Benedetto XVI ha fatto sua la recente nota del consiglio permanente della Cei contro i progetti di legalizzazione delle coppie di fatto e ha definito il Family Day «una grande e straordinaria festa di popolo».
Il Papa è intervenuto ieri all’assemblea generale dei vescovi italiani, dopo averli incontrati personalmente tutti nei mesi scorsi. Ha detto che la Chiesa del nostro Paese è «una realtà di popolo, capillarmente vicina alle persone e alle famiglia», un «grande fattore unificante» per la nazione e ha spiegato che «c’è ancora tanta ricchezza, tanta vitalità di fede».
Per quanto riguarda, invece, i problemi esistenti, Benedetto XVI ha aggiunto: «Avvertiamo quotidianamente, nelle immagini proposte dal dibattito pubblico e amplificate dal sistema delle comunicazioni, ma anche, sebbene in misura diversa, nella vita e nei comportamenti delle persone, il peso di una cultura improntata al relativismo morale, povera di certezze e ricca invece di rivendicazioni non di rado ingiustificate».
Il Papa ha ribadito che «nel pieno e cordiale rispetto della distinzione tra Chiesa e politica», i vescovi non possono non preoccuparsi «di ciò che è buono per l’uomo», cioè «del bene comune dell’Italia», la nota della Cei sui Dico è «una chiara testimonianza» di questa attenzione, presa «in piena consonanza con il costante insegnamento» della Santa Sede.
Quindi Ratzinger ha accennato al Family Day, sottolineando che si è svolto «per iniziativa del laicato cattolico ma condivisa anche da molti non cattolici», ed è stata «una grande e straordinaria festa di popolo, che ha confermato come la famiglia stessa sia profondamente radicata nel cuore e nella vita degli italiani». Un evento, ha aggiunto, che «ha certamente contribuito a rendere visibile a tutti quel significato e quel ruolo della famiglia nella società che ha particolarmente bisogno di essere compreso e riconosciuto oggi, di fronte a una cultura che si illude di favorire la felicità delle persone insistendo unilateralmente sulla libertà dei singoli individui». Per questo, «ogni iniziativa dello Stato a favore della famiglia come tale non può che essere apprezzata e incoraggiata».
Ma il Papa ha assicurato che la stessa attenzione si «esprime nel servizio quotidiano alle molte povertà, antiche e nuove, visibili o nascoste» e ha chiesto ai vescovi di insistere in queste iniziative perché «tutti possano toccare con mano che non esiste separazione alcuna tra la Chiesa custode della legge morale», e la Chiesa che «invita i fedeli a farsi buoni samaritani, riconoscendo in ciascuna persona sofferente il proprio prossimo».
Il tema centrale dell’intervento papale è la missione, l’invito ad «annunciare e testimoniare il medesimo Gesù Cristo, sia i popoli che si stanno per la prima volta aprendo alla fede, sia i figli di quei popoli che ora vengono a vivere e a lavorare in Italia, sia anche la nostra gente» sottoposta «alla pressione di quelle tendenze secolarizzatrici che vorrebbero dominare la società e la cultura in questo Paese e in tutta l’Europa».
Dunque anche gli immigrati devono essere considerati destinatari dell’annuncio cristiano, perché la stima e il rispetto verso le altre religioni e culture, ha spiegato Benedetto XVI, «non può diminuire la consapevolezza dell’originalità, pienezza e unicità della rivelazione del vero Dio che in Cristo ci è stata definitivamente donata, e nemmeno può attenuarsi o indebolirsi la vocazione missionaria della Chiesa».
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Giangiacomo
giovedì 31 maggio 2007
mercoledì 30 maggio 2007
Il documentario sui preti pedofili: tante bugie sul caso O'Grady
Chi ha visto su Internet o vedrà in televisione il documentario "Sex Crimes and the Vatican" tratto dal programma Panorama della BBC rimarrà senz’altro colpito dalla sinistra figura dell’ex prete Oliver O’Grady. Il documentario si apre o si chiude con l’ex sacerdote irlandese, che ha vissuto negli Stati Uniti dal 1971 al 2000, ripreso mentre descrive in termini piuttosto espliciti come adescava le sue vittime e quali tipi di ragazzini gli piacevano. Queste riprese sono un pugno nello stomaco: ma sono, a loro modo, anch’esse una bugia.
Non si tratta infatti di uno scoop della BBC ma di sequenze tratte dal film del 2006 Deliver Us from Evil (“Liberaci dal male”) della regista Amy Berg. Un film tecnicamente ben fatto, che ha ricevuto perfino una nomination per l’Oscar, ma dove il ruolo di O’Grady ha sollevato molte perplessità fra i sociologi e i criminologi che studiano i casi di pedofilia di cui sono stati protagonisti sacerdoti. Infatti la collaborazione di O’Grady con Amy Berg non è stata gratuita. È la conseguenza di un accordo con gli avvocati delle sue vittime che – dopo che O’Grady era stato condannato nel 1993 a quattordici anni di reclusione – hanno citato per danni in sede civile la diocesi americana di Stockton, ottenendo trenta milioni di dollari ridotti poi a sette in secondo grado. Gli avvocati che attaccano le diocesi per responsabilità oggettiva di solito lavorano secondo il principio della contingency, il che significa che una buona parte delle somme finisce nelle loro tasche, secondo accordi che per di più sono tenuti nascosti alla stampa. O’Grady si è prestato alle video-interviste degli avvocati – e di Amy Berg – e in cambio essi non si sono opposti al suo rilascio dal carcere dopo sette anni, accompagnato dall’espulsione dagli Stati Uniti verso la natia Irlanda, dove oggi il pedofilo è un uomo libero. Molti hanno criticato la Berg per avere collaborato con un individuo i cui crimini sono francamente ripugnanti, e le cui blande espressioni di pentimento non appaiono sincere. Ma per chi vede il documentario della BBC l’importante è capire che le dichiarazioni di O’Grady s’inquadrano in un accordo con avvocati che avevano bisogno soprattutto di sentirsi dire che il sacerdote pedofilo era stato protetto dalla Chiesa, cui speravano di spillare qualche milione di dollari.
Uno sguardo ai documenti del processo civile di secondo grado – dove i danni sono stati ridotti a meno di un terzo – mostra che O’Grady non la racconta del tutto giusta. Egli afferma – con evidente gioia degli avvocati – che il vescovo di Stockton (e oggi cardinale di Los Angeles) Roger Mahoney sapeva che era un pedofilo e, nonostante questo, lo aveva mantenuto nel ministero sacerdotale. La causa racconta un’altra storia. Mahoney diventa vescovo di Stockton nel 1980. Tra il 1980 e il 1984 deve occuparsi di tre casi di preti accusati di abusi sessuali su minori. Fa qualche cosa che stupirà i fan del documentario della BBC: non solo indaga, ma segnala i sacerdoti alla polizia. In due casi la polizia conferma che, dietro al fumo, c’è del fuoco: e i sacerdoti sono sospesi a divinis, cioè esclusi dal ministero sacerdotale. Nel terzo caso, quello di O’Grady, la polizia nel 1984 archivia il caso e dichiara il sacerdote innocente. Mahoney si limita a trasferirlo, dopo che due diversi psicologi che lo hanno esaminato per conto della diocesi hanno dichiarato che non costituisce un pericolo. Tutti sbagliano: non solo perché già nel 1976 O’Grady aveva “toccato in modo improprio una ragazzina” (tutto si era risolto con una lettera di scuse e, contrariamente a quanto dice l’ex prete, gli avvocati non hanno potuto provare che il vescovo lo sapesse) ma perché si trattava di un soggetto pericoloso, che finirà arrestato e condannato.
Errori? Certo. Complotti? È un po’ difficile sostenerlo, dal momento che il vescovo e poi cardinale Mahoney – uno dei “cattivi” del documentario – di fronte a tre preti accusati di abusi nella diocesi ne sospende due dal sacerdozio ma non il terzo, fidandosi in tutti e tre i casi delle indagini della polizia e del parere degli psicologi. Mahoney avrebbe potuto fare di più? Certamente oggi, dopo anni di ricerca scientifica sul tema, la Chiesa spesso agisce in modo più radicale (e lo fa seguendo le direttive del cardinale Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi) di quanto non facesse nel 1984. Ma prendere per oro colato le bugie di un delinquente non è mai buon giornalismo.
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Giangiacomo
Non si tratta infatti di uno scoop della BBC ma di sequenze tratte dal film del 2006 Deliver Us from Evil (“Liberaci dal male”) della regista Amy Berg. Un film tecnicamente ben fatto, che ha ricevuto perfino una nomination per l’Oscar, ma dove il ruolo di O’Grady ha sollevato molte perplessità fra i sociologi e i criminologi che studiano i casi di pedofilia di cui sono stati protagonisti sacerdoti. Infatti la collaborazione di O’Grady con Amy Berg non è stata gratuita. È la conseguenza di un accordo con gli avvocati delle sue vittime che – dopo che O’Grady era stato condannato nel 1993 a quattordici anni di reclusione – hanno citato per danni in sede civile la diocesi americana di Stockton, ottenendo trenta milioni di dollari ridotti poi a sette in secondo grado. Gli avvocati che attaccano le diocesi per responsabilità oggettiva di solito lavorano secondo il principio della contingency, il che significa che una buona parte delle somme finisce nelle loro tasche, secondo accordi che per di più sono tenuti nascosti alla stampa. O’Grady si è prestato alle video-interviste degli avvocati – e di Amy Berg – e in cambio essi non si sono opposti al suo rilascio dal carcere dopo sette anni, accompagnato dall’espulsione dagli Stati Uniti verso la natia Irlanda, dove oggi il pedofilo è un uomo libero. Molti hanno criticato la Berg per avere collaborato con un individuo i cui crimini sono francamente ripugnanti, e le cui blande espressioni di pentimento non appaiono sincere. Ma per chi vede il documentario della BBC l’importante è capire che le dichiarazioni di O’Grady s’inquadrano in un accordo con avvocati che avevano bisogno soprattutto di sentirsi dire che il sacerdote pedofilo era stato protetto dalla Chiesa, cui speravano di spillare qualche milione di dollari.
Uno sguardo ai documenti del processo civile di secondo grado – dove i danni sono stati ridotti a meno di un terzo – mostra che O’Grady non la racconta del tutto giusta. Egli afferma – con evidente gioia degli avvocati – che il vescovo di Stockton (e oggi cardinale di Los Angeles) Roger Mahoney sapeva che era un pedofilo e, nonostante questo, lo aveva mantenuto nel ministero sacerdotale. La causa racconta un’altra storia. Mahoney diventa vescovo di Stockton nel 1980. Tra il 1980 e il 1984 deve occuparsi di tre casi di preti accusati di abusi sessuali su minori. Fa qualche cosa che stupirà i fan del documentario della BBC: non solo indaga, ma segnala i sacerdoti alla polizia. In due casi la polizia conferma che, dietro al fumo, c’è del fuoco: e i sacerdoti sono sospesi a divinis, cioè esclusi dal ministero sacerdotale. Nel terzo caso, quello di O’Grady, la polizia nel 1984 archivia il caso e dichiara il sacerdote innocente. Mahoney si limita a trasferirlo, dopo che due diversi psicologi che lo hanno esaminato per conto della diocesi hanno dichiarato che non costituisce un pericolo. Tutti sbagliano: non solo perché già nel 1976 O’Grady aveva “toccato in modo improprio una ragazzina” (tutto si era risolto con una lettera di scuse e, contrariamente a quanto dice l’ex prete, gli avvocati non hanno potuto provare che il vescovo lo sapesse) ma perché si trattava di un soggetto pericoloso, che finirà arrestato e condannato.
Errori? Certo. Complotti? È un po’ difficile sostenerlo, dal momento che il vescovo e poi cardinale Mahoney – uno dei “cattivi” del documentario – di fronte a tre preti accusati di abusi nella diocesi ne sospende due dal sacerdozio ma non il terzo, fidandosi in tutti e tre i casi delle indagini della polizia e del parere degli psicologi. Mahoney avrebbe potuto fare di più? Certamente oggi, dopo anni di ricerca scientifica sul tema, la Chiesa spesso agisce in modo più radicale (e lo fa seguendo le direttive del cardinale Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi) di quanto non facesse nel 1984. Ma prendere per oro colato le bugie di un delinquente non è mai buon giornalismo.
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La UE ci obbliga a tenere l’Imam
La sinistra radicale sta quasi riuscendo a far credere all'opinione pubblica che gli imam accusati di fiancheggiare il terrorismo come Abu Imad, della moschea milanese di viale Jenner, e Abdelmajid Zergout, ex-imam di una moschea di Varese, sono stati dichiarati innocenti dai tribunali che li hanno processati. Il fatto che Zergout sia stato espulso dal ministro Amato - dopo che la Casa delle libertà aveva protestato perché le espulsioni di predicatori si erano fatte meno numerose con il governo Prodi - è stato bollato dal suo avvocato come un tentativo di delegittimare con una «giustizia parallela» la magistratura. È caduta nella trappola anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, peraltro non nuova a questo «buonismo» verso l'ultra-fondamentalismo islamico, che ha sospeso l'espulsione di Zergout.
Si tratta di un grande inganno. Abu Imad e Zergout non sono stati riconosciuti innocenti. Abu Imad secondo i giudici del Tribunale di Milano - non proprio una longa manus della Casa delle libertà - è «coinvolto direttamente nelle attività di: falsificazione, finanziamento all'estero, contatti con i gruppi esteri (in particolare l'Austria) e smistamento dei combattenti». Perché, dunque, Abu Imad se l'è cavata? Per la solita questione dei tempi biblici della giustizia italiana. La sentenza di Milano a rigore non è di assoluzione ma di prescrizione. Quando l'imam milanese falsificava documenti, finanziava e «smistava» terroristi le norme più severe in tema di terrorismo introdotte dal governo Berlusconi non erano ancora in vigore. Ha pertanto potuto beneficiare dei vecchi termini di prescrizione: mentre con le nuove norme sarebbe stato condannato.
