in the world, the most overcrowded lager («Laogai», in Chinese) never existed, is changing into an industrial and commercial machine with endless capability turned to the economic conquest of the world.

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Giangiacomo

domenica 27 luglio 2008

Anche di Hitler e Stalin non riuscimmo a vedere il pericolo

Molti contemporanei non riuscirono a vedere Adolf Hitler, Benito Mussolini e Joseph Stalin per quello che erano; oggi Hezbollah, al Qaeda, i khomeinisti iraniani e i Wahabiti sauditi proclamano apertamente la loro intenzione di distruggerci, ma, ancora una volta, non stiamo prendendo sul serio tali minacce.Perché c’è una così grande riluttanza ad agire? Dopo la seconda guerra mondiale siamo stati guidati dal forte desiderio di capire come il genocidio, il terrorismo e la guerra totale si manifestino e come prevenirli in futuro, e – soprattutto - abbiamo cercato risposta ad alcune domande fondamentali: Perché l’Occidente non è riuscito a vedere l’arrivo della catastrofe?Perché ci sono stati così pochi sforzi per impedire la marea fascista, e perché praticamente tutti i leader occidentali – e così tanti intellettuali – hanno trattato i fascisti come se fossero dei normali capi politici invece che come i pericolosi rivoluzionari che erano? Perché gli ebrei – le vittime maggiormente designate – fallirono ugualmente nel riconoscere l’entità della loro imminente distruzione? Perché la resistenza è stata così sporadica? La maggioranza alla fine ha accettato una doppia “spiegazione”: l’unicità di quel male e la mancanza di precedenti storici. L’Italia e la Germania erano due tra le nazioni più civilizzate e acculturate del mondo.Era difficile capire che un grande male sarebbe diventato supremo nei Paesi in cui sono nati Kant, Beethoven Dante e Rossellini. Eppure, non siamo mai riusciti a vedere la forza crescente dei nostri nemici. Perché li trattiamo come se fossero normali fenomeni politici, come fanno i leader occidentali quando abbracciano i negoziati come la migliore strada percorribile? Non possiamo biasimare i capi di Stato di allora, per non parlare delle vittime, per non aver visto qualcosa che era quasi totalmente sconosciuto come lo sterminio di massa su vasta scala e una minaccia alla stessa civiltà. Prima d’allora, infatti, non c’era mai stata una campagna organizzata per distruggere un’intera “razza”, ed era perciò quasi impossibile rendersene conto o riconoscerla come tale. Tuttavia l’incapacità di percepire il pericolo segue una prassi ben conosciuta: il sistematico rifiuto di vedere i nostri nemici. Le invettive di Hitler, contenute sia nel Mein Kampf che nelle manifestazioni del partito nazista, erano spesso minimizzate come espressioni “politiche”, un modo per mantenere il sostegno popolare, e raramente venivano prese sul serio.L’appello di Mussolini per la creazione di un nuovo impero italiano e la sua successiva alleanza con Hitler sono stati definiti semplici bravate. Qualche studioso ha ampliato l’analisi per includere altri regimi come la Russia di Stalin, responsabile anch’essa della morte di milioni di individui, le cui ambizioni minacciavano ugualmente l’Occidente. Come con il fascismo, la maggior parte dei contemporanei trovò quasi impossibile credere che l’Arcipelago Gulag fosse quello che era, e - come con il fascismo - abbiamo studiato il fenomeno in modo da riconoscere il male abbastanza in tempo per evitare che ci colpisca di nuovo. Ormai è veramente poco quello che non sappiamo su questi regimi e movimenti; alcuni dei nostri maggiori studiosi li hanno descritti, analizzato le ragioni del loro successo e raccontato la guerra che abbiamo combattuto per sconfiggerli. La nostra conoscenza a riguardo è notevole, così come l’onestà e l’intensità del desiderio che cose simili non si ripetano, eppure sta succedendo di nuovo: stiamo agendo come nel secolo