lunedì 8 ottobre 2007

L'orrore rosso della Birmania è già scomparso dai giornali

di Massimo Introvigne, Il Giornale, 8 ottobre 2007
Abbiamo già dimenticato la Birmania? Dopo le dimostrazioni, l’invito a esibire indumenti rossi per solidarietà con i monaci e qualche minuto di gloria sulle prime pagine dei giornali, la repressione sta lentamente scivolando nelle pagine interne. Poi sparirà del tutto. L’orrore del carcere, della tortura e della fame quotidiana di un regime post-comunista non fa notizia. L’agenzia cattolica Asianews è rimasta quasi sola a descrivere «la
rabbia e la delusione» dei birmani che si sentono presi in giro dalle istituzioni internazionali. L’inviato dell’Onu, l’ex ministro degli Esteri nigeriano Ibrahim Gambari, è stato trattato più o meno come una pezza da piedi dal sanguinario generale Than Shwe. Dimostrando di non temere le Nazioni Unite i generali post-marxisti di Rangoon hanno continuato con una repressione peggiore di quella del 1988. Secondo il governo birmano la repressione ha fatto «solo» venti morti, ma le ambasciate straniere lasciano filtrare da Rangoon cifre ben diverse, e secondo le organizzazioni umanitarie sono «sparite» almeno seimila persone, di cui 1.400 monaci. Certo, c’è stato qualche appello, qualche blanda minaccia di sanzioni. Ma gran parte dell’Occidente si è ritirato in buon ordine dopo che con il regime si sono schierate la Cina e la Russia. La Cina ha fame di petrolio, e le serve anche quello birmano. Del resto, la giunta militare di Rangoon si è tutta formata in un partito che cantava le lodi di Mao Tze-Tung. La Russia non ha interessi significativi in Birmania, ma da qualche tempo ogni scusa per dar fastidio agli Stati Uniti è buona. In più, se si comincia a parlare di dittature, Putin teme che qualcuno gli chieda conto di quella, a lui fedelissima, della Bielorussia, l’ultimo regime dittatoriale europeo, un coltello insanguinato piantato nel cuore del nostro continente. Resterebbero i marciatori della pace e le sinistre umanitarie, che dopo avere versato una lacrima per i monaci birmani sono presto tornate alle loro cause preferite. Ad Assisi si sta per marciare citando sì la Birmania ma insieme ai soliti palestinesi, così mettendo sullo stesso piano la democrazia israeliana che cerca di proteggersi dal terrorismo e la macabra dittatura di Rangoon. Né si è visto per la Birmania nulla di simile alle manifestazioni oceaniche che i pacifisti senza se e senza ma non dimenticano mai d’inscenare quando si tratta di attaccare gli Stati Uniti. E ai monaci e ai laici birmani, in via di sparizione anche dai telegiornali, rimangono appunto solo gli Stati Uniti, l’unico Stato che continua a fare pressioni sul regime ed è pronto a imporre sanzioni unilaterali. Da solo, però, Bush può fare ben poco. E tra quelli delle bandiere arcobaleno è già scattato il riflesso condizionato secondo cui ogni causa
sostenuta da Bush deve avere comunque qualcosa di sbagliato.

see u,
Giangiacomo

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Rangoon è comunista, ma non si dice

di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 6, numero 40, 6 ottobre 2007)

La Birmania (il nuovo nome imposto dal regime, Myanmar, è inviso alla popolazione e Bush giustamente si rifiuta di usarlo) è stata per decenni nei libri gialli la terra del mistero per antonomasia. Bastava introdurre nella trama una spada birmana o un veleno birmano per spaventare i lettori. Uno dei più geniali creatori di gialli del XX secolo, Léo Malet (1909-1996), confessava di avere dato al proprio investigatore privato il nome Nestor Burma proprio perché certo dell’effetto che la parola Burma, Birmania, avrebbe immediatamente creato fra i lettori.

La Birmania rimane poco conosciuta ancora oggi, né aiutano i telegiornali e i talk show. Abbiamo sentito in Italia telegiornali e trasmissioni di ogni tipo parlare della “dittatura” birmana senza spiegare quale sia la sua matrice ideologica. Un telespettatore distratto potrebbe pensare che si tratti della riedizione della dittatura filippina di Ferdinand Marcos (1917-1989). La reticenza deriva forse più dalla situazione politica italiana che da quella birmana. Finché c’erano l’Unione Sovietica e il Muro di Berlino i generali che governano la Birmania dal 1962 si sono proclamati orgogliosamente comunisti e hanno infarcito i loro proclami sulla “via birmana al socialismo” di citazioni di Karl Marx e Lenin. Tra il 1988 e il 1990 si è compiuta – in evidente simmetria con quanto avveniva in Europa – una transizione dal “Partito del Progetto Socialista” al “Consiglio per la Legge e l’Ordine”, dal 1997 “Consiglio per la Pace e lo Sviluppo”. Sono cambiati, tuttavia, quasi solo i nomi. Le gerarchie del partito sono rimaste sostanzialmente le stesse. Se il vecchio presidente, il generale Ne Win (morto nel 2002), è stato messo a riposo, l’attuale capo dello Stato, il generale Than Shwe, aveva già guidato come disciplinato militare marxista la repressione dell’insorgenza democratica del 1988. Quasi tutti i ministri sono militari e facevano già parte del partito al potere quando questo si dichiarava apertamente comunista. L’unica modifica degli anni 1990 è stata l’apertura alle multinazionali straniere, ma questa c’era e c’è in altri Paesi comunisti. La repressione della società civile continua a essere feroce, e l’economia è ampiamente nelle mani dello Stato. Un regime postcomunista, dunque: ma “post” solo nel senso che si vergogna della parola “comunismo”, non della sostanza. In Italia ha interesse a tacerne la matrice marxista chi non ha neppure il pudore di vergognarsi della parola.