Si tratta del caso tipico previsto nel 2005 dal decreto Pisanu per le espulsioni: chi se la cava per la prescrizione ma è riconosciuto dai giudici come responsabile di fatti gravissimi va espulso, perché è pericoloso per l'ordine e per la sicurezza dei cittadini italiani. Il ministro Amato, come ha fatto per l'imam Zergout di Varese, prenda il coraggio a due mani ed espella anche Abu Imad, che è più noto e protetto di Zergout ma proprio per questo è anche più pericoloso.
Quanto a Zergout, se l'è cavata non per la prescrizione ma per un cavillo giuridico: la rinuncia a due rogatorie, peraltro giustificata dalla Corte d'assise di Milano con la circostanza che - se si fosse dato corso a tali rogatorie all'estero - i tempi del processo si sarebbero allungati a dismisura. Il pubblico ministero ha chiesto l'assoluzione di Zergout e dei suoi complici «non perché io non sia convinto di avere in mano elementi in grado di provare la responsabilità degli imputati - ha detto - ma solo perchè la prova non si è formata in dibattimento» attraverso le rogatorie, come prescriverebbe la più recente giurisprudenza della Cassazione. Dunque anche nel caso di Zergout la «responsabilità degli imputati» è provata, ed essi sfuggono alla condanna solo per una ragione tecnica. E pure qui, per colpire chi sfugge alla legge non perché innocente, ma per qualche marchingegno poco comprensibile ai non giuristi, è del tutto giustificato il provvedimento di espulsione.
Ora che sul tema della sicurezza gli elettori del Nord hanno suonato la sveglia, c'è da augurarsi che il governo voglia procedere senza paura con le espulsioni, anche quando i fiancheggiatori del terrorismo non fanno i muratori ma i predicatori. E che i soloni delle istituzioni europee, per malinteso garantismo, non mettano ulteriormente i bastoni fra le ruote all'Italia.
di Massimo Introvigne (il Giornale, 30 maggio 2007)
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Si tratta di un grande inganno. Abu Imad e Zergout non sono stati riconosciuti innocenti. Abu Imad secondo i giudici del Tribunale di Milano - non proprio una longa manus della Casa delle libertà - è «coinvolto direttamente nelle attività di: falsificazione, finanziamento all'estero, contatti con i gruppi esteri (in particolare l'Austria) e smistamento dei combattenti». Perché, dunque, Abu Imad se l'è cavata? Per la solita questione dei tempi biblici della giustizia italiana. La sentenza di Milano a rigore non è di assoluzione ma di prescrizione. Quando l'imam milanese falsificava documenti, finanziava e «smistava» terroristi le norme più severe in tema di terrorismo introdotte dal governo Berlusconi non erano ancora in vigore. Ha pertanto potuto beneficiare dei vecchi termini di prescrizione: mentre con le nuove norme sarebbe stato condannato.
Si tratta del caso tipico previsto nel 2005 dal decreto Pisanu per le espulsioni: chi se la cava per la prescrizione ma è riconosciuto dai giudici come responsabile di fatti gravissimi va espulso, perché è pericoloso per l'ordine e per la sicurezza dei cittadini italiani. Il ministro Amato, come ha fatto per l'imam Zergout di Varese, prenda il coraggio a due mani ed espella anche Abu Imad, che è più noto e protetto di Zergout ma proprio per questo è anche più pericoloso.
Quanto a Zergout, se l'è cavata non per la prescrizione ma per un cavillo giuridico: la rinuncia a due rogatorie, peraltro giustificata dalla Corte d'assise di Milano con la circostanza che - se si fosse dato corso a tali rogatorie all'estero - i tempi del processo si sarebbero allungati a dismisura. Il pubblico ministero ha chiesto l'assoluzione di Zergout e dei suoi complici «non perché io non sia convinto di avere in mano elementi in grado di provare la responsabilità degli imputati - ha detto - ma solo perchè la prova non si è formata in dibattimento» attraverso le rogatorie, come prescriverebbe la più recente giurisprudenza della Cassazione. Dunque anche nel caso di Zergout la «responsabilità degli imputati» è provata, ed essi sfuggono alla condanna solo per una ragione tecnica. E pure qui, per colpire chi sfugge alla legge non perché innocente, ma per qualche marchingegno poco comprensibile ai non giuristi, è del tutto giustificato il provvedimento di espulsione.
Ora che sul tema della sicurezza gli elettori del Nord hanno suonato la sveglia, c'è da augurarsi che il governo voglia procedere senza paura con le espulsioni, anche quando i fiancheggiatori del terrorismo non fanno i muratori ma i predicatori. E che i soloni delle istituzioni europee, per malinteso garantismo, non mettano ulteriormente i bastoni fra le ruote all'Italia.
di Massimo Introvigne (il Giornale, 30 maggio 2007)
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lunedì 28 maggio 2007
Cosa sta accadendo nel mondo cattolico e nella Chiesa dopo il Family Day?
Dal sito di Antonio Socci
Cosa sta accadendo nel mondo cattolico e nella Chiesa dopo il Family Day? Il testo dei Dico è stato partorito dall'interno del mondo cattolico, non dai Radicali di Pannella. E' stato costruito da due personalità che vengono dall'establishment cattolico democratico, quello più protetto e sponsorizzato dai vescovi italiani: l'Azione Cattolica e la Fuci (mentre i movimenti che il 12 maggio hanno riempito piazza San Giovanni per anni sono stati presi letteralmente a calci dai vescovi italiani). Mi spiego. A firmare i Dico - per il governo del dossettiano Romano Prodi - è quella Rosy Bindi che viene dalla presidenza dell'Azione Cattolica Italiana, una che è entrata in politica nella Dc proprio come rappresentante del mondo cattolico e fiduciaria dei vescovi. E l'estensore materiale della legge è Stefano Ceccanti, oggi capo dell'Ufficio legislativo del ministero per i Diritti e per le Pari opportunità, ma ieri presidente della Fuci, la fucina dell'establishment cattolico democratico. Non solo. Proprio Ceccanti ha svelato che l'articolato dei Dico si ispira al cardinal Martini. Testuale: "Il cardinale Carlo Maria Martini, in un bellissimo discorso pronunciato alla vigilia di Sant'Ambrogio del 2000 diceva che sulle coppie di fatto 'l'autorità pubblica può adottare un approccio pragmatico e deve testimoniare una sensibilità solidarista'. E concludeva: 'Al vertice delle nostre preoccupazioni non deve esserci il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma sostenere le famiglie in senso proprio' . Questi sono i canoni di Martini che di fatto andiamo a proporre" (La Stampa, 11.12.2006). Infatti quando il Papa ha demolito i Dico con l'Esortazione apostolica che richiamava i politici cattolici a non votare leggi contro natura, il cardinal Martini, tre giorni dopo, ha tuonato pubblicamente quasi da Antipapa: "la Chiesa non dia ordini dall'alto".
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Giangiacomo
Cosa sta accadendo nel mondo cattolico e nella Chiesa dopo il Family Day? Il testo dei Dico è stato partorito dall'interno del mondo cattolico, non dai Radicali di Pannella. E' stato costruito da due personalità che vengono dall'establishment cattolico democratico, quello più protetto e sponsorizzato dai vescovi italiani: l'Azione Cattolica e la Fuci (mentre i movimenti che il 12 maggio hanno riempito piazza San Giovanni per anni sono stati presi letteralmente a calci dai vescovi italiani). Mi spiego. A firmare i Dico - per il governo del dossettiano Romano Prodi - è quella Rosy Bindi che viene dalla presidenza dell'Azione Cattolica Italiana, una che è entrata in politica nella Dc proprio come rappresentante del mondo cattolico e fiduciaria dei vescovi. E l'estensore materiale della legge è Stefano Ceccanti, oggi capo dell'Ufficio legislativo del ministero per i Diritti e per le Pari opportunità, ma ieri presidente della Fuci, la fucina dell'establishment cattolico democratico. Non solo. Proprio Ceccanti ha svelato che l'articolato dei Dico si ispira al cardinal Martini. Testuale: "Il cardinale Carlo Maria Martini, in un bellissimo discorso pronunciato alla vigilia di Sant'Ambrogio del 2000 diceva che sulle coppie di fatto 'l'autorità pubblica può adottare un approccio pragmatico e deve testimoniare una sensibilità solidarista'. E concludeva: 'Al vertice delle nostre preoccupazioni non deve esserci il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma sostenere le famiglie in senso proprio' . Questi sono i canoni di Martini che di fatto andiamo a proporre" (La Stampa, 11.12.2006). Infatti quando il Papa ha demolito i Dico con l'Esortazione apostolica che richiamava i politici cattolici a non votare leggi contro natura, il cardinal Martini, tre giorni dopo, ha tuonato pubblicamente quasi da Antipapa: "la Chiesa non dia ordini dall'alto".
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Lobbying etico
E' successo giovedì 17 maggio 2007, durante la settimana in cui (tradizione che dura da secoli) la venerata immagine della Patrona di Bologna, la Beata Vergine di San Luca, scende dal Santuario sull'omonimo colle e viene posta nella centralissima Cattedrale.
Ivi riceve l'omaggio di tutti i bolognesi, indipendentemente dalla loro fede o ideologia.
Ma un corteo aggressivo con bandiere organizzato da gay e lesbiche parte alle 19 dalla vicina Piazza Maggiore.
Non è un'iniziativa di qualche psicopatico, ci sono esponenti politici: dalle deputate di Ds e Prc Katia Zanotti e Titti De Simone, al consiglieri comunali Sergio Lo Giudice (Ds), Roberto Panzacchi (Verdi) e Valerio Monteventi (Prc). Si portano davanti alla Cattedrale, tra la folla di fedeli che entrano ed escono in continuazione. Alcuni si buttano a a terra, per impedire l'ingresso in Chiesa.
Altri innalzano cartelli: "Bagnasco vergogna". Tiziano Loreti, segretario PRC, ironizza: "Vergogna è quasi affettuoso, si fa appello alla parte migliore dell´altro perché controlli la peggiore. E´ una espressione religiosa. Bagnasco non deve offendersi".
Urlano poi insulti contro il coraggioso Vescovo ausiliare, Mons. Vecchi. Grida violente, schiamazzi, minacce, sempre contro la Chiesa. Qualcuno dalla cattedrale si spazientisce, grida loro di andarsene: "Vergognatevi" urla una buona signora. E´ la molla che fa scattare la rabbia: "Fascisti, fascisti!" inveiscono dal corteo. Si alzano minacciosi: anche gli sciacalli diventano lupi davanti agli agnelli.Si chiudono per precauzione le porte della Cattedrale.
Questa è la preparazione della manifestazione di giugno di Roma. Questo è il dialogo possibile con il laicismo. I "buonisti", sono avvertiti: lo scontro sarà peggiore che durante gli anni del totalitarismo liberale unitario, quando, nel 1876, un migliaio di anticlericali assaltò il III Congresso Cattolico Italiano a Bologna, nella chiesa della SS.Trinità: allora, nemmeno il becero massone Carducci, avrebbe immaginato di offendere la Madonna.
Una città offesadel Cardinale Carlo Caffarra *
L'incivile gazzarra avvenuta davanti al portone della Cattedrale, spalancato per permettere ai fedeli l'accesso per pregare davanti alla venerata immagine della Madonna di San Luca, resterà come una macchia che non si cancella nella storia luminosa e commovente dell'amore di Bologna verso la sua Patrona. La città è stata offesa. E' stata offesa nel suo sentimento religioso profondo; un sentimento che davanti all'immagine della Beata Vergine sempre sa accantonare divisioni politiche e disuguaglianze sociali, ricomponendo il consorzio umano nella più profonda unità dell'amore orante a Maria. E' stata offesa anche nella sua tradizione civile che ha sempre visto nella Madonna di San Luca il suo più alto vessillo identitario; una tradizione mai interrotta in 531 anni di discese della Venerata Immagine dal Colle della Guardia. E' stata offesa nella sua virtuosa e permanente pratica della tolleranza e dell'ordine civico. Ed è tanto più grave che tale incivile manifestazione, nella quale sono state esibite persino scritte al limite del blasfemo, abbia avuto per protagonisti anche due deputati al Parlamento nazionale e alcuni esponenti politici locali. Come Vescovo di questa città, ritengo doveroso denunciare che simili episodi sono segno evidente di un degrado civico prima d'ora qui sconosciuto, e richiamare le autorità cui compete a far rispettare quelle regole di convivenza che la città e la Nazione si sono date per il bene comune. Invito i fedeli e tutti coloro che tengono tra gli affetti più preziosi quello per la Madonna di San Luca a pregare perché il Signore conforti chi - autorità ecclesiastiche e semplici fedeli - ieri è stato oggetto di dileggio e di offese, e perché Egli si lasci incontrare con il suo perdono, sulla via della conversione del cuore, da chi ha agito forse senza sapere quello che stava facendo.
* Arcivescovo Metropolita di Bologna
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Giangiacomo
Ivi riceve l'omaggio di tutti i bolognesi, indipendentemente dalla loro fede o ideologia.
Ma un corteo aggressivo con bandiere organizzato da gay e lesbiche parte alle 19 dalla vicina Piazza Maggiore.
Non è un'iniziativa di qualche psicopatico, ci sono esponenti politici: dalle deputate di Ds e Prc Katia Zanotti e Titti De Simone, al consiglieri comunali Sergio Lo Giudice (Ds), Roberto Panzacchi (Verdi) e Valerio Monteventi (Prc). Si portano davanti alla Cattedrale, tra la folla di fedeli che entrano ed escono in continuazione. Alcuni si buttano a a terra, per impedire l'ingresso in Chiesa.
Altri innalzano cartelli: "Bagnasco vergogna". Tiziano Loreti, segretario PRC, ironizza: "Vergogna è quasi affettuoso, si fa appello alla parte migliore dell´altro perché controlli la peggiore. E´ una espressione religiosa. Bagnasco non deve offendersi".