scorso.Il mondo reagisce sonnecchiando alle note retoriche e azioni di movimenti e regimi come Hezbollah e al Qaeda, i khomeinisti iraniani e i wahabiti sauditi che giurano di distruggere noi e quelli come noi. Come i loro predecessori del ventesimo secolo, proclamano apertamente le loro intenzioni e le attuano quando e ovunque possono, e - come i loro predecessori - raramente li prendiamo sul serio o agiamo di conseguenza. Più spesso sottovalutiamo la portata delle loro parole, come se si trattasse di una versione islamica o araba di “politica” destinata al consumo interno e ideata per portare avanti obiettivi nazionali. È chiaro che le spiegazioni che ci siamo dati riguardo la nostra incapacità di agire nel secolo scorso sono sbagliate. La nascita di movimenti messianici di massa non è una novità, ed è davvero poco quello che non sappiamo su di loro, né abbiamo scuse per sorprenderci del successo di leader crudeli anche in Paesi con una lunga storia, una grande cultura e stabilità politica. Sappiamo tutto, quindi dobbiamo porci di nuovo le solite domande: perché non riusciamo a vedere la forza crescente dei nostri nemici? Per molte ragioni.Una è l’idea, profondamente radicata, che tutte le persone siano fondamentalmente uguali e buone. La maggior parte della storia umana dimostra l’opposto, ma è difficile accettare il fatto che molte persone siano cattive e che intere culture, anche la migliore, possano cadere preda di leader crudeli e marciare a comando. Molta della cultura occidentale è profondamente impegnata a credere nella bontà dell’umanità, e siamo riluttanti ad abbandonare questo rassicurante articolo di fede; nonostante l’evidenza del contrario, preferiamo inseguire la strada della ragionevolezza anche con i nemici il cui fanatismo totalmente irrazionale è palese. Questa non è filosofia, perché accettare la minaccia contro di noi vuol dire agire, a meno che non si preferisca il suicidio nazionale. Come nel ventesimo secolo, significa guerra; significa che, almeno temporaneamente, dobbiamo fare sacrifici su molti fronti: la comodità delle nostre vite, il rischio di morire, l’oggetto quotidiano dei nostri sforzi – le carriere e le libertà personali soggette a spiacevoli ed anche pericolose restrizioni – e la destinazione della ricchezza dalla soddisfazione personale alla sicurezza nazionale. Tutto questo è doloroso; anche il solo pensarlo fa male. Poi c’è l’antisemitismo.Vecchi testi dell’odio antiebraico, ora anche in farsi e arabo, si stanno diffondendo in tutto il Medio Oriente, e incitazioni alla distruzione di Israele appaiono regolarmente nelle televisioni iraniane, egiziane, saudite e siriane, e sono ascoltate nelle moschee europee e americane. Non c’è da stupirsi se ogni condanna occidentale che non è seguita da praticamente nessuna azione suggerisca, come minimo, una diffusa indifferenza verso il destino degli ebrei. Infine c’è la natura del sistema politico. Nessuna democrazia era adeguatamente preparata alla guerra degli anni Quaranta prima di esserne coinvolta, e nessuno era preparato all’aggressione terrorista del ventunesimo secolo.La natura della politica occidentale rende molto difficile ai leaders nazionali – nonostante alcuni uomini e donne che capiscono cosa stia succedendo e vogliano agire – prendere opportune e attente misure prima che la guerra gli piombi addosso. Uomini come Winston Churchill sono stati relegati all’opposizione fino a quando la battaglia è divenuta inevitabile. Allora come oggi, l’iniziativa spetta ai nemici dell’Occidente. Fino ad oggi, impegnati nei campi di battaglia dell’Iraq e dell’Afghanistan, c’è stato uno scarso riconoscimento del fatto che siamo sotto attacco da parte di un nemico comune, e grande riluttanza ad agire di conseguenza: questa volta l’ignoranza non può essere addotta come giustificazione. Se saremo sconfitti sarà per mancanza di volontà, non di nozioni.

