mercoledì 28 novembre 2007

Cento anni fa, l'enciclica "Pascendi"

Pio X e il modernismo

Non è stato facile definire il modernismo per la grande varietà di forme e di adattamenti che esso assume. In sintesi si può dire che il modernismo ripropone all’interno della Cattolicità, in modo più o meno nascosto, la lezione e gli orientamenti del protestantesimo. Il modernismo costituisce la grande prova della Chiesa contemporanea. Come tale fu compresa in tutta la sua drammaticità all’inizio del XX secolo; non così avvenne, però, quando le stesse tendenze riemersero turbinosamente nella seconda metà del secolo determinando una vertiginosa sostituzione dell’evento cristiano con una triste intellettualizzazione della fede.

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Giangiacomo

lunedì 26 novembre 2007

Risoluzione sui cristiani

Storica risoluzione del Parlamento europeo, che per la prima volta ha votato quasi all'unanimità (un astenuto e due verdi contrari) un documento che condanna fermamente tutti gli atti di violenza contro le comunità cristiane del mondo. Il titolo della risoluzione è "Gravi episodi che mettono a repentaglio l'esistenza delle comunità cristiane e di altre comunità religiose". Il Parlamento «condanna risolutamente tutti gli atti di violenza contro comunità cristiane, ovunque essi si verifichino, ed esorta i governi interessati a tradurre in giudizio gli autori di tali reati», «condanna fermamente tutte le forme di discriminazione e intolleranza basate sulla religione o il credo, come pure gli atti di violenza contro tutte le comunità religiose», «sollecita i governi dei paesi interessati a migliorare la sicurezza delle comunità cristiane e sottolinea che le autorità hanno il dovere di tutelare tutte le comunità religiose», «invita la Commissione e il Consiglio dei ministri a sollevare la questione della situazione delle comunità cristiane nel dialogo politico» con i Paesi terzi, e a «contribuire ulteriormente al rafforzamento dei diritti umani e dello stato di diritto attraverso gli strumenti di politica estera dell'Ue » compresi i «programmi di cooperazione ed aiuto allo sviluppo con quegli stessi Paesi».

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Giangiacomo

lunedì 19 novembre 2007

La Finanziaria passa... con l'aiutino!

Divertente analizzare il testo della Finanziaria che è passato al Senato Giovedì sera e che torna questa settimana alla Camera (attraverso lo strumento del voto di fiducia!!).

Alcuni senatori, i più riottosi, coloro che volevano sembrare essere i più rigidi, i più coerenti...
coloro che avevano degli interessi propri...
coloro che dovevano coltivare il proprio orticello...
sono stai comprati!

Osceni sono gli emendamenti costruiti da cinque senatori eletti all'estero e inutilmente corteggiati da Berlusconi.
Tre emendamenti con cui sono è stata COMPRATA LA FEDELTA' (e il voto) da 18, 14 e 14 milioni di euro!
Una pioggia di quattrini per il "sostegno alla promozione culturale, scientifica e dell'immagine dell'Italia", per le "politiche concernenenti le collettività italiane" e a favore di "enti, fondazioni e altri organismi" all'estero.
Totale di 36 milioni di euro.

In una situazione di economia in crisi, deficit di bilancio pubblico, per un legale atto di corruzioni, andiamo a spendere e scialacquare soldi all'estero con chissà quale ritorno economico e con chissà quale utilizzo reale!

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Giangiacomo

Pillole dalla Russia

In Russia la corte suprema ha negato la riabilitazione giudiziaria dell'ultimo zar Nicola II e della sua famiglia, fucilati dai bolscevichi il 16 luglio del1918 a Ekaterinenburg: non vi sarebbero infatti prove che i Romanov siano rimasti vittime di una repressione politica. E' infatti noto che lo zar Nicola II e la sua famiglia sono morti di freddo. Un gran freddo, in Russia, un freddo che le ha fatto cambiare nome, l'ha fatta diventare Unione Sovietica, un freddo durato settanta durissimi anni...e insieme a Nicola II e alla sua famiglia è morta una qualche decina di milioni di persone...ma la politica non c'entra.
Era solo freddo.

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Giangiacomo

Inaugurazione PD

Ci rifiutiamo di parlare del Partito Democratico, soprattutto dopo aver visto che al TG hanno dato la notizia dell'inaugurazione del famoso "loft", la nuova sede. Ma dico io: che notizia è? Ma di cosa stiamo parlando? Qua il petrolio ha raggiunto 100 dollari al barile, l'Iran si arma e rischiamo un'altra guerra, e questi danno come notizia l'apertura della sede di un partito? Ve l'immaginate se l'avesse fatto Emilio Fede per la sede di Forza Italia?

