domenica 4 novembre 2007

Cinque anni di resistenza culturale

Riporto l'editoriale di Angelo Crespi nell'edizione de Il Domenicale del 27 Ottobre, che celebra i 5 anni di attività della testata vicina a Il Circolo di Marcello Dell'Utri. Elabora un identikit dell'intellettuale italiano che condivido (oltre ad ammirare e sostenere il punto di vista di Crespi).

Cinque anni sono un periodo sufficientemente lungo per tracciare un bilancio del lavoro fatto. Circa 250 numeri pubblicati, per una rivista culturale che non insegue la cronaca, sono un patrimonio che può apparire esaustivo. In questo lustro così intenso, tutto quello che c’era da dire, il Domenicale lo ha detto. E forse è inutile ridirlo, come invece facciamo oggi in uno speciale monografico dedicato alla figura dell’intellettuale, in cui più per celia che per engagement mettiamo a fuoco idee che il lettore attento ha già rinvenuto in passato nei nostri articoli. Con il giusto orgoglio possiamo dire di essere resistiti, più che esistiti, nonostante tutto. E di aver affrontato con onesto sprezzo del politicamente corretto e delle ideologie che ci ammorbano da un cinquantennio i temi più importanti, i nodi irrisolti di questa nostra piccola patria. È sbagliato dire, come spesso usiamo lodandoci, che abbiamo partecipato al dibattito culturale e ne siamo diventati autorevoli protagonisti. Non esiste dibattito culturale in Italia, non esiste null’altro al di fuori del dibattito politico e di quello calcistico messi in scena sul palcoscenico televisivo. Non essendoci dibattito culturale, non ci sono neppure i protagonisti del dibattito né i deuteragonisti, non ci sono i luoghi, gli attori, le scene. Per questo ha senso parlare di “resistenza” piuttosto che di “esistenza”. La resistenza è comunque un atteggiamento di fiducia prodromico all’esistenza, resisto oggi per esistere domani. Non c’è però certezza che la resistenza conduca all’esistenza. Talvolta conduce alla frustrazione. Eppure al Domenicale siamo degli inguaribili ottimisti. L’ottimismo che ci proviene da quel realismo così frequentato in redazione. Siamo ottimisti per esorbitanza di realismo. Ed è proprio il realismo, non l’intelligenza o la dottrina, ad averci preservato dalle ideologie e dai luoghi comuni. Così nonostante i lai del politicamente corretto, ci vantiamo di aver difeso posizioni revisioniste sulla Resistenza, di aver posto molti paletti tra i ciechi fedeli del darwinismo, di aver tradotto il pensiero neoconservatore in barba ai progressisti, di non esserci sottomessi alle brutture dell’arte contemporanea, di non aver mai creduto alle cassandre ecologiste che vaticinano la fine del mondo, né ceduto alla moda dei best seller. Siamo orgogliosi di aver difeso le radici cristiane da laici e lo scontro di civiltà da amanti della pace, di aver difeso la libertà senza sfinirci nel liberalismo e le riforme senza chiuderci nel riformismo, consci che ogni etichetta è per sua natura solo una approssimazione statica del pensiero. Siamo orgogliosi di aver criticato da destra la destra, dal centrodestra il centrodestra, da sinistra la sinistra. Orgogliosi di aver dedicato centinaia di pagine alla poesia, alla critica letteraria, agli scrittori rifiutati dal mercato o dimenticati. Di esserci gettati a capofitto in inutili distinguo semantici, nei temi più lontani dalla quotidianità, in diatribe che non interessano più nessuno se non noi. Nel tempo della leggerezza, siamo stati pesanti. Noi che pure siamo degli inguaribili buffoni in privato, abbiamo in pubblico coltivato la serietà e la pesantezza. Che è giusto il contrario di quanto fanno gli altri: buffoni in pubblico per sottomissione alle devianze del secolo. Siamo stati pesanti e per questo non alla moda. Coscientemente pesanti per non essere alla moda. Come se la pesantezza in questo tempo non fosse un valore – soppiantata dalla vacuità del calcio e della politica in tv – ci hanno criticato per essere pesanti, non sapendo di fortificare il nostro orgoglio. Nel tempo della volgarità, della politica ignorante, della tv trash, dei miti esausti del pop, la vera cultura, quella della profondità e della conoscenza, è in disarmo. Coltivarla è un atto privato che forse non richiede neppure un settimanale. È un atto rivoluzionario, di conversione innanzitutto personale. Su questa strada abbiamo trovato numerosi anacoreti del pensiero come noi, amici e lettori che ci hanno sostenuto. Gente capace ancora di distinguere Rilke da Bob Dylan, la cattedrale di Chartes da una merda d’artista, Mozart da Tiziano Ferro, un eroe da un presentatore, il bello dal brutto, il buono dal cattivo, e di fondare la propria vita su valori tanto desueti. Molti, sbagliando, pensano che la vacuità della politica e dei mass media sia l’unica cifra della decadenza. Non è vero. Nei laboratori un nuovo pensiero forte si sta forgiando: scienziati addestrati all’arida esattezza dei numeri preparano l’evo dei titani che soppianterà politici e buffoni. I prossimi anni dominati dal titanismo della tecnica saranno sfavorevoli allo spirito e alla cultura. Eppure quanto più cresce la massificazione, scrive Jünger, tanto più grande è il valore e la forza spirituale di quei pochi capaci di sottrarvisi.

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Giangiacomo

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