Urlano poi insulti contro il coraggioso Vescovo ausiliare, Mons. Vecchi. Grida violente, schiamazzi, minacce, sempre contro la Chiesa. Qualcuno dalla cattedrale si spazientisce, grida loro di andarsene: "Vergognatevi" urla una buona signora. E´ la molla che fa scattare la rabbia: "Fascisti, fascisti!" inveiscono dal corteo. Si alzano minacciosi: anche gli sciacalli diventano lupi davanti agli agnelli.Si chiudono per precauzione le porte della Cattedrale.
Questa è la preparazione della manifestazione di giugno di Roma. Questo è il dialogo possibile con il laicismo. I "buonisti", sono avvertiti: lo scontro sarà peggiore che durante gli anni del totalitarismo liberale unitario, quando, nel 1876, un migliaio di anticlericali assaltò il III Congresso Cattolico Italiano a Bologna, nella chiesa della SS.Trinità: allora, nemmeno il becero massone Carducci, avrebbe immaginato di offendere la Madonna.
Una città offesadel Cardinale Carlo Caffarra *
L'incivile gazzarra avvenuta davanti al portone della Cattedrale, spalancato per permettere ai fedeli l'accesso per pregare davanti alla venerata immagine della Madonna di San Luca, resterà come una macchia che non si cancella nella storia luminosa e commovente dell'amore di Bologna verso la sua Patrona. La città è stata offesa. E' stata offesa nel suo sentimento religioso profondo; un sentimento che davanti all'immagine della Beata Vergine sempre sa accantonare divisioni politiche e disuguaglianze sociali, ricomponendo il consorzio umano nella più profonda unità dell'amore orante a Maria. E' stata offesa anche nella sua tradizione civile che ha sempre visto nella Madonna di San Luca il suo più alto vessillo identitario; una tradizione mai interrotta in 531 anni di discese della Venerata Immagine dal Colle della Guardia. E' stata offesa nella sua virtuosa e permanente pratica della tolleranza e dell'ordine civico. Ed è tanto più grave che tale incivile manifestazione, nella quale sono state esibite persino scritte al limite del blasfemo, abbia avuto per protagonisti anche due deputati al Parlamento nazionale e alcuni esponenti politici locali. Come Vescovo di questa città, ritengo doveroso denunciare che simili episodi sono segno evidente di un degrado civico prima d'ora qui sconosciuto, e richiamare le autorità cui compete a far rispettare quelle regole di convivenza che la città e la Nazione si sono date per il bene comune. Invito i fedeli e tutti coloro che tengono tra gli affetti più preziosi quello per la Madonna di San Luca a pregare perché il Signore conforti chi - autorità ecclesiastiche e semplici fedeli - ieri è stato oggetto di dileggio e di offese, e perché Egli si lasci incontrare con il suo perdono, sulla via della conversione del cuore, da chi ha agito forse senza sapere quello che stava facendo.
* Arcivescovo Metropolita di Bologna
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sabato 26 maggio 2007
Dall'UE all'Italia... finalmente!
L'Unione Europea da 60 GIORNI a Prodi per presentare progetti sull'alta velocità (TAV).
"Il governo Prodi ha 60 giorni per presentare i progetti riguardanti la Torino-Lione, il Brennero ed il Ponte di Messina e partecipare quindi alla ripartizione degli 8,013 miliardi sbloccati oggi dalla UE per le Reti Trans-Europee di Trasporto" é la dichiarazione con cui l'on. Mario Mauro, vice Presidente del Parlamento europeo, commenta il voto con cui oggi l'Assemblea di Strasburgo ha approvato il suo rapporto sulle reti Transeuropee di Trasporto (TEN). "Entro pochi giorni - continua Mauro - la Commissione aprirà i bandi di gara, ai cui i governi europei dovranno rispondere presentando i propri progetti entro la fine di luglio. "Due mesi - conclude Mauro - che rappresentano l'ultima chiamata per il Governo Prodi, obbligato a decidere se muoversi con la stessa responsabilità dimostrata oggi dal Parlamento europeo o se perdere il miliardo di finanziamenti comunitari in gioco per l'Italia in questa prima tranche e condannare il nostro Paese a diventare un isolata appendice dell'Europa".
L'Europarlamenteo ha votato regole per fondi UE alle TEN
Si' del Parlamento europeo al regolamento per il finanziamento delle reti transeuropee di trasporto (Ten) e dell'energia, che potrebbe riguardare anche alcune opere che coinvolgono l'Italia, tra le quali la Torino-Lione. L'assemblea di Strasburgo ha oggi approvato, a larga maggioranza, la raccomandazione del vicepresidente Mario Mauro (FI) sulla posizione comune raggiunta con il Consiglio che fissa i principi generali per la concessione, per il periodo 2007-2013, di contributi finanziari pari a 8,013 miliardi di euro per la rete trasporti e di 155 milioni per l'energia. A seguito dell'adozione del rapporto, potranno scattare le regole ed i termini per la ripartizione, fra le varie opere ritenute prioritarie, dei finanziamenti comunitari destinati ai progetti Ten, che sara' fatta sulla base di un bando, emesso probabilmente a fine maggio dalla Commissione Ue, con scadenza per la presentazione delle richieste a fine luglio.
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Giangiacomo
"Il governo Prodi ha 60 giorni per presentare i progetti riguardanti la Torino-Lione, il Brennero ed il Ponte di Messina e partecipare quindi alla ripartizione degli 8,013 miliardi sbloccati oggi dalla UE per le Reti Trans-Europee di Trasporto" é la dichiarazione con cui l'on. Mario Mauro, vice Presidente del Parlamento europeo, commenta il voto con cui oggi l'Assemblea di Strasburgo ha approvato il suo rapporto sulle reti Transeuropee di Trasporto (TEN). "Entro pochi giorni - continua Mauro - la Commissione aprirà i bandi di gara, ai cui i governi europei dovranno rispondere presentando i propri progetti entro la fine di luglio. "Due mesi - conclude Mauro - che rappresentano l'ultima chiamata per il Governo Prodi, obbligato a decidere se muoversi con la stessa responsabilità dimostrata oggi dal Parlamento europeo o se perdere il miliardo di finanziamenti comunitari in gioco per l'Italia in questa prima tranche e condannare il nostro Paese a diventare un isolata appendice dell'Europa".
L'Europarlamenteo ha votato regole per fondi UE alle TEN
Si' del Parlamento europeo al regolamento per il finanziamento delle reti transeuropee di trasporto (Ten) e dell'energia, che potrebbe riguardare anche alcune opere che coinvolgono l'Italia, tra le quali la Torino-Lione. L'assemblea di Strasburgo ha oggi approvato, a larga maggioranza, la raccomandazione del vicepresidente Mario Mauro (FI) sulla posizione comune raggiunta con il Consiglio che fissa i principi generali per la concessione, per il periodo 2007-2013, di contributi finanziari pari a 8,013 miliardi di euro per la rete trasporti e di 155 milioni per l'energia. A seguito dell'adozione del rapporto, potranno scattare le regole ed i termini per la ripartizione, fra le varie opere ritenute prioritarie, dei finanziamenti comunitari destinati ai progetti Ten, che sara' fatta sulla base di un bando, emesso probabilmente a fine maggio dalla Commissione Ue, con scadenza per la presentazione delle richieste a fine luglio.
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I musulmani sorpassano i cattolici? "Paragoni impossibili"
Per anni annunciato, il traguardo sarebbe stato ora raggiunto. I musulmani sostengono di avere superato i cattolici: sarebbero oltre un miliardo e trecento milioni, contro un miliardo e centoquindici milioni di fedeli di Roma. Alla domanda se queste cifre siano vere si può rispondere in tre modi diversi.
Anzitutto, è arbitrario paragonare i musulmani ai cattolici. Infatti sia l’islam sia il cristianesimo sono generi, al cui interno convivono specie diverse. Tra i musulmani, almeno sciiti e sunniti sono altrettanto diversi tra loro di cattolici, ortodossi e protestanti; le scuole sunnite più rigorose non considerano gli sciiti, a rigore, neppure musulmani. Pertanto il paragone proposto da grandi statistici come David Barrett non è, normalmente, fra i musulmani e i cattolici, ma o fra l'islam sunnita e il cattolicesimo (un miliardo di fedeli contro un miliardo e cento milioni), oppure fra l'islam e tutto il cristianesimo: quest’ultimo, sommando ai cattolici gli ortodossi e i protestanti, sfiora la cifra di un miliardo e settecento milioni di persone, da cui l’islam è ancora lontano.
In secondo luogo, come ha già risposto qualche esperto cattolico, si diventa cristiani con il battesimo e il numero di battesimi è misurabile con una certa precisione. L’islam invece ritiene che sia musulmano chiunque sia nato in un Paese a maggioranza islamica e non appartenga esplicitamente a una minoranza religiosa, le cui cifre tra l'altro sono spesso sottostimate per motivi politici. Le cifre fornite per l’islam rischiano quindi di comprendere molte persone che vivono nei Paesi musulmani ma di fatto non hanno alcun contatto con la religione islamica.
Il terzo aspetto - forse il più interessante - chiama in causa le varie dimensioni dell'esperienza religiosa. I sociologi di lingua inglese parlano delle tre B: believing (credere), belonging (appartenere) e behaving (comportarsi). Le statistiche di cui si parla in questo caso non riguardano né le credenze né i comportamenti - non si chiedono cioè «in che cosa» crede chi dichiara di seguire una religione, né se si comporta in pratica da buon cattolico o da buon musulmano - ma le appartenenze. Tuttavia, le appartenenze possono essere misurate in modi diversi. Nel cattolicesimo c'è una cerchia più ampia di battezzati e una più ristretta di praticanti, cioè di persone - secondo un parametro diffuso anche se non unanime - che dichiarano di andare a messa almeno due volte al mese. In Italia, per esempio, oltre il novanta per cento della popolazione è battezzato, mentre, utilizzando il criterio citato, le cifre dei praticanti oscillano dal trenta al quaranta per cento. Dei musulmani che vivono in Italia sappiamo che meno del dieci per cento va in moschea con qualche regolarità. Ma, in assenza di un precetto settimanale simile all'obbligo cattolico della messa, la frequenza in moschea non può essere l'unico criterio per stabilire quanti musulmani sono praticanti. La preghiera quotidiana e il digiuno del Ramadan sono altrettanto, se non più importanti. Non è impossibile che nel mondo ci siano più musulmani che cattolici - anche se non più musulmani che cristiani in genere - «praticanti», ma la raccolta di statistiche sulla pratica musulmana è difficile e i criteri controversi.
Parlare di sorpasso appare dunque prematuro e propagandistico. Anche se in molte zone del mondo l'islam ha dalla sua la forza della demografia e delle nascite, e - con tutti i loro limiti - le statistiche sono le benvenute se sono occasione per cominciare a preoccuparsi.
di Massimo Introvigne (il Giornale, 20 maggio 2007)
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Anzitutto, è arbitrario paragonare i musulmani ai cattolici. Infatti sia l’islam sia il cristianesimo sono generi, al cui interno convivono specie diverse. Tra i musulmani, almeno sciiti e sunniti sono altrettanto diversi tra loro di cattolici, ortodossi e protestanti; le scuole sunnite più rigorose non considerano gli sciiti, a rigore, neppure musulmani. Pertanto il paragone proposto da grandi statistici come David Barrett non è, normalmente, fra i musulmani e i cattolici, ma o fra l'islam sunnita e il cattolicesimo (un miliardo di fedeli contro un miliardo e cento milioni), oppure fra l'islam e tutto il cristianesimo: quest’ultimo, sommando ai cattolici gli ortodossi e i protestanti, sfiora la cifra di un miliardo e settecento milioni di persone, da cui l’islam è ancora lontano.
In secondo luogo, come ha già risposto qualche esperto cattolico, si diventa cristiani con il battesimo e il numero di battesimi è misurabile con una certa precisione. L’islam invece ritiene che sia musulmano chiunque sia nato in un Paese a maggioranza islamica e non appartenga esplicitamente a una minoranza religiosa, le cui cifre tra l'altro sono spesso sottostimate per motivi politici. Le cifre fornite per l’islam rischiano quindi di comprendere molte persone che vivono nei Paesi musulmani ma di fatto non hanno alcun contatto con la religione islamica.
Il terzo aspetto - forse il più interessante - chiama in causa le varie dimensioni dell'esperienza religiosa. I sociologi di lingua inglese parlano delle tre B: believing (credere), belonging (appartenere) e behaving (comportarsi). Le statistiche di cui si parla in questo caso non riguardano né le credenze né i comportamenti - non si chiedono cioè «in che cosa» crede chi dichiara di seguire una religione, né se si comporta in pratica da buon cattolico o da buon musulmano - ma le appartenenze. Tuttavia, le appartenenze possono essere misurate in modi diversi. Nel cattolicesimo c'è una cerchia più ampia di battezzati e una più ristretta di praticanti, cioè di persone - secondo un parametro diffuso anche se non unanime - che dichiarano di andare a messa almeno due volte al mese. In Italia, per esempio, oltre il novanta per cento della popolazione è battezzato, mentre, utilizzando il criterio citato, le cifre dei praticanti oscillano dal trenta al quaranta per cento. Dei musulmani che vivono in Italia sappiamo che meno del dieci per cento va in moschea con qualche regolarità. Ma, in assenza di un precetto settimanale simile all'obbligo cattolico della messa, la frequenza in moschea non può essere l'unico criterio per stabilire quanti musulmani sono praticanti. La preghiera quotidiana e il digiuno del Ramadan sono altrettanto, se non più importanti. Non è impossibile che nel mondo ci siano più musulmani che cattolici - anche se non più musulmani che cristiani in genere - «praticanti», ma la raccolta di statistiche sulla pratica musulmana è difficile e i criteri controversi.
Parlare di sorpasso appare dunque prematuro e propagandistico. Anche se in molte zone del mondo l'islam ha dalla sua la forza della demografia e delle nascite, e - con tutti i loro limiti - le statistiche sono le benvenute se sono occasione per cominciare a preoccuparsi.
di Massimo Introvigne (il Giornale, 20 maggio 2007)
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venerdì 25 maggio 2007
La sorpresa di Piazza San Giovanni evento debordante ogni schema
Riporto integralmente l'articolo di Giancarlo Cesana pubblicato sull'Avvenire di ieri, 24 Maggio 2007.