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Giangiacomo

Le toghe rosse ci fanno importare più criminalità

La sociologia dell’emigrazione ha fissato da decenni tre principi fondamentali. Primo: l’emigrazione per povertà va dove pensa di trovare migliori possibilità di lavoro. Secondo: l’emigrazione per povertà è sempre seguita da un’emigrazione criminale, perché la criminalità organizzata sa che potrà reclutare “soldati” fra gli emigrati poveri che “non ce la faranno”. Terzo: quando può scegliere, l’emigrazione criminale va dove pensa di correre meno rischi grazie a leggi e giudici più permissivi o meno efficienti. Questo modello è stato elaborato e testato anzitutto con riferimento all’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti. Fin dall’Ottocento la mafia scoprì, con entusiasmo, che molti giudici in America non erano nominati ma eletti, e cercò d’impiantarsi nelle città dove pensava di poterne manipolare le elezioni. Qualche volta andò male – come a New Orleans, dove il giudice fatto eleggere dalla mafia fu addirittura linciato –, altre volte benissimo. I risultati di quelle scelte della mafia di oltre cento anni fa condizionano la geografia criminale degli Stati Uniti ancora oggi.
Le scene di abietta miseria che i telegiornali ci mostrano per spiegarci dove vivono i rom che hanno commesso gravi reati in Italia suscitano la domanda: perché tanti rom della Romania scelgono di venire a vivere in questo modo degradato da noi, mentre potrebbero o restare a casa loro (dove vivono male, ma – posso dirlo per testimonianza personale, fondata su numerosi viaggi in Romania – non peggio che nelle luride baraccopoli in Italia) oppure andare in Spagna, dove la numerosa comunità rom vive meglio?
In proporzione al numero di rom con passaporto romeno presenti in ciascun Paese, la percentuale di rom accusati di reati in Italia è decisamente superiore rispetto alla Spagna e addirittura doppia se paragonata alla Romania.
La conclusione è ovvia: mentre chi cerca un lavoro onesto segue le normali regole che governano il mercato dell’immigrazione, chi intende delinquere sceglie di preferenza l’Italia. Lo fa per tre ragioni. Perché – pur sottoposto ai vincoli dell’Unione Europea – Prodi non si è avvalso di tutte le possibili restrizioni all’immigrazione romena (e bulgara) cui invece ha fatto ricorso il suo amico Zapatero. Perché – come ha ricordato il presidente romeno Basescu a Veltroni – chi vuole delinquere lo fa più facilmente nelle grandi città, e in Romania è vietato installare campi nomadi nei pressi di Bucarest mentre in Italia li si lascia costruire a Roma. Ma soprattutto perché si è diffusa fra i rom l’idea che in Italia, benché la polizia sia efficiente, i giudici condannino a pene molto miti e applichino poi tutti i benefici possibili perché queste non siano scontate o lo siano in minima parte.
Non è un’idea infondata, se si pensa all’atteggiamento permissivo sulle espulsioni di molti giudici – bacchettati dalla Cassazione sul punto in una sentenza del 2 novembre –, che si è tradotto in un autentico sabotaggio della legge Bossi-Fini. Non a caso la sinistra radicale ha imposto a Prodi di lasciare le competenza sulle espulsioni ai giudici ordinari, anziché trasferirla ai giudici di pace, non solo meno oberati di lavoro ma spesso anche meno ideologizzati. In epoca comunista qualche giudice romeno si rifiutava di punire i furti dei rom considerandoli manifestazione, sia pure primitiva, di una protesta di classe. Solzenycin ricordava del resto come nei GULag chi aveva rubato fosse trattato meglio dei dissidenti, in quanto Stalin insegnava che i ladri sono “socialmente vicini” ai comunisti: entrambi, sia pure con mezzi diversi, lottano contro la proprietà privata. Certo senza arrivare a questi eccessi, qualche “toga rossa” che l’ideologia rende buonista nei confronti dei rom che delinquono c’è anche da noi. Ed è perché pensano che il nostro è il paese dove le pene non s’infliggono e non si scontano che tanti aspiranti delinquenti vengono in Italia.


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Giangiacomo

mercoledì 14 novembre 2007

Pubbico impiego: un' assicurazione garantita sulla vita!

Indegno. Increscioso. Incredibile. In... si potrebbe continuare all'infinito, tanti sono l'indignazione e lo stupore.

La manovra Finanziaria 2007 vieta l'utilizzo di forme di lavoro temporaneo nella pubblica amministrazione.

Ed è così che... l'impiegato pubblico italiano sarà l'ultima figura professionale su tutto il globo a poter godere di assoluta inamovibilità (non potrà essere licenziato, mai!), di cassa integrazione e mobilità, della pensione (pagata da noi contribuenti), di soli contratti a tempo indeterminato - che invidia! -.
L'impiegato pubblico italiano non dovrà fare mai i conti con la concorrenza estera, nè interna, non avrà problemi di produttività!
Sarà sempre tutelato da qualsiasi ammortizzatore fiscale.
Insomma, l'impiego sicuro e stabile a vita!


