domenica 20 maggio 2007

Il Pakistan discute se mettere a morte gli “apostati”

In urdu, lingua ufficiale del Nord islamico dell’India, la parola Pakistan significa “terra dei puri”. Nella terra dei puri si discute ora se dare la morte agli uomini e l’ergastolo alle donne nel caso in cui lascino l’islam. Sono le pene previste per gli apostati contenute nella proposta di legge sull’apostasia al vaglio della Commissione permanente del Parlamento pachistano.
Il testo è stato presentato al governo dalla Muttahida Majlis-i-Amal, l’alleanza dei partiti religiosi che lo ha approvato e inviato agli esperti della Commissione per la valutazione tecnica. L’arcivescovo di Lahore e presidente della Conferenza episcopale pachistana, Lawrence John Saldanha, parla della “talibanizzazione” del Pakistan. Mentre cade l’anniversario della morte di John Joseph, il vescovo suicidatosi nel 1998 per dimostrare al mondo il dramma della “legge sulla blasfemia”, il decreto che punisce chi offende l’islam, il Profeta e i suoi testi sacri. Nel frattempo le studentesse della Jamia Hafsa, la “madrassa rossa” di Islamabad, chiedono al leader della Grande moschea di Islamabad di emettere una fatwa contro la “moderazione” di alcuni esponenti musulmani che “diffonde solo oscenità nel paese”.
Tra le 13.500 scuole coraniche pachistane, roccaforti del culto jihadista che sostiene i talebani del nord-ovest, la Jamia Hafsa è divenuta famosa dopo che le sue studentesse avevano preso d’assalto una casa di piacere di Islamabad. Il mufti Maulana Abdul Aziz ha salutato nella preghiera del venerdì la nascita della prima corte islamica del paese all’interno della Lal Masjid, la Moschea rossa di Islamabad. Un sistema giuridico “parallelo” a quello federale, che segue i dettami del Corano.
E’ arrivata la prima fatwa contro Nilofar Bakhtiar, ministro donna del Turismo. L’accusa è di oscenità per una fotografia che la ritrae mentre dà un abbraccio di congratulazioni a un paracadutista. Una scuola femminile di Mardan ha ricevuto una lettera minatoria firmata da un gruppo di fondamentalisti islamici che annuncia “la demolizione dell’edificio” se le maestre e le alunne “continuano a non indossare velo e burqa”. E uno studente musulmano ha chiesto all’Alta corte pachistana di interrompere la costruzione di una chiesa all’interno dell’Università laica di Peshawar.
La legge contro la “blasfemia”, che consente di condannare a morte chiunque sia sospettato di aver offeso l’islam, fu introdotta dal generale Zia ul-Haq per compiacere i salafiti islamici. Nessuno dei suoi successori ha cercato di cancellarla. Non la “laica” Benazir Bhutto. Il primo condannato a morte per blasfemia, nel 1998, Ghulam Akbar, non era un cristiano ma un musulmano sciita. Secondo questa legge è reato affermare anche solo che “Gesù Cristo è figlio di Dio”. Il 18 novembre 1998, nove cattolici furono sgozzati a Noushera. Nel novembre 2001 quindici fedeli uccisi nella chiesa di San Domenico a Bahawalpur. L’immagine fece il giro del mondo: corpi avvolti in sudari bianchi. Il 9 agosto 2002, tre infermiere massacrate nella chiesa dell’ospedale cristiano di Islamabad. Il 25 settembre 2002, sette dipendenti di una organizzazione di carità di Karachi sono rapiti, legati, imbavagliati e uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Nella notte di Natale del 2002, durante la messa di mezzanotte, tre ragazze maciullate all’interno della chiesa protestante di Chuyyanwali e il 5 luglio 2003 un sacerdote cattolico viene assassinato nella sua parrocchia di Okara.
Dal 1988 a oggi oltre 650 cristiani sono stati incarcerati per la legge della blasfemia. Gli integralisti musulmani hanno giustiziato anche una ventina di “apostati”, tra cui Arif Hussain Bhatti, l’ex giudice della Corte Suprema divenuto coraggioso avvocato difensore di “apostati”. Svariati infine gli attentati kamikaze che hanno mietuto centinaia di vittime in chiese cattoliche e protestanti. Oltre alla vita della martoriata comunità cristiana, con la rivolta delle madrasse rosse e la minaccia di apostasia di stato è la stabilità del Pakistan ad essere in pericolo. Alleato degli Stati Uniti nella guerra contro l’internazionale del terrore, ma anche retrovia della cultura del martirio e della guerra qaidista.

Il Foglio

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Giangiacomo

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