"La manifestazione del Family Day è stata innanzitutto una sorpresa: per gli oppositori, ma anche per chi ci è andato.
Ci si aspettava popolo ma non in tale sovrabbondanza.
È stato detto con giustificata enfasi che la massiccia astensioné del referendum sulla legge 40 si è trasformata in una presenza. Presenza di che? Erano presenti le famiglie in un numero cosi esorbitante che cinquecentomila o un milione fa Io stesso. Intanto che le guardavo mi è venuto in mente l' episodio del Vangelo di Matteo in cui Gesù parla del matrimonio ( Mt.19,3-10). Sono andato a ritrovarlo perché la memoria pub essere imprecisa. Vale proprio la pena di rileggerlo. "Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: "È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?". Ed egli rispose: " Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l' uomo non lo separi" (...). Gli dissero i discepoli: "Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi". Anche i discepoli avrebbero potuto a loro volta tirare verso i Dico; erano inclini a considerare la famiglia un' esperienza difficile, se non impossibile.
In piazza San Giovanni erano presenti centinaia di migliaia di esperienze "difficili", eppure così positive da essere pubblicamente difese non solo dai "seguaci di Cristo", ma anche dai cosiddetti laid, senz'altro più numerosi deli altri laici, che manifestavano contro, in Piazza Navona.
Quindi, in San Giovanni era copiosamente presente un fatto strano, proprio perché così quotidiano e popolare da non far sospettare la forza che straordinariamente esprimeva. In effetti, se la domanda dei discepoli aveva ragione di essere, corne l'ha tutt'oggi, come può accadere che una famiglia duri? Che mistero è un popolo di famiglie? Comunque si pensi, il 12 maggio abbiamo visto un pezzo di Italia, ostinatamente e diffusamente persuaso della definitività dell' amore, resistente alla corrosione che viene dal cinema, dalla tv, dai giomali, dai vicini di casa, dai colleghi di lavoro... dappertutto. Si è trattato di un avvenimento debordante da ogni scatola in cui si tenti di rinchiuderlo. Anche le spiegazioni dei commentatori appaiono spesso insufficienti perché il Family Day non ha rappresentato tanto un progetto o un' idea, quanto un fatto da prendere così come è perché, come dice una canzone di Battiato, è "un centro di gravità permanente" di una società che non potrebbe farne a meno.
I più entusiasti della manifestazione si chiedono cosa fare per svilupparne tutte le potenzialità. È stato detto che è nato un nuovo movimento, che i suoi leader sono pronti alla politica. Ci sono quelli a cui prudono le mani in vista dell'imminente lotta per una società più umana e più cristiana.
Forse la prima cosa da fare è cercare di capire che cosa tiene insieme le famiglie, il loro affetto e la loro fecondità: non solo i corsi per fidanzati, che ormai, come dice un parroco mio amico, sono corsi per conviventi e nemmeno un partito dedicato che, probabilmente, è meglio che non nasca.
Non è un caso che il 12 maggio sia stato proposto dall'associazionismo cattolico, ovvero non da uno schieramento, ma da un mondo in cui la famiglia è il modo normale di trasmettere insieme alla vita, la fede come criterio di conoscenza e di moralità. È proprio una novità italiana che a questo mondo e a questa oncezione si sia legata la simpatia di tanti non credenti. I partecipanti del Family Day, nella loro semplicità e fermezza, hanno espresso il valore civile della fede, che non e ostacolo, ma fattore di ragione e libertà per tutti. La grande manifestazione cui hanno dato vita è in fondo un'adesione di massa all'invito del Papa a spalancare la ragione; è l'esigenza di una nuova laicità, che, religiosa o no, non presume di sapere tutto, ma desidera innanzitutto imparare".
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"La manifestazione del Family Day è stata innanzitutto una sorpresa: per gli oppositori, ma anche per chi ci è andato.
Ci si aspettava popolo ma non in tale sovrabbondanza.
È stato detto con giustificata enfasi che la massiccia astensioné del referendum sulla legge 40 si è trasformata in una presenza. Presenza di che? Erano presenti le famiglie in un numero cosi esorbitante che cinquecentomila o un milione fa Io stesso. Intanto che le guardavo mi è venuto in mente l' episodio del Vangelo di Matteo in cui Gesù parla del matrimonio ( Mt.19,3-10). Sono andato a ritrovarlo perché la memoria pub essere imprecisa. Vale proprio la pena di rileggerlo. "Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: "È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?". Ed egli rispose: " Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l' uomo non lo separi" (...). Gli dissero i discepoli: "Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi". Anche i discepoli avrebbero potuto a loro volta tirare verso i Dico; erano inclini a considerare la famiglia un' esperienza difficile, se non impossibile.
In piazza San Giovanni erano presenti centinaia di migliaia di esperienze "difficili", eppure così positive da essere pubblicamente difese non solo dai "seguaci di Cristo", ma anche dai cosiddetti laid, senz'altro più numerosi deli altri laici, che manifestavano contro, in Piazza Navona.
Quindi, in San Giovanni era copiosamente presente un fatto strano, proprio perché così quotidiano e popolare da non far sospettare la forza che straordinariamente esprimeva. In effetti, se la domanda dei discepoli aveva ragione di essere, corne l'ha tutt'oggi, come può accadere che una famiglia duri? Che mistero è un popolo di famiglie? Comunque si pensi, il 12 maggio abbiamo visto un pezzo di Italia, ostinatamente e diffusamente persuaso della definitività dell' amore, resistente alla corrosione che viene dal cinema, dalla tv, dai giomali, dai vicini di casa, dai colleghi di lavoro... dappertutto. Si è trattato di un avvenimento debordante da ogni scatola in cui si tenti di rinchiuderlo. Anche le spiegazioni dei commentatori appaiono spesso insufficienti perché il Family Day non ha rappresentato tanto un progetto o un' idea, quanto un fatto da prendere così come è perché, come dice una canzone di Battiato, è "un centro di gravità permanente" di una società che non potrebbe farne a meno.
I più entusiasti della manifestazione si chiedono cosa fare per svilupparne tutte le potenzialità. È stato detto che è nato un nuovo movimento, che i suoi leader sono pronti alla politica. Ci sono quelli a cui prudono le mani in vista dell'imminente lotta per una società più umana e più cristiana.
Forse la prima cosa da fare è cercare di capire che cosa tiene insieme le famiglie, il loro affetto e la loro fecondità: non solo i corsi per fidanzati, che ormai, come dice un parroco mio amico, sono corsi per conviventi e nemmeno un partito dedicato che, probabilmente, è meglio che non nasca.
Non è un caso che il 12 maggio sia stato proposto dall'associazionismo cattolico, ovvero non da uno schieramento, ma da un mondo in cui la famiglia è il modo normale di trasmettere insieme alla vita, la fede come criterio di conoscenza e di moralità. È proprio una novità italiana che a questo mondo e a questa oncezione si sia legata la simpatia di tanti non credenti. I partecipanti del Family Day, nella loro semplicità e fermezza, hanno espresso il valore civile della fede, che non e ostacolo, ma fattore di ragione e libertà per tutti. La grande manifestazione cui hanno dato vita è in fondo un'adesione di massa all'invito del Papa a spalancare la ragione; è l'esigenza di una nuova laicità, che, religiosa o no, non presume di sapere tutto, ma desidera innanzitutto imparare".
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Il miracolo della vita - Paura e Nobiltà di GigiDag
Dedico questo post alla nascita di Caterina C. e al suo prossimo battesimo.
Osservare questa piccola creatura e... vedere con i propri occhi cosa significhi un miracolo nel 2007!
Artist: Gigi D'Agostino
Album: L'Amour Toujours II
Year: 2004
Title: Paura E Nobiltà
Basta un niente per creare un prepotente
tanti soldi e il successo tra la gente
e la paura di non posseder più niente
questo basta a infettar la sua mente
Lui si nasconte dietro un cellulare
perchè più facile non affrontare
tu non rispondi tu ti nascondi
e soltanto quando tu ti senti persa
allora si che cerchi tutto l'universo
Ma che ti vada di traverso...
Un bel giorno ho incontrato un uomo strano
stava fermo e mi guardava da lontano
non so perchè ma gli volevo parlare
buon uomo perchè mi stai a guardare
Non guardavo nè tè e le montagne nè il cielo neanche il mare
quantalto puoi guardare
ciò che guardo e una cosa indefinita
sto guardando il miracolo della vita
Un bel giorno ho incontrato un uomo strano
stava fermo e mi guardava da lontano
non so perchè ma gli volevo parlare
buon uomo perchè mi stai a guardare
Non guardavo nè tè e le montagne nè il cielo e neanche il mare
quantalto puoi guardare
ciò che guardo e una cosa indefinita
sto guardando il miracolo della vita
Sto guardando il miracolo della vita...
Basta un niente per creare un prepotente
tanti soldi e il successo tra la gente
e la paura di non posseder più niente
questo basta a infettar la sua mente
Un bel giorno ho incontrato un uomo strano
stava fermo e mi guardava da lontano
non so perchè ma gli volevo parlare
buon uomo perchè mi stai a guardare
Non guardavo nè tè e le montagne nè il cielo neanche il mare
quantalto puoi guardare
ciò che guardo e una cosa indefinita
sto guardando il miracolo della vita
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Giangiacomo
Osservare questa piccola creatura e... vedere con i propri occhi cosa significhi un miracolo nel 2007!
Artist: Gigi D'Agostino
Album: L'Amour Toujours II
Year: 2004
Title: Paura E Nobiltà
Basta un niente per creare un prepotente
tanti soldi e il successo tra la gente
e la paura di non posseder più niente
questo basta a infettar la sua mente
Lui si nasconte dietro un cellulare
perchè più facile non affrontare
tu non rispondi tu ti nascondi
e soltanto quando tu ti senti persa
allora si che cerchi tutto l'universo
Ma che ti vada di traverso...
Un bel giorno ho incontrato un uomo strano
stava fermo e mi guardava da lontano
non so perchè ma gli volevo parlare
buon uomo perchè mi stai a guardare
Non guardavo nè tè e le montagne nè il cielo neanche il mare
quantalto puoi guardare
ciò che guardo e una cosa indefinita
sto guardando il miracolo della vita
Un bel giorno ho incontrato un uomo strano
stava fermo e mi guardava da lontano
non so perchè ma gli volevo parlare
buon uomo perchè mi stai a guardare
Non guardavo nè tè e le montagne nè il cielo e neanche il mare
quantalto puoi guardare
ciò che guardo e una cosa indefinita
sto guardando il miracolo della vita
Sto guardando il miracolo della vita...
Basta un niente per creare un prepotente
tanti soldi e il successo tra la gente
e la paura di non posseder più niente
questo basta a infettar la sua mente
Un bel giorno ho incontrato un uomo strano
stava fermo e mi guardava da lontano
non so perchè ma gli volevo parlare
buon uomo perchè mi stai a guardare
Non guardavo nè tè e le montagne nè il cielo neanche il mare
quantalto puoi guardare
ciò che guardo e una cosa indefinita
sto guardando il miracolo della vita
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Appello contro un documentario sensazionalistico e falso
Noi sottoscritti, presa visione del documentario della BBC Sex Crimes and the Vatican, che la RAI ha acquistato e che potrebbe essere messo in onda in un suo programma, ci rivolgiamo ai dirigenti della RAI e alla Commissione Parlamentare di Vigilanza perché il documentario non sia proposto da una rete pubblica sostenuta dal canone di tutti gli italiani.
Non siamo affatto contrari a una franca discussione del problema della pedofilia e dei tragici casi di sacerdoti cattolici colpevoli di abusi su minori, che – sulla scorta dell'ampia letteratura scientifica oggi disponibile – miri, secondo le parole di Benedetto XVI ai vescovi dell'Irlanda, del 28 ottobre 2006, a “stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prendere tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro, assicurare che i principi di giustizia vengano pienamente rispettati e, soprattutto, guarire le vittime e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini abnormi”.
Siamo però contrari alla proiezione dello specifico documentario Sex Crimes and the Vatican, che – ben lungi dall'affrontare il tema in modo corretto – è una semplice requisitoria anticlericale contro il regnante Pontefice, punteggiata da affermazioni clamorosamente false o fondate sull'ignoranza dei più elementari principi del diritto canonico.
Per esempio, si presenta l'istruzione Crimen sollicitationis del 1962 come un documento che aveva lo scopo di coprire gli abusi avvolgendoli in una coltre di segretezza tale per cui “la pena per chi rompe il segreto è la scomunica immediata”. A prescindere dal fatto che la Crimen sollicitationis si occupa nei primi settanta paragrafi delle relazioni sessuali di sacerdoti con donne (non con bambine), e dedica ai rapporti di sacerdoti con minori prepuberi soltanto mezza riga nel paragrafo 73, è precisamente il contrario. Il paragrafo 16 impone alla vittima degli abusi di “denunciarli entro un mese”. Il paragrafo 17 estende l’obbligo di denuncia a qualunque fedele cattolico che abbia “notizia certa” degli abusi. Il paragrafo 18 precisa che chi non ottempera all’obbligo di denuncia “incorre nella scomunica”. Dunque non è scomunicato chi denuncia gli abusi ma, al contrario, chi non li denuncia.
Un'altra gravissima menzogna del documentario consiste nel sostenere, a proposito della lettera De delictis gravioribus del 2001, sottoscritta dal cardinale Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e che dà esecuzione a norme fissate da Giovanni Paolo II poche settimane prima relative alla competenza dei diversi tribunali ecclesiastici, che si tratti del “seguito” della Crimen sollicitationis e che “ribadiva con enfasi la segretezza, pena la scomunica”. In realtà nella lettera del 2001 non si trova neppure una volta la parola “scomunica”. Se c’è qualche cosa di nuovo nella De delictis gravioribus rispetto alla disciplina precedente in tema di abusi sessuali, è il fatto che la lettera crea una disciplina più severa per il caso di abuso di minori, rendendolo perseguibile oltre i normali termini di prescrizione, fino a quando chi dichiara di avere subito abusi quando era minorenne abbia compiuto i ventotto anni. Questo significa – per fare un esempio molto concreto – che se un bambino di quattro anni è vittima di abusi nel 2007, la prescrizione non scatterà fino al 2031, il che mostra bene la volontà della Chiesa di perseguire questi delitti anche molti anni dopo che si sono verificati e ben al di là dei termini di prescrizione consueti.