Il povero tapino che si trova a lavorare per una società di 400 dipendenti, ma - terribile colpa - privata (magari con contratto nazionale Terziario e commercio, il più utilizzato in Italia)
potrà essere licenziato con giusta causa e facilmente;
potrà essere assunto a tempo determinato, con contratto a progetto, in somministrazione;
dovrà rispettare degli obiettivi (produttività del dipendente);non avrà mai diritto alla cassa integrazione e quindi all'indennità di mobilità;la sua pensione non è nè sarà sicura;
dovrà fare i conti con la concorrenza estera (multinazionale, mercato cinese)
dovrà fare i conti con la concorrenza nazionale.

ora... ragioniamo...


La sinistra massimalista è riuscita addirittura a stroncare un emendamento del "compagno" (ma non abbastanza) Treu, illustre inventore del lavoro ex "interinale", e, a prescindere da ogni logica, a vincere ancora!
E così la flessibilità (badate, parlo di flessibilità e non di precariato), la modalità con cui per picchi di lavoro o significativi progetti stagionali il piccolo Comune o la grande Regione potevano ricorrere a contratti atipici, ora è completamente sradicata, dimenticata, cancellata, allontanata dal vocabolario della Pubblica Amministrazione.
Ora voglio proprio vedere come gli enti pubblici riusciranno ad erogare i servizi, stare vicino al territorio, espletare il loro determinato lavoro con il personale che hanno attualmente e senza la possibilità di assumere ulteriori risorse...
Come faranno a rispettare il Patto di Stabilità, il blocco delle assunzioni nella PA e il tetto per le spese del personale imposto dalla stessa Finanziaria!

Ridiamo... o meglio, iniziamo a piangere... mentre, grazie all'attuale governo, l'Italia va sempre di più non solo nella direzione opposta al futuro, ma anche al presente.


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Giangiacomo

lunedì 12 novembre 2007

Fiducia assoluta nella Polizia!

Fiducia assoluta nella Polizia e... a tutte le forze di pubblica sicurezza!

Solidarietà in toto visto le accuse vergognose di queste ore.

Sottolineo che per UNO SBAGLIO non si può mettere sotto giudizio tutto il corpo di polizia e sopratutto, guardando dall'altra parte, non si è mai messo sotto VERO e CONCRETO giudizio dopo non UNO, ma MIRIADI SBAGLI da parte di altre forze (non istituzionali come ultras, extraparlamentari, noglobal).
Loro non sono lo Stato. E anche loro devono rispettare lo Stato.

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Giangiacomo

domenica 11 novembre 2007

Se ci fosse una educazione del popolo tutti starebbero meglio

L’Italia è attraversata da una grande emergenza.
Non è innanzitutto quella politica e neppure quella economica - a cui tutti, dalla destra alla sinistra, legano la possibilità di “ripresa” del Paese -, ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l’economia. Si chiama “educazione”. Riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l’educazione si costruiscela persona, e quindi la società. Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro. Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni dai nuovi pulpiti - scuole e università, giornali e televisioni - si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere. È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta. È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere. Ma la loro noia è figlia della nostra, la loro incertezza è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell’educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa. Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose. Perché l’educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. È la strada sintetizzata in un libro cruciale, nato dall’intelligenza e dall’esperienza educativa di don Luigi Giussani: Il rischio educativo. Tutti parlano di capitale umano e di educazione, ci sembra fondamentale farlo a partire da una risposta concreta, praticata, possibile, viva. Non è solo una questione di scuola o di addetti ai lavori: lanciamo un appello a tutti, a chiunque abbia a cuore il bene del nostro popolo. Ne va del nostro futuro.

Per info: www.appelloeducazione.it

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Giangiacomo

Spagna: cronache da una battaglia in corso

Con la legge del governo Zapatero sull’“Educazione alla cittadinanza”, lo Stato si appropria di un ruolo che non gli spetta: formare le coscienze. Ma famiglie e insegnanti non ci stanno. Così nasce un confronto che sta animando aule, piazze e giornali di Madrid e dintorni. Ma che ci riguarda tutti
di Ignacio Santa María