Michael Ledeen - Liberal

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Giangiacomo

sabato 19 luglio 2008

Ma l’Europa è ancora in Europa?

Alla domanda «che cos’è l’Europa?» un numero impressionante di pensatori, giornalisti, cittadini e responsabili politici europei reagiscono affermando che non esiste una risposta, o meglio che nessuna risposta deve essere fornita. L’Europa, dicono, non è nulla di tangibile e questo nulla - lungi dal rappresentare un handicap - è il suo mandato, la sua vocazione, la sua virtù tardiva e cardinale. Il filosofo francese Jean-Marc Ferry definisce l’Europa un’identità il cui principio è legato alla sua disposizione ad aprirsi alle altre identità. L’Europa, l’essere europei significherebbe dunque non dovere nulla alla propria origine ed essere sradicati da se stessi. Questo modo di percepire, di pensare l’Europa è dovuto al trauma di Auschwitz. La forma apocalittica che ha assunto l’esclusione dell’Altro nei campi della morte potrebbe essere riscattata dall’avvento di un’umanità che nessun dissidio interiore sarebbe in grado di fragilizzare o dividere. E l’Europa, essendo appunto stata il luogo del crimine, deve dare l’esempio ed espiare il crimine cancellando il luogo. L’unica identità che può accettare è quella del ripudio di ogni brama identitaria; per non cedere nuovamente alla tentazione dell’esclusione deve optare per la strada redentrice dell’indeterminatezza. Fuggire lontani dall’appartenenza: questa sarebbe la missione civilizzatrice e, innanzitutto, auto-civilizzatrice che si attribuisce l’Europa del «dovere di memoria».Ed è sorretti da questa definizione della non-definizione che i sostenitori dell’integrazione della Turchia nell’Unione Europea hanno accusato i loro avversari di lasciarsi guidare dalla retorica reazionaria della provenienza. «Coloro che vogliono i turchi fuori dall’Ue scoprono il radicamento dell’Europa nell’occidente cristiano», dicono con sarcasmo. Questo radicamento rappresenterebbe ai loro occhi una caduta, anzi una ricaduta. Chiedersi se la Turchia fa parte dell’Europa - ovvero se questo Paese è rimasto ai margini del cosiddetto concerto europeo o se ha condiviso le esperienze che hanno modellato il vecchio continente e che gli hanno conferito la sua particolare fisionomia: il Cristianesimo, il Rinascimento, la Riforma, la Controriforma, l’Illuminismo, il Romanticismo - vuol dire dimenticare che la stessa Europa non fa più parte dell’Europa e che questo distacco la libera finalmente dalla sua storia sanguinosa. L’Europa deve fare di tutto per impedire il ritorno dei suoi vecchi demoni. Ma lo sta facendo bene? Cosa significa veramente questa sua proclamazione di apertura? Rinchiudere l’Altro (in questo caso la Turchia) nell’alternativa tra inclusione ed esclusione non significa rispettarlo in quanto