sabato 25 agosto 2007

Quei giocattoli figli di una Cina senza diritti

Continuano negli Stati Uniti e in Europa i sequestri di prodotti cinesi, soprattutto giocattoli, che contengono componenti pericolose e persino potenzialmente velenose, o che non sono stati prodotti secondo le norme che proteggono i consumatori in Occidente. Il problema non è soltanto ecologico o economico: è anche politico e morale. Se ne discute da tempo fra organizzazioni favorevoli e contrarie a gesti di protesta in occasione delle prossime Olimpiadi di Pechino.
Nel nuovo capitalismo cinese, a successi straordinari si accompagnano tragedie come quella del lavoro minorile ad alto ritmo e del numero più alto del mondo di incidenti sul lavoro, spesso mortali. Una buona percentuale della popolazione ha un reddito sotto la soglia di sopravvivenza (un dollaro al giorno) fissata dal Fondo Monetario Internazionale; la disoccupazione reale è probabilmente al 20%; il numero di suicidi è altissimo e l’aspettativa di vita bassa perché non esiste più un’assistenza medica gratuita e molti si scontrano con il duro rifiuto degli ospedali di curare chi non può pagare, continuando a lavorare anche se le condizioni di salute lo sconsiglierebbero. È da questa fretta di obbedire al precetto del defunto riformatore Deng Xiaoping - «Arricchitevi» - che nascono anche i prodotti fatti male o pericolosi.
Molti in Cina rispondono che il loro capitalismo si ispira al modello statunitense, non a quello europeo. Ma in America un tessuto di leggi che in Cina non ci sono garantisce i diritti sociali, e in tanti settori - anzitutto quello sanitario - svolgono un’attività di supplenza le religioni e le Chiese (di cui l’ultimo, spietato film di Michael Moore si dimentica di parlare). Non è così in Cina, dove non esiste libertà religiosa, nonostante qualche apertura recente ancora troppo timida.
Forse si devono cominciare a esaminare insieme le tre dimensioni del problema Cina: economica, sociale e religiosa. L’errore di molti occidentali consiste nel separarle. Così a chi ha giustamente fretta di difendere i sacerdoti cattolici incarcerati, sembra una perdita di tempo parlare di economia; mentre a chi si preoccupa per l’invasione dei giocattoli pericolosi, quelli della libertà religiosa o dei diritti sociali appaiono problemi da idealisti. Non è così.
La strategia degli Stati Uniti, diversa da quella europea, mostra che solo picchiando là dove fa male - cioè organizzando puntuali campagne sulla situazione dei diritti umani in Cina - si crea un clima che costringe i cinesi a fare concessioni anche là dove si sentono più forti, cioè nel mercato globale e nei grandi numeri delle esportazioni.
Non si tratta dunque di cessare i rapporti con la Cina (una prospettiva suicida sul piano economico e commerciale, e oggi del tutto irrealistica) ma di muoversi sul piano internazionale della richiesta di controlli sull’esportazione cinese senza mai disgiungere le richieste dell’Occidente da rivendicazioni etiche. Il trattamento dei prodotti cinesi dovrebbe dipendere, oltre che ovviamente dalla loro conformità alle norme di sicurezza, da come la Cina tratta i suoi lavoratori, e non solo sul posto di lavoro ma anche in piazza e in chiesa. Gli accordi internazionali non consentono più dazi di tipo protezionistico. Ma si può pensare a un «dazio etico» come serie di misure che costringano la Cina a ripensare l’intera questione dei diritti umani, insistendo su quella dimensione etica del lavoro su cui anche nella recente lettera ai cattolici cinesi ha attirato l'attenzione Papa Benedetto XVI.

di Massimo Introvigne (il Giornale, 25 agosto 2007)

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Giangiacomo

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