Durante la primavera del 2006 fu approvato il grande progetto educativo del governo socialista di José Luis Zapatero: la Legge Organica di Educazione (Loe). La principale novità che comportava era la comparsa di una nuova materia obbligatoria chiamata Educación para la Ciudadanía (EpC,Educazione alla cittadinanza). Era stata proposta da persone che non avevano mai nascosto il loro obiettivo: la formazione dei valori morali degli studenti. Fino a quel momento nella scuola, tanto in quella pubblica quanto in quella di iniziativa civile, avevano convissuto la Religione e l’Etica come materie facoltative. Il nuovo sistema, in pratica, comportava una riduzione delle ore di insegnamento religioso e l’introduzione in tutte le classi primarie e secondarie della materia obbligatoria da poco istituita.Gli iniziali timori di molti genitori e docenti sono stati presto confermati dalla pubblicazione dei reali decreti che ponevano le basi del nuovo insegnamento, con il quale lo Stato si è appropriato di un ruolo che non gli spetta: quello di soggetto educatore e formatore delle coscienze. Inoltre, ciò avviene per mezzo di un repertorio per nulla neutrale, volendo imporre una visione ridotta dell’uomo, partendo da presupposti come il relativismo culturale, il laicismo o l’ideologia del “genere”.Soltanto pochi mesi prima dell’approvazione della legge, il 12 novembre 2005, nelle strade di Madrid si protestava contro i piani educativi del governo e contro la materia al centro della polemica. Tra la sorpresa generale, una piattaforma creata ad hoc da varie organizzazioni di genitori e insegnanti era riuscita a riunire un milione di persone nel centro della capitale per chiedere che il progetto fosse ritirato.In questo contesto alcune persone di Cl, ognuno nel suo ambiente e a titolo personale, hanno cominciato a prendere l’iniziativa. Dapprima molto semplicemente, stabilendo un dibattito nel proprio ambiente di lavoro. Diversi professori, ad esempio, non soddisfatti delle interpretazioni e delle risposte ottenute, si sono messi a studiare direttamente i testi dei decreti, cercando altri amici o colleghi e scambiandosi articoli e commenti per e-mail.L’inquietudine iniziale si stava trasformando in interesse concreto: da peso aggiunto alla propria vita, la nuova materia è diventata piuttosto un’occasione di giudizio personale e di lavoro comune.Così, ad esempio, nella scuola John Henry Newman di Madrid si sono organizzate riunioni partendo dalla lettura de Il rischio educativo. Il direttore, Juan Ramón de la Serna, spiega che il libro di don Giussani apre un «orizzonte che permette di abbordare adeguatamente tutte le preoccupazioni educative, tanto quelle personali come quelle della scuola o le sfide politiche e sociali come l’Educazione alla cittadinanza».
Prime manifestazioni pubbliche

Questo lavoro è sfociato in un incontro pubblico, organizzato in collaborazione con i genitori, la parrocchia e altre realtà educative del quartiere, per rispondere alle molteplici richieste di un giudizio chiaro sul caso concreto. All’inizio del corso, Ana Llano, docente di Diritto all’Università Computense, ne discusse con una collega di Diritto processuale, Maite Padura, che esprimeva tutta la sua preoccupazione per la nuova materia. Decisero insieme di occuparsene e di parlarne con altri amici. Organizzarono così due incontri nella Facoltà di Diritto, a cui invitarono importanti personalità dell’ambiente politico e giuridico.Nel frattempo l’Associazione culturale Charles Péguy, preparava un seminario sullo stesso argomento con alcune tra le personalità più significative della battaglia culturale sulla nuova materia, tra cui Ignacio Carbajosa, docente della Facoltà di Teologia di San Dámaso, intervenuto sui “Presupposti antropologici e culturali dell’Educazione alla cittadinanza”. Una posizione creativa che, partendo da una provocazione concreta, cerca di approfondire la concezione dell’uomo e della società che la muove, non poteva altro che esser salutare per tutti. Perfino per la Conferenza episcopale, che ha deciso di distribuire il testo a tutti i vescovi.
Tendere a un giudizio comune

Contemporaneamente i vescovi spagnoli, molto attivi nel rifiutare la nuova materia, definivano la loro posizione in una nota e in seguito in una dichiarazione, due documenti che hanno offerto una indicazione chiara e la possibilità di un dialogo diretto sempre animato dalla tensione verso l’unità ecclesiale.Da parte loro, altre comunità di Cl in varie zone della Spagna hanno organizzato incontri a proposito dell’introduzione della EpC.Anche se le iniziative e i dibattiti si moltiplicavano, si avvertiva comunque che mancava ancora qualcosa. Tanti contributi non erano ancora espressione di un giudizio comune. «Volevamo formulare un giudizio comune più chiaro - ricorda Ana Llano - che offrisse pubblicamente il nostro contributo all’emergenza educativa attuale. Per questo ci siamo messi a lavorare insieme».Un gruppo di professori, docenti universitari ed esponenti del mondo politico e sociale sono stati la genesi del secondo manifesto della piattaforma Tiempo de educar presentato all’inizio dell’anno scolastico con un titolo provocatorio: “Il miglior modo di difendere la libertà è esercitarla”.Mari Carmen Carrón e Soledad de las Hazas, due insegnanti, da circa due anni stanno affrontando i contenuti concreti della materia e il problema dei nuovi libri di testo.Così commenta Soledad: «Questo dibattito mi ha messo a confronto con posizioni diverse, a partire dalla mia esperienza e arrivando a un giudizio comune con altre persone di formazione culturale diversa dalla mia, ma interessate al problema educativo. Leggendo la normativa, le dichiarazioni dei sostenitori della materia, quello che dicevano le associazioni a essa contrarie, osservando l’atteggiamento delle scuole… Tutto mi ha spinto a confrontare la mia esperienza con la proposta altrui e a imparare un sano realismo che tenga conto di tutti i fattori in gioco. È uno dei vantaggi di un giudizio comune».
Un volto che introduca una novità