Altro bensì militare attivamente in favore di un mondo privo di alterità. Significa istituire, sotto l’egida del diritto, dell’economia e della morale, l’impero dell’Identico. «Non sono nulla, dunque sono tutto», afferma oggi l’Europa autocritica, pentita, postnazionale e, in un certo senso, post-europea. A questa xenofilia senza xenos si aggiunge l’esercizio di una memoria che dimentica tutto quello che non è stato criminale. In nome di Auschwitz, l’Europa, in quanto esperienza e destino, viene sostituita dall’Europa delle regole, delle procedure e dello sciovinismo di un presente che fonda il suo regno sulle macerie del nazionalismo e dell’etnocentrismo. Prima di noi il diluvio! Prima delle nostre attuali instancabili lotte contro ogni discriminazione, il razzismo, l’antisemitismo, la misoginia, l’omofobia, la colonizzazione, la schiavitù regnavano, insieme o alternativamente, nel territorio europeo.Questa Europa della memoria è un’Europa della tabula rasa. Questa Europa dell’apertura è un’Europa chiusa a tutto quello che non è, qui e ora, come lei. Esiste tuttavia un’altra modalità del dovere di memoria: la cultura. Come ha scritto il filosofo Alain «l’uomo vive in società non perché eredita dall’uomo ma perché commemora l’uomo. Commemorare vuol dire far rivivere quello che vi è di grande nei morti, e nei morti più grandi».Questo utilizzo della memoria è oggi in disuso. Se l’Europa si allontana da se stessa senza cedere ad alcun tipo di nostalgia non è solo perché è ancora abitata dalle atrocità del ventesimo secolo ma perché, purtroppo, la cultura - questa grande mediazione dell’arte, questo tentativo di capire attraverso i nostri morti cosa siamo e cosa rappresenta la vita, ovvero quello che contraddistingueva l’umanesimo europeo - non ha più nessuna importanza nel vecchio continente. In un rapporto che presenta 314 proposte per favorire la crescita, consegnato recentemente al presidente della Repubblica francese da una commissione internazionale di esperti, diretta da Jacques Attali, viene scritto e ripetuto che l’attuale organizzazione dell’insegnamento è sbagliata perché favorisce l’attitudine dei bambini ad imparare conoscenze accademiche a memoria invece di facilitare lo sviluppo della loro creatività, delle loro doti linguistiche, informatiche, artistiche e sportive. L’Europa non ha più il tempo e la voglia di guardarsi indietro. Altri compiti, più impellenti, l’occupano e la preoccupano: l’accesso a tutte le informazioni disponibili su Internet, l’adattamento all’economia mondializzata, il benessere dei consumatori. Questa Europa hyper-connessa è sinceramente convinta che è la sua umanità a distaccarla dalle sue radici identitarie, a spingerla a rinnegare o a trascendere le proprie frontiere. In realtà, è per mancanza di umanesimo che tutto questo accade.

