martedì 22 maggio 2007

Come convivere laicamente con un papato di ferro (senza smarrirsi)

Un Papa bavarese, erede anche della stabilità e dell'ordine dei Wittelsbach; un Papa che ha studiato e lavorato un quarto di secolo a Roma, dove è succeduto infine nel terzo millennio a gente che veniva dalla Galilea, dal lago di Tiberiade; un Papa che parla direttamente con le sources chrétiennes, che maneggia la Bibbia dal Genesi a San Paolo, da Mosè a Gesù di Nazaret, che sa di greco e di latino da non-erudito, ellenizzato lui stesso e latinizzato nella storia europea; un Papa filosofo platonico e agostiniano, con un debito dissimulato anche verso Tommaso d'Aquino, l'omone di santo genio che ha insegnato all'occidente cristiano come si ragiona di tutto, dalle unghie dei risorti carnali allo spirito dello spirito: ecco, questo Papa ha parlato in Brasile al grande mondo dei semplici in tormento, e con quale chiarezza adamantina ha parlato. Così, ha parlato.
Il Papa è il vescovo successore di Pietro e fuori dalla comunione con lui non c'è tradizione o eredità cattolica, i preti si dedicano alla cura delle anime e non a quella delle loro famiglie, la verginità prima del matrimonio è un criterio da innalzare e non un costume da irridere, di famiglia ce n'è una sola e il divorzio ne devasta il significato, l'aborto uccide la maternità oltre che il frutto dell'amore, l'impegno sociale della chiesa è un diritto, Dio ha uno spazio che comprende la vita pubblica, la liturgia non è proprietà privata di nessuno perché "è" e basta, la fede troppo semplice e non sufficientemente evangelizzata e catechizzata non regge alla sfida della religiosità fai date, e le "delucidazioni" sull'incontro dei cristiani con Cristo è il centro del messaggio della chiesa universale.
La nostra anima perfettamente secolarizzata pensa: che bello stinco di reazionario, che pontefice antimoderno, quanti danni sta facendo Ratzinger alla nostra dolce convivenza con l'ideologia liberale che governa le nostre vite, quanto ci divide, che grossa spada sta portando nella pubblica arena. Il rispettabile cattolico post dossettiano alla Alberto Melloni pensa: che errore teologico e storico, la chiesa doveva liquefarsi nel secolo, abbracciarne come profetici segni dei tempi le abitudini e il modo di vivere, presentarsi come mondo tra i mondi e purificarsi nella nuova Pentecoste del Concilio della sua arroganza, dei residui di temporalismo, delle logiche di potere e di scambio costantiniano che ne limitano gravemente la capacità di parlare alla fede, alla sola fede che salva, quella privata e della comunità del popolo di Dio che non ha casa, in senso agostiniano, che vive in strada e si confeziona da solo, libero, il proprio senso profetico.
Io rispetto il pensiero degli altri, aspettando che maturi il rispetto per il pensiero o magistero di un Papa che mi piace, che sa dire quel che si deve dire a favore della ragione e contro il razionalismo astratto.
E non sono papista perché voglio "strumentalizzare la religione" (com'è sempre banale, piatto, il pensiero dell'onorevole Prodi, con tutti quei fratelli che sanno e che ragionano potrebbe informarsi almeno in famiglia!).
Sono papista perché sento con sempre maggiore chiarezza che qualcosa di serio e profondo non funziona nel nostro modo di vivere, e che la libertà di vivere come a ciascuno pare e piace, sacra in linea di principio, si sta rovesciando nell'obbligo di vivere come impone l'ideologia secolarista, sempre conformi a una linea di fatto.
Se ne può parlare liberamente, della verginità prima del matrimonio che suona ruralismo ideologico e proibizionismo urticante contro l'uso precoce dei sensi, suona proprio così al cospetto dell'amor civile celebrato con il divorzio in Piazza Navona, ma se ne può parlare soltanto se venga rispettato, compreso, accolto con simpatia e non con irrisione l'insieme del discorso pubblico nuovo della chiesa cattolica e di tante altre denominazioni, cristiane e non (penso alla sortita del rabbino Di Segni sull'omosessualità).
O i laici si aprono al confronto, e si reinventano, oppure asfaltano una brutta strada che sarà percorsa dal carrozzone dell'incomprensione, della rigidità ideologica, chiunque vinca alla fine, e sappiamo tutti che la vittoria vola per adesso sulle ali dispiegate dell'informazione di massa, della pubblicità di massa, della cultura di massa supersecolarizzata.
Ma per laici veri, vincere nel disonore di un mancato confronto, vincere non con l'ironia di una cultura che si contamina con quella più antica e più densa dei cristiani, vincere con la forza d'inerzia, non è un premio. È una condanna.


see u,
Giangiacomo

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