Molto prima delle leggi di Zapatero era già evidente l’“emergenza educativa” nella società spagnola: il relativismo, la rinuncia di molti genitori a educare, l’annullamento del desiderio degli allievi, la noia, erano già sotto gli occhi di tutti. Comunque, è chiaro che non c’è niente che possa impedire una libertà in azione e una responsabilità che si gioca in prima persona, soprattutto là dove esistono esperienze educative vere, e quindi irriducibili. Per questo, in mezzo a una battaglia a volte dura e aspra, la gente cerca un volto che introduca una novità, un volto che si incarna in luoghi, opere, relazioni e persone che si mettono a disposizione di tutti.
Il manifesto di Tiempo de educar vuol dire a tutti che in ogni situazione è possibile costruire e creare opere che «educhino il cittadino» alla sua irrinunciabile libertà.

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Giangiacomo

sabato 10 novembre 2007

Il Papa non è buonista. L’accoglienza non prescinde dalla sicurezza

La polemica fra Pier Ferdinando Casini e alcune frange del mondo cattolico accusate di “buonismo” per il loro atteggiamento nei confronti degli immigrati ha indotto molti a leggere con attenzione le poche ma importanti parole dedicate da Benedetto XVI alla questione dell’immigrazione nell’Angelus di domenica scorsa. “Auspico – ha detto il Papa – che le relazioni tra popolazioni migranti e popolazioni locali avvengano nello spirito di quell’alta civiltà morale che è frutto dei valori spirituali e culturali di ogni popolo e Paese. Chi è preposto alla sicurezza e all’accoglienza sappia far uso dei mezzi atti a garantire i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli”.
Parole, come si vede, molto chiare. Anzitutto, è impossibile impostare con serietà la questione dell’immigrazione se si rimane nell’angusto orizzonte del relativismo, secondo cui ogni popolo ha i “suoi” valori e non esistono valori universali e assoluti. Così, per esempio, il matrimonio monogamico sarebbe un valore attestato e vissuto da secoli in Occidente ma non si potrebbe, senza essere razzisti o imperialisti, imporlo a popoli che da secoli praticano la poligamia. E anche l’atteggiamento dei nomadi Rom sul rapporto con il territorio e la proprietà privata (altrui) avrebbe lo stesso intrinseco valore dei principi di legalità maturati dalla nostra cultura. Non è così. Tutto il magistero di Benedetto XVI insegna che un’autentica “civiltà morale” si costruisce intorno a un tessuto di valori che non sono propri di questo o di quel popolo, ma di “ogni popolo”. Principi come non uccidere, non rubare, non spacciare droga, rispettare il lavoro e la famiglia non sono europei o asiatici, italiani o balcanici, cristiani o buddhisti o atei: sono principi universali, che s’impongono a ogni persona umana in quanto persona. La Chiesa stessa non li indica come valori che deduce dal Vangelo: come Benedetto XVI ha ricordato tante volte, i valori universali possono essere riconosciuti dalla ragione a prescindere da ogni esperienza di fede, e dunque vincolano anche chi ha una religione diversa da quella storicamente maggioritaria in Italia o non ne ha nessuna, senza che questo vincolo costituisca un’oppressione delle minoranze o un’ingerenza della Chiesa nella vita sociale.
Dai valori universali che la ragione è capace di riconoscere discendono “diritti e doveri”. La “vera convivenza” non si può costruire sulla sola rivendicazione dei diritti. Occorre anche che le persone di cultura, lingua, abitudini e provenienza diversa che la globalizzazione porta a convivere sullo stesso territorio si riconoscano pure negli stessi doveri. Diversamente, la convivenza è sostituita dalla violenza e dallo scontro di tutti contro tutti.
Certamente sia nel patrimonio spirituale della Chiesa cattolica sia nell’ethos nazionale italiano è forte il senso dell’accoglienza del più povero e del più debole. Ma lo Stato non può orientare la sua politica dell’immigrazione al solo principio di accoglienza, e infatti Benedetto XVI menziona insieme “sicurezza e accoglienza”. Buonista è chi parla solo di accoglienza dimenticando la sicurezza, solo di diritti dimenticando i doveri, solo di minoranze dimenticando che esistono anche i diritti delle maggioranze, primo fra tutti quello a una vita sicura e a uno Stato che ci sappia proteggere dalla violenza quotidiana. Né sono sufficienti le belle parole. Il Papa ricorda che spetta a “chi è preposto”, cioè allo Stato, “fare uso dei mezzi adatti” perché anche la sicurezza, e non solo l’accoglienza, sia garantita. Mezzi adatti significa politica dell’immigrazione seria e non velleitaria e pasticciona come è purtroppo quella del governo Prodi, ma anche tribunali che funzionino e giudici che condannino. Il buonismo – anche di certi cattolici dalla lacrimuccia facile – è forse buono con il prepotente e il violento, ma è certamente cattivo con chi della prepotenza e della violenza è quotidianamente vittima.