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Giangiacomo

sabato 12 luglio 2008

11 luglio 2005 – 2008. Tre anni fa, le bombe a Londra

11 luglio 2005 – 2008. Tre anni fa, le bombe a Londra
L’errore politico di tollerare la predicazione islamica nella società inglese.La denuncia della Fallici inglese, Melanie Phillips: dal progressismo alla condanna del multiculturalismo

July 11, 2005 – 2008. Three years ago, the bombing in London
The political mistake to tolerate the Islamic preaching in English society.The accusation of the English Oriana Fallaci, Melanie Phillips: from liberal to the condemnation of multiculturalism

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giovedì 12 giugno 2008

Islam e terrorismo: George W. Bush

Forse un giorno si capirà che il Presidente George W. Bush è stato tra i migliori leader che il mondo moderno abbia avuto e solo allora si comprenderà l'insostituibile compito che quest'uomo è stato chiamato a svolgere; quasi come il leader di cui non si poteva fare a meno dopo l'attacco sferrato all'Occidente dal terrore islamico.

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lunedì 2 giugno 2008

Basta finanziare i maestri dell’odio islamico

Apparentemente quella che arriva dal Pakistan è una storia di ordinaria follia. Un bambino di sette anni, Mohammed Atif, che non era riuscito a memorizzare il Corano come chiedeva l'insegnante di una madrassa, è stato appeso dallo zelante maestro a testa in giù a un ventilatore da soffitto, e bastonato con ferocia finché non è morto.Si dirà che i pazzi ci sono dovunque e che l'ultrafondamentalismo islamico stavolta non c'entra. E invece no. Nell'Afghanistan dei talebani bambini anche di quattro o cinque anni erano sottoposti a un'istruzione che consisteva quasi solo nel mandare a memoria il Corano e nell'imparare a usare il kalashnikov. Se non erano rapidi nell'una o l'altra materia piovevano le bastonate. Ma i maestri talebani avevano imparato l'arte in Pakistan. Qui funziona un sistema di oltre diecimila madrasse - non esistono registri, ispezioni, controlli e il numero esatto nessuno lo conosce - fra cui gli specialisti possono distinguere sfumature teologiche, ma il cui schema è sempre lo stesso. Pochissima istruzione in materie non religiose, Corano a memoria, incitamento all'odio per l'Occidente e botte. I vari governi che si sono succeduti in Pakistan hanno promesso e qualche volta anche fatto qualcosa contro la presenza di Al Qaida, ma non hanno mai osato toccare le madrasse. E c'è di peggio: una parte sostanziale degli aiuti umanitari che vanno al Pakistan - come ha rivelato di recente un'inchiesta del più noto giornalista pakistano, Ahmed Rashid - finisce direttamente o indirettamente alle madrasse. Forse anche la scuola dove è stato picchiato a morte il piccolo Mohammed funzionava grazie agli aiuti delle Nazioni Unite o dell'Unicef.Questo sistema deve finire. Le madrasse non sono scuole come le altre. Anche quando gli allievi non finiscono massacrati come Mohammed sono indottrinati all'odio per l'Occidente, spesso direttamente al terrorismo. Nella maggior parte dei casi, non ricevono l'istruzione essenziale per svolgere nella società lavori che non siano il predicatore, il militante a tempo pieno di movimenti estremisti o il terrorista. Uno dei modi essenziali per sradicare il terrorismo è chiudere le madrasse e sostituirle non con scuole di ateismo (come sognava Kemal Atatürk, il quale dovette rendersi conto ben presto che si trattava di utopie irrealizzabili in terra d'islam) ma con istituti di formazione certo rispettosi dei valori e delle tradizioni islamiche, ma nello stesso tempo capaci di insegnare agli allievi le principali materie che si apprendono nelle scuole di tutto il mondo. E di prepararli a una vita normale, sotto il controllo di autorità scolastiche indipendenti e competenti.I talebani afghani hanno capito che il loro vero nemico è il maestro di scuola. Infatti in un anno hanno fatto saltare duecento scuole, uccidendo oltre centocinquanta bambini frequentatori di scuole elementari. Ma è solo sostituendo le madrasse con vere scuole che si prepara un futuro senza terroristi.

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Giangiacomo

martedì 4 marzo 2008

La Russia di Vladimir Putin

Dopo le recenti elezioni...

La Russia appare sempre meno distante dal suo passato sovietico. Un passato che non solo non viene rinnegato, ma che viene guardato con senso di rimpianta grandezza nazionale. Vladimir Putin, ex ufficiale del terrificante Kgb, sembra essere l’effige di questo pericoloso ritorno all’imperialismo sovietico.E’ lecito domandarsi il motivo del diverso atteggiamento che vi sarebbe nel caso in cui a capo della Germania vi fosse stato un ex agente delle SS, rispetto al riconoscimento di ruolo che l’ex funzionario del Kgb gode nel mondo?

