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sabato 15 gennaio 2011

Referendum Fiat...

Ha vinto il "Sì" fortunatamente
Con solo il 54% a favore

Al 46% dedico un pensiero... IGNORANTI!!

see u,
Giangiacomo

mercoledì 16 giugno 2010

Donne vanno in pensione più tardi: è meglio per tutti (soprattutto per loro)

Tanto tuonò che piovve. Giovedì, la Commissione Ue ha trasmesso al Governo una nuova lettera di messa in mora sull’antica e sempre attuale questione delle pensioni di vecchiaia nel pubblico impiego (quelle pagate dall’Inpdap).

La riforma 2009 sull’età pensionabile delle donne del pubblico impiego – ammonisce l’Ue – non costituisce «esecuzione completa e adeguata della sentenza della corte di giustizia europea» (causa C-46/07), perché durante il periodo di transizione, da 60 (2009) a 65 anni (dal 2018) per equipararla a quella degli uomini, persiste il trattamento discriminatorio (penalizzati gli uomini). Cosa succederà adesso? La via obbligata sembra quella dell’accelerazione del processo d’innalzamento del requisito d’età di pensionamento alle donne (informalmente, pare che la Commissione sia d’accordo ad aspettare al massimo il 2012).

Un punto sul quale ha messo le mani avanti il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, spiegando che prima intende «discutere, perché è giusto dare alle donne il tempo di organizzare il proprio percorso di vita». Qualcosa di più si saprà lunedì prossimo, quando incontrerà il commissario Vivian Reding a cui chiederà «una preventiva consultazione di tutte le parti sociali».

Il ministro della funzione pubblica, Renato Brunetta, ha evidenziato come «si sapesse già che la nostra risposta non era stata considerata sufficiente» e non ha escluso, invece, interventi rapidi: «abbiamo il veicolo della manovra e vedremo come rispondere alla commissione e alla corte di giustizia Ue». Ha rassicurato tuttavia che «il governo risponderà in maniera collegiale» riservandosi prima di leggere le motivazioni.

Se è vero che l’esperienza insegna, questa lunga storia sul pensionamento delle donne del pubblico impiego è una lezione spicciola ma efficace: le “iniziative” di riforma non portano da nessuna parte. Cinque anni di discussioni tra Ue e Governi italiani per risvegliarci stamattina di nuovo al punto di partenza. Anzi, in una situazione peggiore perché la Commissione adesso ha fatto la voce grossa e, senza mezzi termini, ha chiesto l’eliminazione della differenza di trattamento. Ciò che occorre(va) è un “progetto” di riforma, non interventi “spot” come è stato l’anno scorso e come in un primo momento era previsto anche nella manovra correttiva appena entrata in vigore. Perché è soltanto con un “progetto” di riforma che si può evitare «di concedere alle persone della categoria sfavorita (gli uomini, ndr) gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata (le donne, ndr)» – cioè abbassare l’età di pensionamento agli uomini o calcolare le pensioni agli uomini in considerazione della stessa età pensionabile delle donne (gli anni in più saranno risarciti?), come è sottolineato nella nuova lettera di contestazione della Commissione.

La questione è relativa alla pensione di vecchiaia del solo settore pubblico, nonostante lo stesso regime pensionistico viga pure nel settore privato ritenuto però legittimo. Ma perché la differenza? Perché c’è una differenza nella “natura” delle due pensioni: quella pubblica è “retributiva”; quella privata “assicurativa” (tipica cioè del sistema previdenziale). Con quella natura, la pensione erogata dall’Inpdap rientra pienamente nel campo di applicazione dell’articolo 141 del trattato Ue, in base al quale ciascuno Stato membro è tenuto ad assicurare la parità di retribuzione, tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, per uno stesso lavoro o per lavori di pari valore.

Nel 2005, la Commissione rileva che in Italia tale parità non è garantita nel settore pubblico (Inpdap) dalla presenza di diverse età di accesso alla pensione nel settore pubblico (60 anni le donne e 65 gli uomini). Per questo il 13 novembre 2008 arriva la condanna ufficiale della corte di giustizia. La Commissione chiede chiarimenti il 23 dicembre dello stesso anno e il 26 giugno 2009 invia la prima lettera di costituzione in mora. Il Governo risponde il 7 luglio 2009 spiegando di avere elevato l’età di pensione alle donne con una legge che introduce gradualmente, fino al 2018, l’innalzamento a 65 anni come prevista per gli uomini.

