martedì 21 agosto 2007

E ora Prodi si aggrappa ad Hamas

Passata l’ondata di più che giustificata indignazione, si può e si deve riflettere sulla cultura politica da cui nasce lo sciagurato invito di Prodi a trattare ora con Hamas.
Ci fu un tempo in cui l’idea di offrire ad Hamas la possibilità di trasformarsi da movimento terrorista in forza politica legittima poteva essere coltivata come sensata, e in effetti lo fu, sia negli Stati Uniti sia in Israele. Era il gennaio 2006, all’indomani della vittoria elettorale di Hamas in Palestina. Allora, discretamente e in parte anche pubblicamente, Condoleezza Rice propose ad alcuni leader di Hamas il coinvolgimento nel processo di pace, a tre condizioni: l’accettazione almeno degli accordi siglati in passato dall’Olp, il riconoscimento di Israele, e la rinuncia agli attacchi terroristici contro i civili.
Per la verità, in altri periodi della sua storia - quando trattava sottobanco con Sharon - Hamas, o almeno una sua frazione, avrebbe preso seriamente in considerazione un’offerta del genere. Nel gennaio 2006 non lo ha fatto, per una ragione essenziale. Ormai Hamas non è più un movimento nazionale palestinese, ma la sua dirigenza è teleguidata dall’Iran, il cui sostegno finanziario è necessario alla sua stessa esistenza in vita.
Qualunque cambiamento radicale della politica di Hamas dovrebbe essere approvato da Teheran - pena lo strangolamento economico - ed è evidente che né Ahmadinejad né Khamenei hanno interesse alla pace in Medio Oriente. Comunque sia, il tempo è scaduto.
Agli inizi del 2006 è suonata la campana dell’ultimo giro. Hamas è rimasto fermo (per ordine degli ayatollah iraniani) e ogni possibilità di trattativa è venuta meno. Il golpe a Gaza e la ripresa degli attentati terroristici hanno, evidentemente, sottolineato in colore rosso sangue quanto già si sapeva da oltre un anno.
Delle due l’una. O Prodi non sa o non capisce queste cose, e allora i suoi amici e alleati per primi dovrebbero mandarlo a casa perché rappresenta un pericolo per la credibilità internazionale e la sicurezza interna dell’Italia. Un argomento a favore di questa prima alternativa è la sua bizzarra accusa all’Unione Europea di non avere emanato quella direttiva sui Rom che non solo esiste, ma fu controfirmata proprio da un certo Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione di Bruxelles. La seconda ipotesi, più probabile, è che Prodi - come si dice volgarmente - non «ci sia», ma «ci faccia».
In realtà, il presidente del Consiglio sa benissimo che nell’agosto 2007 proporre un dialogo con Hamas rafforza il fondamentalismo e il terrorismo, irrita Israele, gli Stati Uniti e anche i presunti amici francesi e tedeschi, che con Hamas non vogliono avere niente a che fare. Tuttavia insiste, per due ragioni strategiche. La prima è - dopo tante figuracce - il tentativo di crearsi uno spazio in Europa come leader di un anti-americanismo islamofilo che ha perso il suo punto di riferimento, Chirac, e che Prodi ha nel suo Dna di cattolico democratico erede di Dossetti.
La seconda è rinsaldare l’asse preferenziale con Rifondazione e Comunisti italiani, da sempre amici di Hamas, e così garantire qualche mese di vita in più al suo governo, nonostante i malumori dell’ultra-sinistra sulla Finanziaria.
Nell’uno come nell’altro caso Prodi non ha partner in Europa se non in sinistre radicali e marginali.
E sacrifica gli evidenti interessi internazionali dell’Italia alle sue ubbie ideologiche e al suo tornaconto personale. Anche in questo caso, è essenziale mandarlo a casa al più presto.

see u,
Giangiacomo

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