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domenica 10 febbraio 2008

Huckabee, il colpo di coda del pastore

Il predicatore battista è stato la grande sorpresa del supermartedì. E ora sogna un posto da vice McCain. L'unico tema della sua campagna è la lotta all'aborto. E dice: "Perché separare religione e politica?" «Romney ha detto che quella repubblicana è una corsa a due? Ha ragione: è fra me e McCain». Così, dopo il super-martedì, Mike Huckabee. Ora Romney, avviandosi a sospendere la sua campagna, sembra dargli ragione.
Huckabee, ex governatore dell'Arkansas, martedì ha vinto in cinque Stati fra cui la Georgia, che è difficile liquidare come una terra di contadini e montanari perché un terzo dei suoi elettori vive ad Atlanta, una città ultramoderna sede della Cnn e della Coca Cola. Certo, alla fine la spunterà McCain, anche perché è l'unico candidato repubblicano che secondo i sondaggi oggi batterebbe sia Obama sia Hillary Clinton.
Tuttavia, sommando non i delegati (assegnati tra i repubblicani in molti Stati con un sistema per cui chi vince li prende tutti) ma i voti di Romney e di Huckabee, il totale è superiore ai voti di McCain, il che dimostra che l'anima conservatrice tra i repubblicani è tuttora maggioritaria In una summa appena pubblicata sul conservatorismo americano, il politologo Critchlow ricorda che questo consiste di tre segmenti che non è facilissimo mettere insieme: chi vuole una politica estera aggressiva, chi vuole poche tasse, e chi si batte per quelli che Benedetto XVI (ma anche molti leader protestanti e dell'ebraismo ortodosso) chiamano «valori non negoziabili» su vita e famiglia. I tre candidati repubblicani sono tutti per un'America con poche tasse e forte in politica estera. Il punto su cui si distinguono davvero sono i valori non negoziabili. Nella carriera politica di McCain non sono mai stati una priorità, anche se oggi propone alcune limitazioni all'aborto.
Romney invece è un devoto mormone, e la sua comunità religiosa è certamente contro l'aborto, l'eutanasia e qualunque riconoscimento delle unioni omosessuali. Per farsi eleggere governatore del liberale Massachusetts Romney si era concesso qualche apertura, ma ora era tornato all'ovile conservatore. Quanto a Huckabee, afferma che «quando mi si dice di separare la politica dalla religione, rispondo che una separazione totale è impossibile». Se Romney - un uomo d'affari miliardario, figlio di un governatore del Michigan - ha studiato ad Harvard e il soldato McCain all'Accademia navale, Huckabee, il cui padre faceva il pompiere, ha preso una laurea in teologia presso la semisconosciuta Università Battista Ouachita dell'Arkansas.
Prima di darsi alla politica, è stato pastore di congregazioni battiste di paesini i cui nomi sono ignoti a chi non vive nell'Arkansas. Eppure, è riuscito a costruirsi una solida base politica locale, a farsi eleggere governatore del suo Stato e - dopo essere diventato famoso per un libro dove spiega come ha perso cinquanta chili - a presentarsi all'anima religiosa del Partito repubblicano come un candidato credibile. Qualche settimana fa mi è capitato di seguire la campagna di Huckabee in Arizona (dove ha perso) e nel Tennessee (dove ha vinto). Mi ha colpito la quasi totale assenza di riferimenti alla politica estera, il suo punto debole.
La sua è quasi una «lista di scopo» - qualche cosa di cui si comincia a parlare anche in Italia - che raccoglie voti principalmente su un singolo tema: l'opposizione all'aborto. La tenuta dell'anima conservatrice nel super-martedì dei repubblicani e il successo di Huckabee non porteranno l'ex governatore dell'Arkansas alla Casa Bianca. Ma costringeranno McCain, se vuole vincere, a fare i conti con la base repubblicana ostile all'aborto. Magari con Huckabee come candidato alla vicepresidenza.