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Giangiacomo

mercoledì 7 novembre 2007

Islamabad e il nuovo grande gioco del Cremlino

di Massimo Introvigne, Il Giornale, 7 novembre 2007
La proclamazione dello stato di emergenza da parte di Musharraf è stata preceduta, nel giro di un paio di mesi, da una serie di visite ufficiali di ministri russi, dall’annuncio della Gazprom di un investimento di quasi tre miliardi di dollari per la tratta pakistana del gasdotto Iran-India, e da una presa di posizione russa favorevole al passaggio del Pakistan da invitato a membro a pieno titolo della SCO, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, una sorta di NATO dell’Asia Centrale. Molti pensano in Pakistan che la mossa di Musharraf sia stata concordata con l’ex nemico Putin. L’Europa pensa spesso ai conflitti in Asia come a un teatro della nuova guerra mondiale fra l’Occidente e l’ultra-fondamentalismo islamico. È certamente così, ma dopo il crollo dell’impero sovietico la partita fra mondo libero e comunismo non è stata semplicemente sostituita da un altro gioco a due, in cui l’islam radicale ha sostituito il comunismo come avversario dell’Occidente. I giocatori sono più di due, e l’Asia lo dimostra. Nell’Ottocento Inghilterra e Russia zarista si sfidavano nel grande gioco per il controllo dell’immenso continente asiatico. Quando sembrava che l’Inghilterra avesse vinto, la Russia comunista occupò con una serie di guerre lampo gli staterelli islamici indipendenti dell’Asia Centrale e ricominciò il grande gioco, questa volta contro gli Stati Uniti e i loro alleati. Il grande gioco non è finito neppure ora. Le ambizioni imperiali di Putin si estendono a un grande fronte che parte dalla Bielorussia e dal Caucaso (di qui anche le agitazioni in Georgia) e si estende fino ai confini della Cina passando per l’Asia Centrale e il Pakistan. Conta su solidi amici nella stessa attuale coalizione che governa l’India, mentre riannoda antichi legami con Siria e Iran e corteggia i regimi militari post-comunisti dell’Indocina. Al “Grande Medio Oriente” di Condi Rice, Putin contrappone una sorta di ombrello protettivo che si disinteressa dei diritti umani e protegge
tutte le dittature disposte a riconoscere l’egemonia del Cremlino. Un grande gioco che oppone Putin agli Stati Uniti ma anche alle ambizioni della Cina (che però sembra meno attiva in Asia Centrale) e al fondamentalismo islamico che, se odia l’America, non ama certo la Russia e la sua politica in Cecenia. Un gioco denso di incognite, ma da cui l’Europa non ha nulla da guadagnare.

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Giangiacomo

domenica 4 novembre 2007

Cinque anni di resistenza culturale

Riporto l'editoriale di Angelo Crespi nell'edizione de Il Domenicale del 27 Ottobre, che celebra i 5 anni di attività della testata vicina a Il Circolo di Marcello Dell'Utri. Elabora un identikit dell'intellettuale italiano che condivido (oltre ad ammirare e sostenere il punto di vista di Crespi).