Certamente nella Chiesa vi sono stati episodi tristi e dolorosi che hanno coinvolto sacerdoti colpevoli di pedofilia e talora anche vescovi che non sono intervenuti tempestivamente per sanzionarli. Al contrario esatto di quanto sostiene il documentario, l'energica azione del cardinale Joseph Ratzinger prima e di Papa Benedetto XVI poi – su cui non a caso si cerca di gettare fango in Italia subito dopo il successo del Family Day –, anche se non ha potuto risolvere tutti i singoli casi, ha costruito una normativa e favorito una prassi di grande severità, rigore e coraggio di cui chiunque abbia studiato il triste problema senza pregiudizi ideologici dà atto al regnante Pontefice.
Si parli, dunque, di un problema reale e doloroso. Ma lo si faccia con verità e correttezza, senza proporre documentari sensazionalistici e falsi che sono a loro volta parte del problema e non della sua soluzione.
Massimo IntrovigneDirettore del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), TorinoAntonio BattagliaLaura BianconiPaola BinettiLuigi ManfrediAlfredo MantovanoLuca MarconiGaetano QuagliarielloGiacomo SantiniGustavo SelvaFrancesco StoraceSenatoriIsabella BertoliniGabriella CarlucciRiccardo MiglioriAngela NapoliPatrizia Paoletti TangheroniSimonetta Licastro ScardinoRoberto UliviLuca VolontéMichele ViettiMarco ZaccheraDeputatiDomenico AiromaMagistratoLuca AntoniniUniversità di PadovaGianpaolo BarraDirettore della rivista Il Timone, MilanoFabrizio BattistoniUniversità Campus Bio-Medico, RomaFrancesco BellottiUniversità di GenovaRoberto BenedettiConsigliere Regionale ToscanaLuigi BerzanoUniversità di TorinoPino BiancoConsulente d’arte, PaviaAndrea BiottiResponsabile Toscana, Giovani del Movimento per la VitaFrancesco BotturiUniversità Cattolica di MilanoMaurizio BrunettiUniversità di Napoli “Federico II”Andrea BuongiornoPresidente, Associazione Askeo, AgrigentoRino CammilleriScrittore, MilanoGiovanni CantoniDirettore della rivista Cristianità e responsabile nazionale di Alleanza Cattolica, PiacenzaLorenzo CantoniUniversità della Svizzera Italiana, LuganoPietro CantoniStudio teologico interdiocesano, CamaioreCiro CaramielloUniversità di Napoli “Federico II”Franco CardiniUniversità di FirenzeDario CaronitiUniversità di MessinaGiovanni CasadioUniversità di SalernoMarina CasiniUniversità Cattolica del Sacro Cuore, RomaPaolo CasoratiUniversità Campus Bio-Medico, RomaMaria Vittoria CattaniaVicepresidente, Laogai Research FoundationGiancarlo CerrelliConsigliere nazionale Unione Giuristi Cattolici Italiani, CrotoneAldo CiappiPresidente, Unione Giuristi Cattolici Italiani, PisaAgostino ClericiDirettore de Il settimanale della diocesi di ComoLuigi Coda NunziantePresidente "Famiglia Domani", RomaGiuseppe ColomboUniversità Cattolica del Sacro Cuore, MilanoAngelo CuntreriUniversità di PalermoPietro CuntreriPresidente, Associazione diocesana di informazione sulle nuove religioni, AgrigentoGianandrea de AntonellisUniversità Europea di RomaCarlo De MarchiSegretario Generale, Istituto per la Cooperazione Universitaria, RomaPietro De MarcoUniversità di FirenzeRoberto de MatteiUniversità Europea di RomaMario Di FiorinoPrimario di psichiatria, Ospedale della Versilia, ViareggioRaffaella Di MarzioPontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, RomaRenato FarinaGiornalista e scrittore, MilanoEnrico FasanaUniversità di Trieste-GoriziaPier Marco FerraresiUniversità di BiellaGiorgio GibertiniResponsabile organizzativo, Movimento per la VitaLuciano GiustiniDirettore della rivista Beta, RomaAlberto Goffi Avvocato e segretario regionale dell’UDC, TorinoNorberto Gonzales GaitanoPontificia Università della Santa CroceAlbino GoriniSegretario generale, FAI-CISLGiulio Dante GuerraConsiglio Nazionale delle Ricerche, PisaPietro Guidi MassiUnione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, Ascoli PicenoMario Arturo IannacconeStoricoPatrizia IannucciUniversità di Napoli “Federico II”Marco InvernizziConduttore radiofonico e saggistaAntonio LiviPontificia Università Lateranense, RomaPiero MacconiConsigliere Regione LombardiaAlberto MairaResponsabile del CESNUR-SiciliaAndrea ManazzaUniversità di TorinoBruno MardeganPresidente, Edizioni Ares, MilanoAntonio MariniStudio teologico interdiocesano, CamaioreMarcello MasottiPresidente, Scienza e Vita, FirenzeAndrea MenegottoResponsabile del CESNUR-LombardiaAldo Alessandro MolaUniversità Libera di BruxellesAndrea MorigiGiornalista e scrittore, MilanoGiuseppa NaroPresidente, Unione Giuristi Cattolici Italiani, CaltanissettaAlessandra NucciGiornalista e scrittrice, BolognaAlessandro PaganoDeputato Regionale, Regione SicilianaMario PalmaroUniversità Europea di RomaErmanno PavesiPsichiatra e saggista, Zuzwil (Svizzera)Alvise Pecori GiraliPresidente, Cooperativa Edizioni Vocepiù, MilanoEnzo PesericoUniversità Cattolica del Sacro Cuore, MilanoPaolo PiccoPresidente, Movimento per la Vita, MonzaMichela PireddaUniversità Campus Bio-Medico, RomaStefano PriaroneSceneggiatore di fumetti e scrittore, MilanoMarco RespintiGiornalista e scrittoreClaudio RiséUniversità di VaresePia RoccoDirettrice, Centro Culturale L’Arengo, BolognaGiuseppe RomanoGiornalista e scrittoreMauro RoncoUniversità di PadovaLetizia RussoUniversità di PalermoGiacomo Samek LodoviciUniversità Cattolica del Sacro Cuore, MilanoMichele SanfilippoUniversità Regina ApostolorumVittorio SanguinetiUniversità di GenovaOscar SanguinettiUniversità Europea di RomaFabio ScarcigliaUniversità della Calabria, CosenzaMaurizio SchoepflinScrittore e giornalistaErrico SerraPresidente “Verità è Libertà”, BresciaEttore SeveriSindaco di Montecatini TermeRaimondo TorregrossaSindaco di San CataldoArmando TursiUniversità di MilanoMichela VarraUniversità di NapoliGuido VignelliDirettore, SOS Ragazzi, RomaGiovanni ZenoneDirettore editoriale, Edizioni Fede & Cultura, VeronaPierLuigi ZoccatelliVice-direttore del CESNUR, Torino
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Non siamo affatto contrari a una franca discussione del problema della pedofilia e dei tragici casi di sacerdoti cattolici colpevoli di abusi su minori, che – sulla scorta dell'ampia letteratura scientifica oggi disponibile – miri, secondo le parole di Benedetto XVI ai vescovi dell'Irlanda, del 28 ottobre 2006, a “stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prendere tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro, assicurare che i principi di giustizia vengano pienamente rispettati e, soprattutto, guarire le vittime e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini abnormi”.
Siamo però contrari alla proiezione dello specifico documentario Sex Crimes and the Vatican, che – ben lungi dall'affrontare il tema in modo corretto – è una semplice requisitoria anticlericale contro il regnante Pontefice, punteggiata da affermazioni clamorosamente false o fondate sull'ignoranza dei più elementari principi del diritto canonico.
Per esempio, si presenta l'istruzione Crimen sollicitationis del 1962 come un documento che aveva lo scopo di coprire gli abusi avvolgendoli in una coltre di segretezza tale per cui “la pena per chi rompe il segreto è la scomunica immediata”. A prescindere dal fatto che la Crimen sollicitationis si occupa nei primi settanta paragrafi delle relazioni sessuali di sacerdoti con donne (non con bambine), e dedica ai rapporti di sacerdoti con minori prepuberi soltanto mezza riga nel paragrafo 73, è precisamente il contrario. Il paragrafo 16 impone alla vittima degli abusi di “denunciarli entro un mese”. Il paragrafo 17 estende l’obbligo di denuncia a qualunque fedele cattolico che abbia “notizia certa” degli abusi. Il paragrafo 18 precisa che chi non ottempera all’obbligo di denuncia “incorre nella scomunica”. Dunque non è scomunicato chi denuncia gli abusi ma, al contrario, chi non li denuncia.
Un'altra gravissima menzogna del documentario consiste nel sostenere, a proposito della lettera De delictis gravioribus del 2001, sottoscritta dal cardinale Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e che dà esecuzione a norme fissate da Giovanni Paolo II poche settimane prima relative alla competenza dei diversi tribunali ecclesiastici, che si tratti del “seguito” della Crimen sollicitationis e che “ribadiva con enfasi la segretezza, pena la scomunica”. In realtà nella lettera del 2001 non si trova neppure una volta la parola “scomunica”. Se c’è qualche cosa di nuovo nella De delictis gravioribus rispetto alla disciplina precedente in tema di abusi sessuali, è il fatto che la lettera crea una disciplina più severa per il caso di abuso di minori, rendendolo perseguibile oltre i normali termini di prescrizione, fino a quando chi dichiara di avere subito abusi quando era minorenne abbia compiuto i ventotto anni. Questo significa – per fare un esempio molto concreto – che se un bambino di quattro anni è vittima di abusi nel 2007, la prescrizione non scatterà fino al 2031, il che mostra bene la volontà della Chiesa di perseguire questi delitti anche molti anni dopo che si sono verificati e ben al di là dei termini di prescrizione consueti.
Certamente nella Chiesa vi sono stati episodi tristi e dolorosi che hanno coinvolto sacerdoti colpevoli di pedofilia e talora anche vescovi che non sono intervenuti tempestivamente per sanzionarli. Al contrario esatto di quanto sostiene il documentario, l'energica azione del cardinale Joseph Ratzinger prima e di Papa Benedetto XVI poi – su cui non a caso si cerca di gettare fango in Italia subito dopo il successo del Family Day –, anche se non ha potuto risolvere tutti i singoli casi, ha costruito una normativa e favorito una prassi di grande severità, rigore e coraggio di cui chiunque abbia studiato il triste problema senza pregiudizi ideologici dà atto al regnante Pontefice.
Si parli, dunque, di un problema reale e doloroso. Ma lo si faccia con verità e correttezza, senza proporre documentari sensazionalistici e falsi che sono a loro volta parte del problema e non della sua soluzione.
Massimo IntrovigneDirettore del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), TorinoAntonio BattagliaLaura BianconiPaola BinettiLuigi ManfrediAlfredo MantovanoLuca MarconiGaetano QuagliarielloGiacomo SantiniGustavo SelvaFrancesco StoraceSenatoriIsabella BertoliniGabriella CarlucciRiccardo MiglioriAngela NapoliPatrizia Paoletti TangheroniSimonetta Licastro ScardinoRoberto UliviLuca VolontéMichele ViettiMarco ZaccheraDeputatiDomenico AiromaMagistratoLuca AntoniniUniversità di PadovaGianpaolo BarraDirettore della rivista Il Timone, MilanoFabrizio BattistoniUniversità Campus Bio-Medico, RomaFrancesco BellottiUniversità di GenovaRoberto BenedettiConsigliere Regionale ToscanaLuigi BerzanoUniversità di TorinoPino BiancoConsulente d’arte, PaviaAndrea BiottiResponsabile Toscana, Giovani del Movimento per la VitaFrancesco BotturiUniversità Cattolica di MilanoMaurizio BrunettiUniversità di Napoli “Federico II”Andrea BuongiornoPresidente, Associazione Askeo, AgrigentoRino CammilleriScrittore, MilanoGiovanni CantoniDirettore della rivista Cristianità e responsabile nazionale di Alleanza Cattolica, PiacenzaLorenzo CantoniUniversità della Svizzera Italiana, LuganoPietro CantoniStudio teologico interdiocesano, CamaioreCiro CaramielloUniversità di Napoli “Federico II”Franco CardiniUniversità di FirenzeDario CaronitiUniversità di MessinaGiovanni CasadioUniversità di SalernoMarina CasiniUniversità Cattolica del Sacro Cuore, RomaPaolo CasoratiUniversità Campus Bio-Medico, RomaMaria Vittoria CattaniaVicepresidente, Laogai Research FoundationGiancarlo CerrelliConsigliere nazionale Unione Giuristi Cattolici Italiani, CrotoneAldo CiappiPresidente, Unione Giuristi Cattolici Italiani, PisaAgostino ClericiDirettore de Il settimanale della diocesi di ComoLuigi Coda NunziantePresidente "Famiglia Domani", RomaGiuseppe ColomboUniversità Cattolica del Sacro Cuore, MilanoAngelo CuntreriUniversità di PalermoPietro CuntreriPresidente, Associazione diocesana di informazione sulle nuove religioni, AgrigentoGianandrea de AntonellisUniversità Europea di RomaCarlo De MarchiSegretario Generale, Istituto per la Cooperazione Universitaria, RomaPietro De MarcoUniversità di FirenzeRoberto de MatteiUniversità Europea di RomaMario Di FiorinoPrimario di psichiatria, Ospedale della Versilia, ViareggioRaffaella Di MarzioPontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, RomaRenato FarinaGiornalista e scrittore, MilanoEnrico FasanaUniversità di Trieste-GoriziaPier Marco FerraresiUniversità di BiellaGiorgio GibertiniResponsabile organizzativo, Movimento per la VitaLuciano GiustiniDirettore della rivista Beta, RomaAlberto Goffi Avvocato e segretario regionale dell’UDC, TorinoNorberto Gonzales GaitanoPontificia Università della Santa CroceAlbino GoriniSegretario generale, FAI-CISLGiulio Dante GuerraConsiglio Nazionale delle Ricerche, PisaPietro Guidi MassiUnione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, Ascoli PicenoMario Arturo IannacconeStoricoPatrizia IannucciUniversità di Napoli “Federico II”Marco InvernizziConduttore radiofonico e saggistaAntonio LiviPontificia Università Lateranense, RomaPiero MacconiConsigliere Regione LombardiaAlberto MairaResponsabile del CESNUR-SiciliaAndrea ManazzaUniversità di TorinoBruno MardeganPresidente, Edizioni Ares, MilanoAntonio MariniStudio teologico interdiocesano, CamaioreMarcello MasottiPresidente, Scienza e Vita, FirenzeAndrea MenegottoResponsabile del CESNUR-LombardiaAldo Alessandro MolaUniversità Libera di BruxellesAndrea MorigiGiornalista e scrittore, MilanoGiuseppa NaroPresidente, Unione Giuristi Cattolici Italiani, CaltanissettaAlessandra NucciGiornalista e scrittrice, BolognaAlessandro PaganoDeputato Regionale, Regione SicilianaMario PalmaroUniversità Europea di RomaErmanno PavesiPsichiatra e saggista, Zuzwil (Svizzera)Alvise Pecori GiraliPresidente, Cooperativa Edizioni Vocepiù, MilanoEnzo PesericoUniversità Cattolica del Sacro Cuore, MilanoPaolo PiccoPresidente, Movimento per la Vita, MonzaMichela PireddaUniversità Campus Bio-Medico, RomaStefano PriaroneSceneggiatore di fumetti e scrittore, MilanoMarco RespintiGiornalista e scrittoreClaudio RiséUniversità di VaresePia RoccoDirettrice, Centro Culturale L’Arengo, BolognaGiuseppe RomanoGiornalista e scrittoreMauro RoncoUniversità di PadovaLetizia RussoUniversità di PalermoGiacomo Samek LodoviciUniversità Cattolica del Sacro Cuore, MilanoMichele SanfilippoUniversità Regina ApostolorumVittorio SanguinetiUniversità di GenovaOscar SanguinettiUniversità Europea di RomaFabio ScarcigliaUniversità della Calabria, CosenzaMaurizio SchoepflinScrittore e giornalistaErrico SerraPresidente “Verità è Libertà”, BresciaEttore SeveriSindaco di Montecatini TermeRaimondo TorregrossaSindaco di San CataldoArmando TursiUniversità di MilanoMichela VarraUniversità di NapoliGuido VignelliDirettore, SOS Ragazzi, RomaGiovanni ZenoneDirettore editoriale, Edizioni Fede & Cultura, VeronaPierLuigi ZoccatelliVice-direttore del CESNUR, Torino
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Giangiacomo
giovedì 24 maggio 2007
Montezemolo attacca la politica
Nei commenti, posto l'intervento completo di Luca Cordero di Montezemolo, pronunciato questa mattina prima di mezzogiorno all'Assemblea dei Soci di Confindustria. è un po' lunghetto...