Per la Commissione la soluzione è inadeguata: durante il periodo transitorio continua a persistere il trattamento discriminatorio. Il Governo già sapeva. Sarà forse anche per questo se, nella manovra correttiva di questi giorni, ha fatto capolino una norma di accelerazione (un anno ogni 18 mesi, in luogo di due anni come previsto oggi) dell’equiparazione a 65 anni (dal 2018 al 2016), che poi però non è entrata nel testo finale di legge. A marzo scorso, infatti, il Governo viene informato che l’Ue è orientata a non archiviare la procedura d’infrazione, sulla base del fatto che l’intervento legislativo del 2009, pur se apprezzato perché avente effetti migliori rispetto a quelli delle misure prese da altri paesi coinvolti nello stesso contenzioso (Francia e Grecia), lascia tuttavia persistere la disparità di trattamento. E viene avvertito che, per questa ragione, l’Ue invierà una nuova lettera di messa in mora complementare (quella arrivata giovedì), ultimo stadio della procedura d’infrazione prima del deferimento alla corte di giustizia per la richiesta di sanzioni pecuniarie. Adesso che la lettera è arrivata, rincuora sapere che la Commissione nulla ha contestato sulla rimozione retroattiva della discriminazione, aspetto che in un primo momento pure era stato preso in considerazione. Rincuora perché, se fosse stato contestato, adesso c’era da ragionare sugli effetti retroattivi a risalire dal mese di maggio del 1990.

La nuova contestazione non riguarda il principio di gradualità, o per lo meno non esso in via esclusiva. La questione è una: la discriminazione deve essere eliminata. Ed eccoci di nuovo al punto di partenza.

E qui, cinque anni (il tempo in cui la querelle va avanti), è un periodo sufficientemente lungo per permettersi di ipotizzare e mettere in atto un “progetto” di riforma, cosa che adesso il Governo dovrà mettere giù in un paio di mesi (guarda caso, è lo stesso tempo a disposizione per la conversione in legge della manovra correttiva).

La Commissione Ue ha fornito all’Italia l’indirizzo giurisprudenziale esistente in materia, quasi ad avvertire sul come muoversi.

La Corte Ue ha già detto, per esempio, che «(…) una volta che una discriminazione in materia di retribuzione sia stata accertata dalla Corte, e fintantoché non siano state adottate dal regime misure che ripristinano la parità di trattamento, l'osservanza dell'art. 119 può essere garantita solo concedendo alle persone della categoria sfavorita gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata». E anche che «(…) qualora, dopo aver constatato una discriminazione, un datore di lavoro ripristini la parità per il futuro, riducendo i vantaggi della categoria privilegiata, la parità da conseguire non può essere soggetta a condizioni di gradualità, che si risolverebbero, anche se solo temporaneamente, in una conservazione della discriminazione». Ed infine che «(…) l'elevazione dell'età pensionabile delle donne al livello di quella degli uomini, decisa da un datore di lavoro per eliminare una discriminazione in materia di pensioni aziendali, per quel che riguarda le prestazioni dovute per periodi lavorativi futuri, non può essere accompagnata da provvedimenti, sia pure transitori, destinati a limitare le conseguenze sfavorevoli che tale elevazione può avere per le donne».

Come dire: a buon intenditore poche parole. Con questi avvertimenti, in conclusione, è il caso di correre ai ripari della rapida equiparazione dell’età pensionabile: 65 anni, alle donne, già dal prossimo anno. Le donne capiranno; e poi, è risaputo, il settore del lavoro pubblico è un ottimo ammortizzatore sociale.

see u,
Giangiacomo

domenica 12 luglio 2009

Ho conosciuto l'ideologia in persona!

Grazie alla mia manager, ho avuto modo di partecipare Lunedì scorso, 6 Luglio 2009, all'Assemblea dei Soci dell'Unione Industriale di Torino.

Curiosa, interessante, stimolante; è stato possibile ascoltare interventi che miravano a qualcosa di concreto... in particolare soluzioni concrete alla crisi economica e finanziaria nel territorio sabaudo.

Sedevo nell'ultima fila della Sala dei Duecento e davanti a me... Giorgio Airaudo, segretario provinciale della Fiom (Cgil). Prendeva appunti.

Nel corso del suo intervento, Giorgio Carbonato, Presidente dell'Unione Industriale di Torino, ha toccato il tema delle relazioni sindacali, tendendo le mani alle rappresentanze sindacali (rsu), chiedendo una collaborazione, una responsabilità attraversando insieme le difficoltà aziendali, chi in qualità di imprenditori, chi come lavoratori.
Ultimo passaggio, chiedeva di ipotizzare modalità simili a quanto avviene già negli USA (esempio noto quello di Chrysler): associazioni di lavoratori e sindacali all'interno dei cda, board, consigli di gestione e sorveglianza delle aziende allo scopo di prendere insieme determinate decisioni sulla vita societaria.