Cinque anni sono un periodo sufficientemente lungo per tracciare un bilancio del lavoro fatto. Circa 250 numeri pubblicati, per una rivista culturale che non insegue la cronaca, sono un patrimonio che può apparire esaustivo. In questo lustro così intenso, tutto quello che c’era da dire, il Domenicale lo ha detto. E forse è inutile ridirlo, come invece facciamo oggi in uno speciale monografico dedicato alla figura dell’intellettuale, in cui più per celia che per engagement mettiamo a fuoco idee che il lettore attento ha già rinvenuto in passato nei nostri articoli. Con il giusto orgoglio possiamo dire di essere resistiti, più che esistiti, nonostante tutto. E di aver affrontato con onesto sprezzo del politicamente corretto e delle ideologie che ci ammorbano da un cinquantennio i temi più importanti, i nodi irrisolti di questa nostra piccola patria. È sbagliato dire, come spesso usiamo lodandoci, che abbiamo partecipato al dibattito culturale e ne siamo diventati autorevoli protagonisti. Non esiste dibattito culturale in Italia, non esiste null’altro al di fuori del dibattito politico e di quello calcistico messi in scena sul palcoscenico televisivo. Non essendoci dibattito culturale, non ci sono neppure i protagonisti del dibattito né i deuteragonisti, non ci sono i luoghi, gli attori, le scene. Per questo ha senso parlare di “resistenza” piuttosto che di “esistenza”. La resistenza è comunque un atteggiamento di fiducia prodromico all’esistenza, resisto oggi per esistere domani. Non c’è però certezza che la resistenza conduca all’esistenza. Talvolta conduce alla frustrazione. Eppure al Domenicale siamo degli inguaribili ottimisti. L’ottimismo che ci proviene da quel realismo così frequentato in redazione. Siamo ottimisti per esorbitanza di realismo. Ed è proprio il realismo, non l’intelligenza o la dottrina, ad averci preservato dalle ideologie e dai luoghi comuni. Così nonostante i lai del politicamente corretto, ci vantiamo di aver difeso posizioni revisioniste sulla Resistenza, di aver posto molti paletti tra i ciechi fedeli del darwinismo, di aver tradotto il pensiero neoconservatore in barba ai progressisti, di non esserci sottomessi alle brutture dell’arte contemporanea, di non aver mai creduto alle cassandre ecologiste che vaticinano la fine del mondo, né ceduto alla moda dei best seller. Siamo orgogliosi di aver difeso le radici cristiane da laici e lo scontro di civiltà da amanti della pace, di aver difeso la libertà senza sfinirci nel liberalismo e le riforme senza chiuderci nel riformismo, consci che ogni etichetta è per sua natura solo una approssimazione statica del pensiero. Siamo orgogliosi di aver criticato da destra la destra, dal centrodestra il centrodestra, da sinistra la sinistra. Orgogliosi di aver dedicato centinaia di pagine alla poesia, alla critica letteraria, agli scrittori rifiutati dal mercato o dimenticati. Di esserci gettati a capofitto in inutili distinguo semantici, nei temi più lontani dalla quotidianità, in diatribe che non interessano più nessuno se non noi. Nel tempo della leggerezza, siamo stati pesanti. Noi che pure siamo degli inguaribili buffoni in privato, abbiamo in pubblico coltivato la serietà e la pesantezza. Che è giusto il contrario di quanto fanno gli altri: buffoni in pubblico per sottomissione alle devianze del secolo. Siamo stati pesanti e per questo non alla moda. Coscientemente pesanti per non essere alla moda. Come se la pesantezza in questo tempo non fosse un valore – soppiantata dalla vacuità del calcio e della politica in tv – ci hanno criticato per essere pesanti, non sapendo di fortificare il nostro orgoglio. Nel tempo della volgarità, della politica ignorante, della tv trash, dei miti esausti del pop, la vera cultura, quella della profondità e della conoscenza, è in disarmo. Coltivarla è un atto privato che forse non richiede neppure un settimanale. È un atto rivoluzionario, di conversione innanzitutto personale. Su questa strada abbiamo trovato numerosi anacoreti del pensiero come noi, amici e lettori che ci hanno sostenuto. Gente capace ancora di distinguere Rilke da Bob Dylan, la cattedrale di Chartes da una merda d’artista, Mozart da Tiziano Ferro, un eroe da un presentatore, il bello dal brutto, il buono dal cattivo, e di fondare la propria vita su valori tanto desueti. Molti, sbagliando, pensano che la vacuità della politica e dei mass media sia l’unica cifra della decadenza. Non è vero. Nei laboratori un nuovo pensiero forte si sta forgiando: scienziati addestrati all’arida esattezza dei numeri preparano l’evo dei titani che soppianterà politici e buffoni. I prossimi anni dominati dal titanismo della tecnica saranno sfavorevoli allo spirito e alla cultura. Eppure quanto più cresce la massificazione, scrive Jünger, tanto più grande è il valore e la forza spirituale di quei pochi capaci di sottrarvisi.