E' stato un attacco, senza riserve, alla politica, alla mancanza di leadership, all'assenza di un progetto capace di guardare al futuro del Paese, che invece deve essere "un dovere". Quello che il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo ha lanciato dal palco dell'Assemblea annuale degli industriali, è stato un messaggio senza veli, quasi un manifesto per il tanto chiacchierato suo ingresso in politica. Un attacco che ha raccolto consensi incondizionati dalla platea degli imprenditori, riunita all'Auditorium della Musica progettato da Renzo Piano, e che ha provocato la reazione immediata del premier Romano Prodi che, seduto in prima fila, si é lasciato sfuggire: "si commenta da solo". Chi si aspettava una relazione che tirasse le fila dei 3 anni di presidenza, visto che quella di quest'anno è stata l'ultima Assemblea da presidente di Montezemolo, ha dovuto ricredersi. Il numero uno di viale dell'Astronomia, pur non trascurando i temi più propriamente industriali, ha subito mirato al 'bersaglio grosso'. E per sgombrare il campo agli equivoci ha cominciato col rispondere alle stoccate che il presidente della Camera Fausto Bertinotti aveva lanciato nei giorni definendo "impresentabile" il capitalismo italiano.
"Un'autentica falsità", l'ha liquidato Montezemolo. Poi, lancia in resta, l'affondo senza distinzione di parte. "In entrambi gli schieramenti - ha tuonato - sembra mancare la forza per dar vita ad un grande progetto Paese che sappia coinvolgere gli italiani e i cui risultati non si vedranno i tempi brevi. La politica è forte solo quando sono forti le sue idee, le soluzioni che propone, gli scenari che offre al Paese e sui quali mobilita le passioni. L'attuale debolezza della politica e la litigiosità dei partiti comportano seri rischi". All'Italia invece "serve capacità di leadership", che vuol dire soprattutto "riconoscere che la cultura del rischio è un valore" e "restituire al Paese parte di ciò che si è ricevuto, per farlo crescere e consentirgli di affrontare nuove sfide". Perché l'Italia - ha continuato Montezemolo, raccogliendo gli applausi della platea - non può adagiarsi "sui tempi e i rituali della partitocrazia" ed è necessario "andare oltre, proiettarsi nel futuro, ragionare di come potrebbe essere l'Italia nel 2015" perché "non possiamo più permetterci di no decidere". Per questo "la riforma delle istituzioni, della macchina amministrativa e della politica viene prima di tutto": per far marciare il sistema e per ridurre "il costo della rappresentanza politica che, nel suo complesso, in Italia è pari a quello di Francia, Regno Unito, Germania e Spagna messi assieme". E le stime parlano "di un costo complessivo vicino ai 4 miliardi di euro".
Poi la crescita economica. "Deve essere - ha detto Montezemolo - la missione di tutti" e non solo delle imprese, che già sono le protagoniste di una ripresa di cui "non ci possiamo accontentare" perché "non è ancora consolidata, è fragile e si spegnerà rapidamente se saremo lasciati soli". Liberare dunque le forze produttive cominciando ad abbassare una pressione fiscale sulle aziende che "non è accettabile" e "facendo pagare le tasse a tutti". Ma non solo: riformando le relazioni industriali inserendo più flessibilità, rilanciando le liberalizzazioni e la competitività, premiando la produttività, finanziando ricerca ed innovazione, mettendo mano ad opere infrastrutturali che non possono mancare in un Paese moderno. Per fare tutto ciò - ha concluso Montezemolo - è necessario "ritrovarsi attorno al senso di una missione condivisa" e "costruire, tutti insieme, un clima di fiducia nel futuro, senza temere di essere coraggiosi e responsabili, pragmatici e visionari".
domani mattina subito a leggere Il Sole 24 ore e verificare quanto "la voce stampata" di Confindustria mantiene e quanto e cosa evidenzierà!
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Giangiacomo
E' stato un attacco, senza riserve, alla politica, alla mancanza di leadership, all'assenza di un progetto capace di guardare al futuro del Paese, che invece deve essere "un dovere". Quello che il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo ha lanciato dal palco dell'Assemblea annuale degli industriali, è stato un messaggio senza veli, quasi un manifesto per il tanto chiacchierato suo ingresso in politica. Un attacco che ha raccolto consensi incondizionati dalla platea degli imprenditori, riunita all'Auditorium della Musica progettato da Renzo Piano, e che ha provocato la reazione immediata del premier Romano Prodi che, seduto in prima fila, si é lasciato sfuggire: "si commenta da solo". Chi si aspettava una relazione che tirasse le fila dei 3 anni di presidenza, visto che quella di quest'anno è stata l'ultima Assemblea da presidente di Montezemolo, ha dovuto ricredersi. Il numero uno di viale dell'Astronomia, pur non trascurando i temi più propriamente industriali, ha subito mirato al 'bersaglio grosso'. E per sgombrare il campo agli equivoci ha cominciato col rispondere alle stoccate che il presidente della Camera Fausto Bertinotti aveva lanciato nei giorni definendo "impresentabile" il capitalismo italiano.
"Un'autentica falsità", l'ha liquidato Montezemolo. Poi, lancia in resta, l'affondo senza distinzione di parte. "In entrambi gli schieramenti - ha tuonato - sembra mancare la forza per dar vita ad un grande progetto Paese che sappia coinvolgere gli italiani e i cui risultati non si vedranno i tempi brevi. La politica è forte solo quando sono forti le sue idee, le soluzioni che propone, gli scenari che offre al Paese e sui quali mobilita le passioni. L'attuale debolezza della politica e la litigiosità dei partiti comportano seri rischi". All'Italia invece "serve capacità di leadership", che vuol dire soprattutto "riconoscere che la cultura del rischio è un valore" e "restituire al Paese parte di ciò che si è ricevuto, per farlo crescere e consentirgli di affrontare nuove sfide". Perché l'Italia - ha continuato Montezemolo, raccogliendo gli applausi della platea - non può adagiarsi "sui tempi e i rituali della partitocrazia" ed è necessario "andare oltre, proiettarsi nel futuro, ragionare di come potrebbe essere l'Italia nel 2015" perché "non possiamo più permetterci di no decidere". Per questo "la riforma delle istituzioni, della macchina amministrativa e della politica viene prima di tutto": per far marciare il sistema e per ridurre "il costo della rappresentanza politica che, nel suo complesso, in Italia è pari a quello di Francia, Regno Unito, Germania e Spagna messi assieme". E le stime parlano "di un costo complessivo vicino ai 4 miliardi di euro".
Poi la crescita economica. "Deve essere - ha detto Montezemolo - la missione di tutti" e non solo delle imprese, che già sono le protagoniste di una ripresa di cui "non ci possiamo accontentare" perché "non è ancora consolidata, è fragile e si spegnerà rapidamente se saremo lasciati soli". Liberare dunque le forze produttive cominciando ad abbassare una pressione fiscale sulle aziende che "non è accettabile" e "facendo pagare le tasse a tutti". Ma non solo: riformando le relazioni industriali inserendo più flessibilità, rilanciando le liberalizzazioni e la competitività, premiando la produttività, finanziando ricerca ed innovazione, mettendo mano ad opere infrastrutturali che non possono mancare in un Paese moderno. Per fare tutto ciò - ha concluso Montezemolo - è necessario "ritrovarsi attorno al senso di una missione condivisa" e "costruire, tutti insieme, un clima di fiducia nel futuro, senza temere di essere coraggiosi e responsabili, pragmatici e visionari".
domani mattina subito a leggere Il Sole 24 ore e verificare quanto "la voce stampata" di Confindustria mantiene e quanto e cosa evidenzierà!
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Giangiacomo
martedì 22 maggio 2007
Molto rumore per nulla: il Papa, la pedofilia e il documentario "Sex, crimes and the Vatican"
Solo la rabbia laicista dopo il Family Day spiega perché, subito dopo la grande manifestazione romana, all’improvviso il documentario dell’ottobre 2006 della BBC “Sex Crimes and the Vatican” abbia cominciato a circolare su Internet con sottotitoli italiani, e i vari Santoro abbiano cominciato ad agitarsi. Il documentario, infatti, è merce avariata: quando uscì fu subito fatto a pezzi dagli specialisti di diritto canonico, in quanto confonde diritto della Chiesa e diritto dello Stato. La Chiesa ha anche un suo diritto penale, che si occupa tra l’altro delle infrazioni commesse da sacerdoti e delle relative sanzioni, dalla sospensione a divinis alla scomunica. Queste pene non c’entrano con lo Stato, anche se potrà capitare che un sacerdote colpevole di un delitto che cade anche sotto le leggi civili sia giudicato due volte: dalla Chiesa, che lo ridurrà allo stato laicale, e dallo Stato, che lo metterà in prigione.
Il 30 aprile 2001 Papa Giovanni Paolo II (1920-2005) pubblica la lettera apostolica Sacramentorum sanctitatis tutela, con una serie di norme su quali processi penali canonici siano riservati alla giurisdizione della Congregazione per la dottrina della fede e quali ad altri tribunali vaticani o diocesani. La lettera De delictis gravioribus, firmata dal cardinale Joseph Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede il 18 maggio 2001 – quella presentata dalla BBC come un documento segreto, mentre fu subito pubblicata sul bollettino ufficiale della Santa Sede e figura sul sito Internet del Vaticano – costituisce il regolamento di esecuzione delle norme fissate da Giovanni Paolo II. Il documentario al riguardo afferma tre volte il falso:
(a) presenta come segreto un documento del tutto pubblico e palese:
(b) dal momento che il “cattivo” del documentario dev’essere l’attuale Pontefice, Benedetto XVI (per i laicisti il Papa “buono” è sempre quello morto), non spiega che la De delictis gravioribus firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede il 18 maggio 2001 ha l’unico scopo di dare esecuzione pratica alle norme promulgate con la lettera apostolica Sacramentorum sanctitatis tutela, del precedente 30 aprile, che è di Giovanni Paolo II;
(c) lascia intendere al telespettatore sprovveduto che quando la Chiesa afferma che i processi relativi a certi delicta graviora (“crimini più gravi”), tra cui alcuni di natura sessuale, sono riservati alla giurisdizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, intende con questo dare istruzione ai vescovi di sottrarli alla giurisdizione dello Stato e tenerli nascosti. Al contrario, è del tutto evidente che questi documenti si occupano del problema, una volta instaurato un giudizio ecclesiastico, a norma del diritto canonico, a chi spetti la competenza fra Congregazione per la Dottrina della Fede, che in questi casi agisce “in qualità di tribunale apostolico” (così la Sacramentorum sanctitatis tutela), e altri tribunali ecclesiastici. Questi documenti, invece, non si occupano affatto – né potrebbero, vista la loro natura, farlo – delle denunzie e dei provvedimenti dei tribunali civili degli Stati. A chiunque conosca, anche minimamente, il funzionamento della Chiesa cattolica è evidente che quando i due documenti scrivono che “questi delitti sono riservati alla competenza esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede” la parola “esclusiva” significa “che esclude la competenza di altri tribunali ecclesiastici” e non – come vuole far credere il documentario – “che esclude la competenza dei tribunali degli Stati, a cui terremo nascoste queste vicende anche qualora si tratti di delitti previsti e puniti delle leggi dello Stato”. Non è in questione questo o quell’episodio concreto di conflitti fra Chiesa e Stati. Le due lettere dichiarano fin dall’inizio la loro portata e il loro ambito, che è quello di regolare questioni di competenza all’interno dell’ordinamento giuridico canonico. L’ordinamento giuridico degli Stati, semplicemente, non c’entra.