Ho provato tristezza e una tremenda arrabbiatura vedere che questo uomo (il termine "uomo" è un complimento perchè personaggi di tale rango non arriverebbero alla più bassa casta del mondo induista indiano e non sarebbero quindi considerati persone) ostentava il suo disappunto, bofonchiando qualcosa, scuotendo con forza la testa e in ultimo alzandosi, uscendo e gesticolando nei corridoi con un altro giovane sindacalista (giovane, quasi 70 anni...) facendosi notare dal pubblico, hostess e sicurezza.

Perchè tristezza e arrabbiatura?
Perchè quella rappresentava e rappresente l'ideologia, il pregiudizio, il preconcetto, modalità umana più lontana dal mio cuore e dal mio pensiero. il falso, il male, l'errore...

Quell'essere lì dovrebbe rappresentare migliaia di lavoratori e perseguire il loro bene? partecipare a discussioni (per lui, lotte) in un periodo di mercato così nero e dove uomini (veri) e famiglie rischiano il proprio lavoro?!?

Assurdo

Ma perchè "caro" airaudo (caro perchè costi ai tesserati cigiellini...) non pensi prima alla proposta che viene elaborata da una Emma Marcegaglia (una tigre straordinaria, il suo intervento è stato straordinario duro e chiaro) e da un Giorgio Carbonato? perchè non valuti? non comprendi meglio quale può essere la trattativa più corretta, più diplomatica?
Esiste la mediazione... mediazione mirata alla ricerca del effettivo bene comune (che potrebbe non coincidere con la miglior posizione per la Fiom...)
No, non riesci proprio... l'ideologia in persona, che in te si incarna, non riesce a farti abbattere il muro mentale e a farti fare un passo in avanti...

peccato... un'ulteriore occasione mancata!

a questo punto, mi chiedo come mai non sei rimasto a dormire lo scorso lunedì mattina o non l'hai impiegata ad urlare alle masse...
tanto sei solo venuto a scaldare la sedia (già calda considerata la temperatura torinese di luglio) e con i tappi nelle orecchie...

see u,
Giangiacomo

sabato 28 giugno 2008

Le cinque bugie del sindacato sugli stipendi

Vediamo di mettere un po’ d’ordine in questo pasticciaccio dell’inflazione programmata, da cui sta scaturendo una bagarre politica incredibile. E c’è da scommetterci che oggi alla ripresa delle trattative con Confindustria, il sindacato la utilizzerà per alzare le barricate. La sostanza è banale. I redditi dei dipendenti si possono alzare in modo uguale e uniforme per tutti legandoli all’aumento del costo della vita. Oppure, ed è il tentativo che sta portando avanti il governo, vincolando maggiormente gli scatti di retribuzione alla produttività aziendale, agli utili dell’impresa in cui si lavora, al merito individuale. L’inflazione tout court resta una brutta bestia, la peggiore per un’economia.
I prezzi salgono e tutti fanno comprensibilmente a gara per mantenere il proprio potere d’acquisto: nascono le rivendicazioni salariali, i costi lievitano, i prodotti aumentano di prezzo, autonomi e professionisti alzano le pretese e il circolo vizioso in cui tutti perdono si innesca. L’«inflazione programmata» è al contrario una balla: è un numeretto che dal 1993 compare nei documenti contabili del governo e che rappresenta un obiettivo. Il problema è che da almeno dieci anni, con l’avvento dell’euro, gli Stati nazionali hanno le armi spuntate per combatterla: posto che quantità di moneta e tassi di interesse si stabiliscono a Francoforte. Gli Stati nazionali possono tenere a bada il costo della vita solo favorendo maggiore competizione nei settori protetti, mantenendo così sotto controllo i prezzi. Al contrario alcune sciagurate scelte nazionali del passato concorrono a tenere acceso il fuoco: nell’ultimo anno l’energia elettrica è cresciuta nell’area euro del 4, 3 per cento, mentre da noi, senza nucleare, è balzata del 9, 2 per cento.
Ma ritorniamo al nostro pasticciaccio. Il governo ha mantenuto la previsione prodiana dell’inflazione programmata all’1, 7 per cento, ben al di sotto di quella registrata a maggio dall’Istat. Non si tratta di una novità. Tutti i governi hanno programmato inflazioni inferiori a quelle che poi si sono verificate. Questo numeretto parzialmente inutile ma fortemente evocativo fa i conti con la politica monetaria della Banca centrale europea. Che per statuto combatte affinché i prezzi non salgano più del 2 per cento l’anno.Un’opposizione e un sindacato a corto di argomenti hanno colto l’occasione al volo. Per Epifani segretario della Cgil «un salario di 25mila euro annui perderà mille euro nel biennio». Per Veltroni «il governo è riuscito, nel giro di un mese, a riprecipitare l’Italia nel suo passato». L’idea di fondo è quella di ricreare un legame forte tra opposizione e sindacati, per cercare quel consenso in piazza perso nelle urne.
Ma ci sono alcuni numeri che solo poche settimane fa il governatore della Banca d’Italia ha letto, che dovrebbero mettere a tacere per sempre queste polemiche.Tra il 1992 e il 2007 le retribuzioni in Italia sono cresciute in termini reali del 7, 7 per cento: meno di mezzo punto all’anno. Sono cresciute poco, ma comunque più dell’aumento del costo della vita programmato e reale. Se si continua a guardare il dito (l’inflazione programmata o reale) si rischia però di fare la figura dei fessi. Il punto è che in quindici anni i lavoratori italiani hanno visto i propri stipendi crescere comparativamente meno di quelli europei. Sono stati più che protetti dall’inflazione ufficiale. Ma la produttività del sistema non è cresciuta e dunque nessuna beneficio è arrivato in busta paga. Anzi, nota Mario Draghi, «nel decennio la crescita delle retribuzioni è stata superiore, a quella stagnate, della produttività del lavoro».
Il gioco ruota tutto intorno a questa micidiale illusione ottica. I sindacati vogliono spostare la trincea solo sul numeretto magico. Gridano allo scandalo per la sua esiguità. Ma fingono di dimenticare che esso non ha avuto nessun peso nei rinnovi contrattuali del passato e che la causa per la quale i salari italiani sono cresciuti poco non dipende dal mancato adeguamento dell’inflazione, ma dalla crescita zero della produttività.