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Giangiacomo

sabato 3 novembre 2007

Senza la libertà di religione non c'è democrazia

Come ha ricordato la coraggiosa manifestazione “Salviamo i cristiani” dello scorso 4 luglio, promossa da Magdi Allam e da numerosi intellettuali e uomini politici, il rapimento di padre Bossi ripropone in modo drammatico il tema dell’intolleranza religiosa, in particolare verso i cristiani. Lo dice il documento di presentazione della manifestazione firmato, tra gli altri, oltre che da Magdi Allam, da Claudio Morpurgo vicepresidente Unione Comunità Ebraiche Italiane: “Come accaduto agli ebrei dei paesi arabi, oggi sono i cristiani ad essere minacciati nel loro diritto di esistere, nella loro volontà di rimanere fedeli alla propria tradizione”.
La difesa della libertà religiosa, in particolare dei cristiani che più di ogni altro difendono l’inviolabilità della persona, non è solo una questione umanitaria, bensì un criterio cruciale per interpretare tutta la politica internazionale. Alcuni recenti esempi riguardanti il Medio Oriente e il mondo musulmano lo dimostrano. Chi ha appoggiato gruppi fondamentalisti perché funzionali al suo disegno politico, infischiandosene della loro intolleranza in materia religiosa, nel lungo periodo, si è trovato di fronte ad amare sorprese. Basti pensare all’appoggio degli americani ai talebani afghani e a Bin Laden: l’intolleranza religiosa era il prodromo di una violenza a 360 gradi. E si ricordi anche l’irrisione dell’amministrazione Bush agli appelli di Giovanni Paolo II contro l’inizio del conflitto in Iraq, Paese in cui esisteva una pur non completa libertà religiosa e della Chiesa. Dopo pochi anni nel Paese mediorientale, non solo la comunità cristiana è a rischio di estinzione, ma vige una guerra civile di tutti contro tutti. Pretendere di esportare la democrazia occidentale senza far di tutto per garantire la libertà religiosa, si è rivelato totalmente astratto e ideologico. Si pensi ancora a cosa ha voluto dire, per la pace di tutti, consentire la distruzione e l’invasione di stati, come il Libano, in cui esisteva una convivenza pacifica, addirittura sancita dalla costituzione, tra cristiani e musulmani.
Ancora più deprecabile sul piano morale e più foriera di esiti disastrosi è però la posizione di chi, in nome di un multiculturalismo nichilista, continua ad abbracciare imam terroristi, a sostenere e finanziare gruppi integralisti come Hamas, Hezbollah o i governi sudanese ed iraniano, a equiparare gruppi terroristi a gruppi che vogliono la liberazione, senza tener conto della reale apertura di queste entità verso chi vive una diversa fede religiosa. Chi prende queste posizioni, di fatto diventa acquiescente verso il terrorismo e sostiene gruppi e regimi che calpestano la dignità di qualunque uomo. Perché chi si batte per la libertà religiosa e il diritto all’esistenza della Chiesa, come faceva Giovanni Paolo II, come continua a fare Benedetto XVI e come fanno i laici delle diverse religioni e posizioni culturali e politiche che hanno promosso la manifestazione del 4 luglio, non si impegna per difendere solo i “suoi”. Piuttosto è consapevole che “proprio dalla libertà di professare un’appartenenza religiosa, derivino la pace e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, primo fra tutti quello della sacralità della vita umana”.


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Giangiacomo

giovedì 1 novembre 2007

Un nuovo sindacato dei giovani

Il tema del lavoro giovanile è quotidianamente strumentalizzato.
In un sondaggio recentemente diffuso durante Porta a Porta dal quale emerge un dato importante:
solo per il 15% degli Italiani il sindacato rappresenta adeguatamente i lavoratori.

Aggiungiamo alcuni dati che evidenziano l'urgenza di rappresentanza per le nuove generazioni, nella convinzione di poter raccogliere alcune vostre riflessioni:
- gli iscritti al sindacato hanno un'età superiore ai 40 anni (dati Ires-Cgil);
- i giovani non partecipano ai tavoli della concertazione; - i giovani con contratti atipici non sono iscritti al sindacato;
- mentre l'occupazione in Italia aumenta il numero dei lavoratori attivi iscritti al sindacato e il tasso di sindacalizzazione (rapporto tra numero di occupati in un determinato settore e il numero di iscritti di quello stesso settore) sono in progressiva diminuzione; - in Italia il tasso di sindacalizzazione dal 1980 al 2003 è sceso di oltre il 19%;
- i dati dell'Inail sugli infortuni tra i giovani lavoratori indicano una vera emergenza: solo nel 2006 ci sono stati circa 695 infortuni al giorno che riguardano i giovani lavoratori;
- aumentano le tasse sul lavoro (aliquote contributive) dei parasubordinati ma la Gestione Separata dell'Inps (il salvadanaio previdenziale dei giovani con rapporti di lavoro flessibile) continua ad erogare le pensioni di anzianità;
- i figli sono più poveri dei padri. I giovani hanno buste paga decisamente più leggere dei padri e difficoltà crescenti nel costruirsi una carriera lavorativa che consenta il pieno sviluppo delle attitudini e delle capacità individuali";
- alla fine degli anni Ottanta le retribuzioni nette medie mensili degli uomini fra i 19 e i 30 anni "erano del 20% più basse di quelle degli uomini fra i 31 e i 60 anni. Nel 2004 la differenza era quasi raddoppiata in termini relativi, salendo al 35%. (fonte Bankitalia)
- il mercato del lavoro è diviso in due: ipergarantiti e iperflessibili. I diritti dei figli si possono allineare con quelli dei padri solo eliminando l'attuale dualismo del mercato del lavoro, diviso tra garantiti, gia' occupati e sindacalizzati, e nuove generazioni a rischio di emarginazione sociale;
- dati Eurostat, che prendono in considerazione la capacità di produrre reddito, evidenziano che il 27% dei giovani under 35 e il 20% delle giovani coppie sono indigenti ( sotto la soglia di povertà).

C'è una generazione che subisce delle discriminazioni e i sindacati stanno a guardare. Solo il coraggio dei giovani, spinto anche dalla necessità di migliorare la qualità della propria vita, può spingere verso la modernizzazione, ma occorre essere presenti ai tavoli giusti. Servono scelte in grado di abbandonare l'approccio ideologico al lavoro attraverso una nuova cultura.

Non credete che sia l'ora di dare vita ad un sindacato fatto di giovani e che agisca soprattutto per i giovani? Firmate anche voi su http://www.firmiamo.it/ilsindacatodeigiovani

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Giangiacomo