Nella nota 3 della lettera della Congregazione per la dottrina della fede – ma per la verità anche nel testo della precedente lettera di Giovanni Paolo II – si cita l’istruzione Crimen sollicitationis emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede, che allora si chiamava Sant’Uffizio, il 16 marzo 1962, durante il pontificato del Beato Giovanni XXIII (1881-1963) ben prima che alla Congregazione arrivasse lo stesso Ratzinger (che quindi, com’è ovvio, con l’istruzione non c’entra nulla: all’epoca faceva il professore di teologia in Germania). Questa istruzione dimenticata, “scoperta” nel 2001 solo in grazia dei nuovi documenti, non si occupa affatto di pedofilia ma del vecchio problema dei sacerdoti che abusano del sacramento della confessione per intessere relazioni sessuali con le loro penitenti. L’istruzione del 1962 non nasconde questi abusi, anzi al contrario impone a chiunque ne venga a conoscenza di denunciarli sotto pena di scomunica. Dispone che i relativi processi si svolgano a porte chiuse, a tutela della riservatezza delle vittime, dei testimoni e anche degli imputati, tanto più se eventualmente innocenti. Non si tratta evidentemente dell’unico caso di processi a porte chiuse, né nell’ordinamento ecclesiastico né in quelli statuali. Quanto al carattere “segreto” del documento, menzionato nel testo, si tratta di un “segreto” giustificato dalla delicatezza della materia ma molto relativo, dal momento che fu trasmesso ai vescovi di tutto il mondo. Comunque sia, anche l’istruzione Crimen sollicitationis non riguarda in alcun modo la questione se eventuali attività illecite messe in atto da sacerdoti tramite l’abuso del sacramento della confessione debbano essere segnalate da chi ne venga a conoscenza alle autorità civili. Riguarda solo le questioni di procedura per il perseguimento di questi delitti all’interno dell’ordinamento canonico, e al fine di irrogare sanzioni canoniche ai sacerdoti colpevoli.
La lettera del 2001, al contrario di quanto fa credere il documentario, crea semmai una disciplina più severa per il caso di abuso di minori, rendendolo perseguibile oltre i normali termini di prescrizione, fino a quando chi dichiara di avere subito abusi quando era minorenne abbia compiuto i ventotto anni. Questo significa – per fare un esempio molto concreto – che se un bambino di quattro anni è vittima di abusi nel 2007, la prescrizione non scatterà fino al 2031, il che mostra bene la volontà della Chiesa di perseguire questi delitti anche molti anni dopo che si sono verificati e ben al di là dei termini di prescrizione consueti. Con questa nuova disciplina la durezza della Chiesa verso i sacerdoti accusati di pedofilia è molto cresciuta con Benedetto XVI, come dimostrano casi dove, nel dubbio, Roma ha preferito prendere provvedimenti cautelativi anche dove non c’erano prove di presunti abusi che si asserivano avvenuti molti anni fa, e la stessa nomina del cardinale americano William Joseph Levada, noto per la sua severità nei confronti dei preti pedofili, a prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Tutte queste norme riguardano, ancora una volta, il diritto canonico, cioè le sospensioni e le scomuniche per i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali. Non c’entrano nulla con il diritto civile, o con il principio generale secondo cui – fatto salvo il solo segreto della confessione – chi nella Chiesa venga a conoscenza di un reato giustamente punito dalle leggi dello Stato ha il dovere di denunciarlo alle autorità competenti. Certo, in passato questo non è sempre avvenuto. Il legittimo desiderio di proteggere sacerdoti innocenti ingiustamente calunniati (ce ne sono stati, e ce ne sono, molti) qualche volta è stato confuso con un “buonismo” che ha ostacolato indagini legittime degli Stati. Benedetto XVI ha più volte stigmatizzato ogni forma di buonismo sul tema (si veda per esempio il discorso ai vescovi dell’Irlanda in visita ad Limina Apostolorum, del 28 ottobre 2006): e in realtà il trasferimento della competenza dalle diocesi, dove i giudici spesso possono avere rapporti di amicizia con gli accusati, a Roma mirava fin dall’inizio a garantire maggiore rigore e severità. In ogni caso, le misure prese nell’ambito del diritto canonico per perseguire i crimini di natura sessuale commessi dal clero, e la denuncia dei responsabili alle autorità dello Stato, costituiscono due vicende del tutto diverse. La confusione, intrattenuta ad arte per gettare fango sul Papa, è solo frutto del pregiudizio e dell’ignoranza.
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Il 30 aprile 2001 Papa Giovanni Paolo II (1920-2005) pubblica la lettera apostolica Sacramentorum sanctitatis tutela, con una serie di norme su quali processi penali canonici siano riservati alla giurisdizione della Congregazione per la dottrina della fede e quali ad altri tribunali vaticani o diocesani. La lettera De delictis gravioribus, firmata dal cardinale Joseph Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede il 18 maggio 2001 – quella presentata dalla BBC come un documento segreto, mentre fu subito pubblicata sul bollettino ufficiale della Santa Sede e figura sul sito Internet del Vaticano – costituisce il regolamento di esecuzione delle norme fissate da Giovanni Paolo II. Il documentario al riguardo afferma tre volte il falso:
(a) presenta come segreto un documento del tutto pubblico e palese:
(b) dal momento che il “cattivo” del documentario dev’essere l’attuale Pontefice, Benedetto XVI (per i laicisti il Papa “buono” è sempre quello morto), non spiega che la De delictis gravioribus firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede il 18 maggio 2001 ha l’unico scopo di dare esecuzione pratica alle norme promulgate con la lettera apostolica Sacramentorum sanctitatis tutela, del precedente 30 aprile, che è di Giovanni Paolo II;
(c) lascia intendere al telespettatore sprovveduto che quando la Chiesa afferma che i processi relativi a certi delicta graviora (“crimini più gravi”), tra cui alcuni di natura sessuale, sono riservati alla giurisdizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, intende con questo dare istruzione ai vescovi di sottrarli alla giurisdizione dello Stato e tenerli nascosti. Al contrario, è del tutto evidente che questi documenti si occupano del problema, una volta instaurato un giudizio ecclesiastico, a norma del diritto canonico, a chi spetti la competenza fra Congregazione per la Dottrina della Fede, che in questi casi agisce “in qualità di tribunale apostolico” (così la Sacramentorum sanctitatis tutela), e altri tribunali ecclesiastici. Questi documenti, invece, non si occupano affatto – né potrebbero, vista la loro natura, farlo – delle denunzie e dei provvedimenti dei tribunali civili degli Stati. A chiunque conosca, anche minimamente, il funzionamento della Chiesa cattolica è evidente che quando i due documenti scrivono che “questi delitti sono riservati alla competenza esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede” la parola “esclusiva” significa “che esclude la competenza di altri tribunali ecclesiastici” e non – come vuole far credere il documentario – “che esclude la competenza dei tribunali degli Stati, a cui terremo nascoste queste vicende anche qualora si tratti di delitti previsti e puniti delle leggi dello Stato”. Non è in questione questo o quell’episodio concreto di conflitti fra Chiesa e Stati. Le due lettere dichiarano fin dall’inizio la loro portata e il loro ambito, che è quello di regolare questioni di competenza all’interno dell’ordinamento giuridico canonico. L’ordinamento giuridico degli Stati, semplicemente, non c’entra.
Nella nota 3 della lettera della Congregazione per la dottrina della fede – ma per la verità anche nel testo della precedente lettera di Giovanni Paolo II – si cita l’istruzione Crimen sollicitationis emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede, che allora si chiamava Sant’Uffizio, il 16 marzo 1962, durante il pontificato del Beato Giovanni XXIII (1881-1963) ben prima che alla Congregazione arrivasse lo stesso Ratzinger (che quindi, com’è ovvio, con l’istruzione non c’entra nulla: all’epoca faceva il professore di teologia in Germania). Questa istruzione dimenticata, “scoperta” nel 2001 solo in grazia dei nuovi documenti, non si occupa affatto di pedofilia ma del vecchio problema dei sacerdoti che abusano del sacramento della confessione per intessere relazioni sessuali con le loro penitenti. L’istruzione del 1962 non nasconde questi abusi, anzi al contrario impone a chiunque ne venga a conoscenza di denunciarli sotto pena di scomunica. Dispone che i relativi processi si svolgano a porte chiuse, a tutela della riservatezza delle vittime, dei testimoni e anche degli imputati, tanto più se eventualmente innocenti. Non si tratta evidentemente dell’unico caso di processi a porte chiuse, né nell’ordinamento ecclesiastico né in quelli statuali. Quanto al carattere “segreto” del documento, menzionato nel testo, si tratta di un “segreto” giustificato dalla delicatezza della materia ma molto relativo, dal momento che fu trasmesso ai vescovi di tutto il mondo. Comunque sia, anche l’istruzione Crimen sollicitationis non riguarda in alcun modo la questione se eventuali attività illecite messe in atto da sacerdoti tramite l’abuso del sacramento della confessione debbano essere segnalate da chi ne venga a conoscenza alle autorità civili. Riguarda solo le questioni di procedura per il perseguimento di questi delitti all’interno dell’ordinamento canonico, e al fine di irrogare sanzioni canoniche ai sacerdoti colpevoli.
La lettera del 2001, al contrario di quanto fa credere il documentario, crea semmai una disciplina più severa per il caso di abuso di minori, rendendolo perseguibile oltre i normali termini di prescrizione, fino a quando chi dichiara di avere subito abusi quando era minorenne abbia compiuto i ventotto anni. Questo significa – per fare un esempio molto concreto – che se un bambino di quattro anni è vittima di abusi nel 2007, la prescrizione non scatterà fino al 2031, il che mostra bene la volontà della Chiesa di perseguire questi delitti anche molti anni dopo che si sono verificati e ben al di là dei termini di prescrizione consueti. Con questa nuova disciplina la durezza della Chiesa verso i sacerdoti accusati di pedofilia è molto cresciuta con Benedetto XVI, come dimostrano casi dove, nel dubbio, Roma ha preferito prendere provvedimenti cautelativi anche dove non c’erano prove di presunti abusi che si asserivano avvenuti molti anni fa, e la stessa nomina del cardinale americano William Joseph Levada, noto per la sua severità nei confronti dei preti pedofili, a prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Tutte queste norme riguardano, ancora una volta, il diritto canonico, cioè le sospensioni e le scomuniche per i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali. Non c’entrano nulla con il diritto civile, o con il principio generale secondo cui – fatto salvo il solo segreto della confessione – chi nella Chiesa venga a conoscenza di un reato giustamente punito dalle leggi dello Stato ha il dovere di denunciarlo alle autorità competenti. Certo, in passato questo non è sempre avvenuto. Il legittimo desiderio di proteggere sacerdoti innocenti ingiustamente calunniati (ce ne sono stati, e ce ne sono, molti) qualche volta è stato confuso con un “buonismo” che ha ostacolato indagini legittime degli Stati. Benedetto XVI ha più volte stigmatizzato ogni forma di buonismo sul tema (si veda per esempio il discorso ai vescovi dell’Irlanda in visita ad Limina Apostolorum, del 28 ottobre 2006): e in realtà il trasferimento della competenza dalle diocesi, dove i giudici spesso possono avere rapporti di amicizia con gli accusati, a Roma mirava fin dall’inizio a garantire maggiore rigore e severità. In ogni caso, le misure prese nell’ambito del diritto canonico per perseguire i crimini di natura sessuale commessi dal clero, e la denuncia dei responsabili alle autorità dello Stato, costituiscono due vicende del tutto diverse. La confusione, intrattenuta ad arte per gettare fango sul Papa, è solo frutto del pregiudizio e dell’ignoranza.
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Giangiacomo
Come convivere laicamente con un papato di ferro (senza smarrirsi)
Un Papa bavarese, erede anche della stabilità e dell'ordine dei Wittelsbach; un Papa che ha studiato e lavorato un quarto di secolo a Roma, dove è succeduto infine nel terzo millennio a gente che veniva dalla Galilea, dal lago di Tiberiade; un Papa che parla direttamente con le sources chrétiennes, che maneggia la Bibbia dal Genesi a San Paolo, da Mosè a Gesù di Nazaret, che sa di greco e di latino da non-erudito, ellenizzato lui stesso e latinizzato nella storia europea; un Papa filosofo platonico e agostiniano, con un debito dissimulato anche verso Tommaso d'Aquino, l'omone di santo genio che ha insegnato all'occidente cristiano come si ragiona di tutto, dalle unghie dei risorti carnali allo spirito dello spirito: ecco, questo Papa ha parlato in Brasile al grande mondo dei semplici in tormento, e con quale chiarezza adamantina ha parlato. Così, ha parlato.
Il Papa è il vescovo successore di Pietro e fuori dalla comunione con lui non c'è tradizione o eredità cattolica, i preti si dedicano alla cura delle anime e non a quella delle loro famiglie, la verginità prima del matrimonio è un criterio da innalzare e non un costume da irridere, di famiglia ce n'è una sola e il divorzio ne devasta il significato, l'aborto uccide la maternità oltre che il frutto dell'amore, l'impegno sociale della chiesa è un diritto, Dio ha uno spazio che comprende la vita pubblica, la liturgia non è proprietà privata di nessuno perché "è" e basta, la fede troppo semplice e non sufficientemente evangelizzata e catechizzata non regge alla sfida della religiosità fai date, e le "delucidazioni" sull'incontro dei cristiani con Cristo è il centro del messaggio della chiesa universale.