see u,
Giangiacomo

mercoledì 14 novembre 2007

Pubbico impiego: un' assicurazione garantita sulla vita!

Indegno. Increscioso. Incredibile. In... si potrebbe continuare all'infinito, tanti sono l'indignazione e lo stupore.

La manovra Finanziaria 2007 vieta l'utilizzo di forme di lavoro temporaneo nella pubblica amministrazione.

Ed è così che... l'impiegato pubblico italiano sarà l'ultima figura professionale su tutto il globo a poter godere di assoluta inamovibilità (non potrà essere licenziato, mai!), di cassa integrazione e mobilità, della pensione (pagata da noi contribuenti), di soli contratti a tempo indeterminato - che invidia! -.
L'impiegato pubblico italiano non dovrà fare mai i conti con la concorrenza estera, nè interna, non avrà problemi di produttività!
Sarà sempre tutelato da qualsiasi ammortizzatore fiscale.
Insomma, l'impiego sicuro e stabile a vita!


Il povero tapino che si trova a lavorare per una società di 400 dipendenti, ma - terribile colpa - privata (magari con contratto nazionale Terziario e commercio, il più utilizzato in Italia)
potrà essere licenziato con giusta causa e facilmente;
potrà essere assunto a tempo determinato, con contratto a progetto, in somministrazione;
dovrà rispettare degli obiettivi (produttività del dipendente);non avrà mai diritto alla cassa integrazione e quindi all'indennità di mobilità;la sua pensione non è nè sarà sicura;
dovrà fare i conti con la concorrenza estera (multinazionale, mercato cinese)
dovrà fare i conti con la concorrenza nazionale.

ora... ragioniamo...


La sinistra massimalista è riuscita addirittura a stroncare un emendamento del "compagno" (ma non abbastanza) Treu, illustre inventore del lavoro ex "interinale", e, a prescindere da ogni logica, a vincere ancora!
E così la flessibilità (badate, parlo di flessibilità e non di precariato), la modalità con cui per picchi di lavoro o significativi progetti stagionali il piccolo Comune o la grande Regione potevano ricorrere a contratti atipici, ora è completamente sradicata, dimenticata, cancellata, allontanata dal vocabolario della Pubblica Amministrazione.
Ora voglio proprio vedere come gli enti pubblici riusciranno ad erogare i servizi, stare vicino al territorio, espletare il loro determinato lavoro con il personale che hanno attualmente e senza la possibilità di assumere ulteriori risorse...
Come faranno a rispettare il Patto di Stabilità, il blocco delle assunzioni nella PA e il tetto per le spese del personale imposto dalla stessa Finanziaria!

Ridiamo... o meglio, iniziamo a piangere... mentre, grazie all'attuale governo, l'Italia va sempre di più non solo nella direzione opposta al futuro, ma anche al presente.


see u,
Giangiacomo