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lunedì 7 gennaio 2008

I numeri che sbugiardano il moralizzatore di Sicko

Uno dei numeri che più spesso vengono lanciati in faccia all'interlocutore nei dibattiti sul sistema sanitario americano è quello relativo ai "non assicurati", ossia coloro che non usufruiscono dei rimborsi delle principali assicurazioni sanitarie: in tutto 45 milioni di persone. La cifra incarnerebbe l'incapacità degli Stati Uniti di provvedere i servizi sanitari a una vasta platea di suoi cittadini. Basandosi su dati del Census bureau e del dipartimento della Sanità lo scrittore e polemista Mark Steyn ha cercato di demitizzare l'argomento. «Il 37 per cento di coloro che non sono assicurati, cioè 17 milioni di persone, appartiene a nuclei familiari con un reddito superiore ai 50 mila dollari annui, e di questi 8,7 milioni guadagnano più di 75 mila dollari all'anno», ha scritto per spiegare che c'è una fetta di americani che restano fuori dal sistema delle assicurazioni perché abbastanza ricchi da permetterselo e non il contrario. Lo dimostrerebbe ancora meglio il fatto che nel decennio 1995-2005 il numero dei non assicurati con un reddito annuo inferiore a 25 mila dollari è diminuito del 20 per cento, mentre quello dei non assicurati con reddito superiore ai 75 mila è aumentato del 155 per cento.
La cifra non ha il significato che le viene spesso attribuito anche perché, scrive ancora Mark Steyn, «nove milioni di persone non assicurate godono della copertura sanitaria di Medicare. Altri 9 milioni sono stranieri residenti negli Usa», molti dei quali in caso di malattie serie tornano al paese d'origine per godere di cure pubbliche gratuite, come fanno normalmente i canadesi e come fa il giovane francese presentato nel recentissimo film di Michael Moore Sicko. Inoltre dai dati del Census bureau si rileva che 18 milioni di non assicurati hanno un'età compresa fra i 18 e i 34 anni: ossia si tratta di persone che in buona parte ritengono che non sia conveniente assicurarsi. Infine, Jim Kenefick scrive che «solo la metà dei non assicurati resta senza assicurazione per più di sei mesi di seguito».

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domenica 6 gennaio 2008

E ora non lasciamo morire la democrazia pakistana

Una strage annunciata. Benazir Bhutto era stata condannata a morte da Ayman al Zawahiri, lo stratega di Al Qaida, insieme ai dirigenti sunniti dell'Irak che collaborano con il governo democratico, ai politici libanesi che vogliono disarmare le milizie fondamentaliste, ai dirigenti palestinesi che rifiutano la dittatura di Hamas. Ma attenzione: Benazir è stata assassinata a pochi giorni dalle elezioni non per il suo passato socialista e laico ma perché si avviava a vincere dopo avere aperto un dialogo con l'islam non fondamentalista. Nell'ultima intervista rilasciata prima di morire Benazir proclamava la sua fede islamica, su cui annunciava un prossimo libro dove avrebbe proposto un'alternativa al fondamentalismo, esprimendo perfino apprezzamento per Benedetto XVI e per il suo appello a un islam che sappia riannodare le fila di un dialogo fra fede e ragione. Non è neppure troppo importante se fosse sincera o se l'apertura alla religione le fosse stata suggerita da abili consiglieri, pakistani o statunitensi. In politica contano i programmi pubblici, non i dubbi privati. E su un programma che coniugava modernità, alleanza con l'Occidente e identità islamica la Bhutto stava raccogliendo i consensi della maggioranza dei pakistani.Che cosa succederà, ora, in Pakistan? Come reagirà l'Occidente? La tentazione è quella di annunciare brutalmente ai pakistani che il loro sogno di democrazia è finito, e che per contrastare i terroristi occorre tornare a una dittatura militare, non importa se incarnata da Musharraf o da qualcun altro. È una posizione che non è completamente irragionevole, che ha sostenitori all'interno dell'amministrazione Bush e in due partner economico-politici di cui il Pakistan non può fare a meno, la Cina e la Russia. Ma è una posizione sbagliata. Non solo - secondo l'intuizione fondamentale di Condi Rice, che rimane valida - le dittature creano terrorismo, ma in Pakistan i dittatori hanno sempre trattato sottobanco con i terroristi. Il ritorno alla dittatura militare non fa paura ai terroristi, anzi è quello che vogliono. E non devono averla vinta.Dal Libano all'Irak al Pakistan il terrorismo colpisce perché non sta vincendo, ma perdendo. Sul terreno militare principale, l'Irak, ha subito durissimi colpi. Ma anche altrove - in Libano, in Algeria, nello stesso Pakistan - la gente ne ha abbastanza delle bombe, e la popolarità degli ultra-fondamentalisti è ai minimi storici. Resistendo alla tentazione di appoggiare un golpe, l'Occidente deve insistere perché in Pakistan si voti, magari perché dopo le elezioni nasca un governo di grande coalizione che metta insieme gli eredi di Benazir, le due anime della storica Lega Islamica che fanno capo a Musharraf e a Sharif (depurate dai corrotti e da chi traffica con i terroristi) e anche quella parte dell'islam politico che ripudia senza condizioni la violenza. Benazir è morta, ma la democrazia nel mondo islamico non può e non deve morire.