Anonimo ha detto...

Birmania, gli errori dell'opposizione
di Massimo Introvigne, 11 ottobre 2007
L’opposizione democratica birmana ha ragione quando è scettica sulle sanzioni europee – troppo poco e troppo tardi, quando il peggio per il regime sembra passato – ma dovrebbe riflettere anche sui suoi errori. L’ammirazione per il coraggio della carismatica guida della protesta, Aung San Suu Ky, e per i monaci buddhisti è fuori discussione. La maggioranza della popolazione è con loro. Tuttavia da vent’anni non ottengono nulla: non solo per la forza brutale della repressione, ma anche perché si ostinano a commettere gli stessi errori.
L’opposizione birmana è disunita. E i generali post-comunisti hanno sempre vinto usando una strategia antica come il mondo: se gli oppositori sono divisi, dividiamoli ancora di più. Da quando è andata al potere con il colpo di Stato del 1962, prima e dopo la ristrutturazione del regime del 1988-1990, la banda di generali comunisti che opprime la Birmania ha dovuto fare i conti con due nemici: l’opposizione democratica di etnia birmana, che ha il suo centro a Rangoon ed è raccolta intorno alla Lega per la Democrazia di Aung San Suu Ky e ai grandi monasteri buddisti, e l’opposizione etnica. Sia la monarchia che ha unificato la Birmania nell’undicesimo secolo, sia gli inglesi che l’hanno controllata dal 1885 al 1947 hanno esercitato un controllo poco più che nominale sulle zone abitate da minoranze etniche non birmane, che costituiscono l’ottanta per cento del paese e ospitano il quaranta per cento della popolazione. Il fatto che gli inglesi abbiano arruolato nel loro esercito soprattutto esponenti delle minoranze, meno interessate all’indipendenza dei birmani, e che alcune etnie minoritarie come i Karen al Sud e i Kachin al Nord si siano convertite in massa al cristianesimo ha acuito i contrasti rispetto all’etnia maggioritaria birmana.
Il movimento che ha portato all’indipendenza, guidato da Aung San (il padre di Aung San Suu Ky, assassinato nel 1947), aveva una classe dirigente di etnia birmana e un’ideologia nazionalista riassunta nello slogan della Birmania “una e indivisibile”. Si affermò venendo a patti con alcune minoranze, promettendo a tutte l’autonomia e una possibile futura indipendenza agli Shan (di etnia cinese, rafforzati da migliaia di profughi anticomunisti venuti dalla Cina e che controllano tradizionalmente il lucroso traffico dell’oppio) e ai Karenni (che occupano la regione che divide gli Shan dai Karen). Ma queste promesse non furono rispettate né dal governo democratico né da quello comunista, generando una dozzina di guerriglie separatiste che l’attuale regime ha sconfitto quasi ovunque ma che continuano a covare sotto la cenere.
La saldatura fra opposizione democratica e insorgenze etniche significherebbe la fine del regime post-comunista. Ma l’opposizione democratica, che si considera erede di Aung San e del suo modello di Birmania “una e indivisibile”, non ha intenzione di allearsi con i separatisti. Inoltre nel movimento democratico birmano sono decisivi (lo abbiamo visto) i monaci buddhisti, che diffidano dei leader cristiani delle insorgenze Kachin e Karen, per non parlare di quelli musulmani che alimentano il separatismo ai confini con il Bangladesh, più o meno invisi a tutti. Birmani contro minoranze etniche, buddhisti contro cristiani, buddhisti e cristiani contro musulmani. Finché tra i nemici del regime birmano permangono queste divisioni – certo non facili da superare – i generali rimangono al potere. Il vecchio motto “divide et impera” funziona anche a Rangoon.

Anonimo ha detto...

Perché non si dice che in Birmania governa un regime comunista?

Comunismo in Asia: Birmania-Myanmar

Perché l’indignazione per le crudeltà perpetrate dalla «dittatura» in Birmania si interrompono lì dove si si rende noto che il regime birmano è un tipico regime comunista? La Birmania (ribattezzata dal regime «Myanmar») è guidata da un gruppo di militari marxisti che promuove una disastrosa «via birmana al socialismo», imponendo un’economia rigorosamente collettivista che riduce il Paese alla fame.