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Giangiacomo

martedì 1 gennaio 2008

Gran Bretagna e Usa difendono il Natale per legge

A volte ritornano. A ogni dicembre riecco quelli che non vogliono che si festeggi il Natale per non offendere minoranze islamiche e non credenti. In questa corsa all'assurdo, che coinvolge principalmente certi presidi, ci sono i cattivi e i diversamente buoni. I cattivoni vietano semplicemente di parlare del Natale a scuola: zitti e Mosca, nel senso della città dove è ospitata la salma di Lenin, che nel caso fosse davvero espulsa dalla Piazza Rossa questi presidi sarebbero lieti di esporre nella loro scuola al posto del vituperato presepe. Altri non hanno cuore di vietare ai bambini le festicciole, e allora s'ingegnano per non parlare di Natale e soprattutto di Gesù. La stagione fredda aguzza l'ingegno: si va dalla Festa dell'Umanità alla Festa della Pace, dalla Festa della Luce (già vista: aveva cercato di sostituirla al Natale un certo Hitler) al Solstizio d'Inverno. A conferma che aveva ragione Barnum, quello del circo, quando diceva che più un'idea è stupida, più si diffonde, quest'anno fa tendenza celebrare nelle aule la «Festa delle vacanze», dove il preside mette in difficoltà il professore di matematica dimostrandogli che cambiando l'ordine dei fattori cambia anche il prodotto. Non si fa vacanza per celebrare la festa, ma si fa festa per celebrare la vacanza. Consoliamoci: i giacobini anti-natalizi ci sono anche in altri Paesi, dalla Francia - ma Sarkozy ha invitato a rivedere le leggi laiciste che vietano la presenza religiosa nelle scuole - alla Gran Bretagna. A Londra però c'è anche la Commissione per l'Eguaglianza e i Diritti Umani, altre volte discutibile, che stavolta ne fa una giusta: invita a «celebrare il Natale come festa cristiana» e a non usare «la preoccupazione di non offendere i non cristiani» come pretesto per divieti assurdi. Puntuale, è arrivato il plauso delle maggiori organizzazioni musulmane, le quali ricordano che il Natale per l'islam (che riconosce Gesù come profeta) non ha nulla di offensivo.Anche negli Usa qualcuno che vuole vietare i presepi è saltato fuori. E lì si è mossa la Camera, che ha approvato con 372 sì e 9 no una risoluzione dove, premesso che «gli Stati Uniti hanno radici cristiane» e che anche «i non cristiani possono celebrare il Natale come un'occasione per mettersi al servizio degli altri», invita gli uffici pubblici e le scuole a celebrare «il Natale della fede cristiana» ed estende al «pregiudizio anticristiano» le condanne previste per altre forme di discriminazione. Sarebbe bello che questa cartolina dagli Stati Uniti fosse recapitata al ministro Fioroni. Sarebbe bastata una circolare ministeriale per fermare i nemici del Natale, e magari invitarli, se proprio vogliono protestare, a passare il 25 dicembre in ufficio a sbrigare il lavoro arretrato.

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Giangiacomo