La nostra anima perfettamente secolarizzata pensa: che bello stinco di reazionario, che pontefice antimoderno, quanti danni sta facendo Ratzinger alla nostra dolce convivenza con l'ideologia liberale che governa le nostre vite, quanto ci divide, che grossa spada sta portando nella pubblica arena. Il rispettabile cattolico post dossettiano alla Alberto Melloni pensa: che errore teologico e storico, la chiesa doveva liquefarsi nel secolo, abbracciarne come profetici segni dei tempi le abitudini e il modo di vivere, presentarsi come mondo tra i mondi e purificarsi nella nuova Pentecoste del Concilio della sua arroganza, dei residui di temporalismo, delle logiche di potere e di scambio costantiniano che ne limitano gravemente la capacità di parlare alla fede, alla sola fede che salva, quella privata e della comunità del popolo di Dio che non ha casa, in senso agostiniano, che vive in strada e si confeziona da solo, libero, il proprio senso profetico.
Io rispetto il pensiero degli altri, aspettando che maturi il rispetto per il pensiero o magistero di un Papa che mi piace, che sa dire quel che si deve dire a favore della ragione e contro il razionalismo astratto.
E non sono papista perché voglio "strumentalizzare la religione" (com'è sempre banale, piatto, il pensiero dell'onorevole Prodi, con tutti quei fratelli che sanno e che ragionano potrebbe informarsi almeno in famiglia!).
Sono papista perché sento con sempre maggiore chiarezza che qualcosa di serio e profondo non funziona nel nostro modo di vivere, e che la libertà di vivere come a ciascuno pare e piace, sacra in linea di principio, si sta rovesciando nell'obbligo di vivere come impone l'ideologia secolarista, sempre conformi a una linea di fatto.
Se ne può parlare liberamente, della verginità prima del matrimonio che suona ruralismo ideologico e proibizionismo urticante contro l'uso precoce dei sensi, suona proprio così al cospetto dell'amor civile celebrato con il divorzio in Piazza Navona, ma se ne può parlare soltanto se venga rispettato, compreso, accolto con simpatia e non con irrisione l'insieme del discorso pubblico nuovo della chiesa cattolica e di tante altre denominazioni, cristiane e non (penso alla sortita del rabbino Di Segni sull'omosessualità).
O i laici si aprono al confronto, e si reinventano, oppure asfaltano una brutta strada che sarà percorsa dal carrozzone dell'incomprensione, della rigidità ideologica, chiunque vinca alla fine, e sappiamo tutti che la vittoria vola per adesso sulle ali dispiegate dell'informazione di massa, della pubblicità di massa, della cultura di massa supersecolarizzata.
Ma per laici veri, vincere nel disonore di un mancato confronto, vincere non con l'ironia di una cultura che si contamina con quella più antica e più densa dei cristiani, vincere con la forza d'inerzia, non è un premio. È una condanna.
see u,
Giangiacomo
Il Papa è il vescovo successore di Pietro e fuori dalla comunione con lui non c'è tradizione o eredità cattolica, i preti si dedicano alla cura delle anime e non a quella delle loro famiglie, la verginità prima del matrimonio è un criterio da innalzare e non un costume da irridere, di famiglia ce n'è una sola e il divorzio ne devasta il significato, l'aborto uccide la maternità oltre che il frutto dell'amore, l'impegno sociale della chiesa è un diritto, Dio ha uno spazio che comprende la vita pubblica, la liturgia non è proprietà privata di nessuno perché "è" e basta, la fede troppo semplice e non sufficientemente evangelizzata e catechizzata non regge alla sfida della religiosità fai date, e le "delucidazioni" sull'incontro dei cristiani con Cristo è il centro del messaggio della chiesa universale.
La nostra anima perfettamente secolarizzata pensa: che bello stinco di reazionario, che pontefice antimoderno, quanti danni sta facendo Ratzinger alla nostra dolce convivenza con l'ideologia liberale che governa le nostre vite, quanto ci divide, che grossa spada sta portando nella pubblica arena. Il rispettabile cattolico post dossettiano alla Alberto Melloni pensa: che errore teologico e storico, la chiesa doveva liquefarsi nel secolo, abbracciarne come profetici segni dei tempi le abitudini e il modo di vivere, presentarsi come mondo tra i mondi e purificarsi nella nuova Pentecoste del Concilio della sua arroganza, dei residui di temporalismo, delle logiche di potere e di scambio costantiniano che ne limitano gravemente la capacità di parlare alla fede, alla sola fede che salva, quella privata e della comunità del popolo di Dio che non ha casa, in senso agostiniano, che vive in strada e si confeziona da solo, libero, il proprio senso profetico.
Io rispetto il pensiero degli altri, aspettando che maturi il rispetto per il pensiero o magistero di un Papa che mi piace, che sa dire quel che si deve dire a favore della ragione e contro il razionalismo astratto.
E non sono papista perché voglio "strumentalizzare la religione" (com'è sempre banale, piatto, il pensiero dell'onorevole Prodi, con tutti quei fratelli che sanno e che ragionano potrebbe informarsi almeno in famiglia!).
Sono papista perché sento con sempre maggiore chiarezza che qualcosa di serio e profondo non funziona nel nostro modo di vivere, e che la libertà di vivere come a ciascuno pare e piace, sacra in linea di principio, si sta rovesciando nell'obbligo di vivere come impone l'ideologia secolarista, sempre conformi a una linea di fatto.
Se ne può parlare liberamente, della verginità prima del matrimonio che suona ruralismo ideologico e proibizionismo urticante contro l'uso precoce dei sensi, suona proprio così al cospetto dell'amor civile celebrato con il divorzio in Piazza Navona, ma se ne può parlare soltanto se venga rispettato, compreso, accolto con simpatia e non con irrisione l'insieme del discorso pubblico nuovo della chiesa cattolica e di tante altre denominazioni, cristiane e non (penso alla sortita del rabbino Di Segni sull'omosessualità).
O i laici si aprono al confronto, e si reinventano, oppure asfaltano una brutta strada che sarà percorsa dal carrozzone dell'incomprensione, della rigidità ideologica, chiunque vinca alla fine, e sappiamo tutti che la vittoria vola per adesso sulle ali dispiegate dell'informazione di massa, della pubblicità di massa, della cultura di massa supersecolarizzata.
Ma per laici veri, vincere nel disonore di un mancato confronto, vincere non con l'ironia di una cultura che si contamina con quella più antica e più densa dei cristiani, vincere con la forza d'inerzia, non è un premio. È una condanna.
see u,
Giangiacomo
lunedì 21 maggio 2007
Ecco come l’America (non) regola il conflitto d’interessi
Nessuna legge impone agli eletti vendita, blind trust o dettagli sui redditi. Il giudizio spetta agli elettori!
I diciotto candidati alla Casa Bianca non sono obbligati a presentare la denuncia dei redditi e nessuno di loro, tranne Obama, lo farà!
Eppure ci sono businessman come Romney o il multimilionario Edwards, forse anche il sindaco di New York Bloomberg, "the king of conflict of interests"
Nel paese dove il conflitto di interessi è una cosa seria, non esiste una legge che impedisca al proprietario di aziende, azioni, imperi industriali o mediatici, di candidarsi a cariche pubbliche e di governo.
L’ipotesi di vendita forzosa non è presa in considerazione. Qualora un miliardario o un imprenditore, anche del mondo dell’informazione, venisse eletto a una carica pubblica non è obbligato né a vendere le sue proprietà né a metterle in un blind trust, cioè in un fondo cieco amministrato da terzi. Può farlo o non farlo, il giudizio poi spetta agli elettori.
L’eletto non è nemmeno obbligato a presentare la dichiarazione dei redditi completa, come si fa in Italia da ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi. Prendete i diciotto candidati alla Casa Bianca 2008, dieci repubblicani e otto democratici. E’ notizia di ieri che nessuno di loro, tranne Barack Obama, renderà pubblici i dettagli dei propri interessi finanziari.
Nel 2000 e nel 2004 George W. Bush l’aveva fatto, rendendo noti i suoi “tax returns”, mentre il suo sfidante John Kerry aveva negato di svelare gli asset finanziari di sua moglie, la multimilionaria Teresa Heinz Kerry. Bill Clinton, nel 1992, non fece conoscere l’entità e la qualità dei suoi redditi. Rudy Giuliani è proprietario di una società con intrecci finanziari e interessi pubblici in mezzo mondo, John Edwards è un multimilionario che fino a pochi mesi fa ha lavorato per un hedge fund, Mitt Romney è un businessman e, probabilmente, il più ricco di tutti, anche se mai quanto il magnate dell’informazione finanziaria Mike Bloomberg, ora sindaco di New York e solido proprietario del suo impero.
Secondo molti analisti, nessuno dei quali si scandalizza, Bloomberg potrebbe scendere in campo alle presidenziali 2008, proprio grazie al suo patrimonio che gli consentirebbe di utilizzare 500 milioni di dollari di tasca propria e di evitare il fastidioso e lungo processo di raccolta fondi a cui sono obbligati gli altri candidati. Una volta eletto sindaco di New York Bloomberg ha chiesto al New York City Conflicts of Interest Board, un organo comunale nominato dallo stesso sindaco della città, di valutare se una piccola quota del suo patrimonio, circa 50 milioni di dollari su un totale, allora, di 4 miliardi, fosse in potenziale conflitto di interessi perché investito direttamente in società che fornivano servizi al Comune. Bloomberg avrebbe potuto mettere quei pochi titoli in un blind trust, ma non l’ha fatto, preferendo venderli e dare in beneficenza il ricavato. Da sindaco, Bloomberg non rende nota la sua dichiarazione dei redditi. Se lo facesse – ha detto – danneggerebbe il business delle sue società. La Bloomberg L.P. è un megagruppo che fornisce notizie e analisi finanziarie a banche e istituzioni, possiede un’agenzia di stampa, una radio e una tv. Il suo fondatore e proprietario, dimessosi dalla gestione operativa, è socio della banca d’affari Merrill Lynch, detiene quote di 85 società quotate e ha obbligazioni milionarie della città che governa. Tutto ciò è consentito e non è tema di battaglia politica.
Dalla metà degli anni Settanta è consuetudine, però, far conoscere al pubblico alcune informazioni minime. I candidati alla presidenza, e i membri del Congresso, compilano un modulo che descrive in modo parziale fonte e tipo dei propri guadagni, senza entrare nello specifico e senza rivelare l’esatto ammontare. Questi dati, in ogni caso, non vengono controllati e verificati dallo stato federale, lasciando quindi aperta la possibilità ai candidati di fornire notizie incomplete. Nel modulo ci sono nove categorie di entrate, così ampie e vaghe che le ultime due sono: “Più di un milione di dollari, ma meno di 5 milioni” e “oltre 5 milioni di dollari”.
Il conflitto di interessi vero e proprio, invece, è regolato da un Codice di “leggi etiche” di 90 pagine, disponibile presso l’United States Office of Government Ethics.
A differenza delle ipotesi in discussione in Italia, le norme non si occupano dei conflitti potenziali, ma puntano a garantire la trasparenza decisionale e si limitano a sanzionare penalmente i comportamenti privati che effettivamente confliggono con gli interessi pubblici. “Va segnalato – si legge nel report del 31 ottobre 2003 del Congresso degli Stati Uniti che fa il punto delle leggi americane sul conflitto di interessi – che non esiste alcuna legge federale che richiede espressamente a un particolare funzionario federale, o a una categoria di funzionari, di mettere i propri asset in un fondo cieco per esercitare un lavoro pubblico all’interno del governo federale”. Ancora: “I funzionari federali e gli impiegati non sono obbligati a dismettere i loro beni per evitare il conflitto di interessi. Piuttosto… i metodi principali di regolamentazione dei conflitti di interessi, a norma delle leggi federali, sono l’esclusione e la trasparenza (disclosure)”.
Le leggi americane, dunque, non impediscono a priori a nessuno, neanche a un simil Berlusconi locale, l’elezione o la nomina a cariche politiche o di governo. La legge americana, malamente invocata in Italia, prescrive esclusivamente “l’esclusione”, cioè la ricusazione, l’astensione dal partecipare a decisioni pubbliche che potrebbero favorire interessi privati, e poi la trasparenza, cioè rendere pubblici i propri interessi finanziari.
Ma c’è di più, molto di più. Seguite bene: l’obbligo di non partecipare alle decisioni pubbliche potenzialmente confliggenti con gli interessi privati vale soltanto per i funzionari di governo e per gli impiegati federali, ma non si applica né al presidente degli Stati Uniti né al vicepresidente né ai parlamentari di Camera e Senato né ai giudici federali (articolo 202, comma c del Codice degli Stati Uniti).
Ancora prima che questa esplicita esenzione fosse iscritta nel Codice, era consuetudine consolidata escludere presidente e vicepresidente dalle norme sul conflitto d’interesse, per lo stesso motivo per cui non sono mai state applicate nei confronti dei parlamentari: “Una ricusazione obbligatoria potrebbe, in teoria, interferire con i doveri di presidente e vicepresidente richiesti dalla Costituzione”, si legge nel report del Congresso, perché in democrazia liberale è più importante l’interesse pubblico che gli eletti sono chiamati a perseguire, piuttosto che il potenziale conflitto con i loro interessi privati.
Il Foglio
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Giangiacomo
I diciotto candidati alla Casa Bianca non sono obbligati a presentare la denuncia dei redditi e nessuno di loro, tranne Obama, lo farà!
Eppure ci sono businessman come Romney o il multimilionario Edwards, forse anche il sindaco di New York Bloomberg, "the king of conflict of interests"
Nel paese dove il conflitto di interessi è una cosa seria, non esiste una legge che impedisca al proprietario di aziende, azioni, imperi industriali o mediatici, di candidarsi a cariche pubbliche e di governo.
L’ipotesi di vendita forzosa non è presa in considerazione. Qualora un miliardario o un imprenditore, anche del mondo dell’informazione, venisse eletto a una carica pubblica non è obbligato né a vendere le sue proprietà né a metterle in un blind trust, cioè in un fondo cieco amministrato da terzi. Può farlo o non farlo, il giudizio poi spetta agli elettori.
L’eletto non è nemmeno obbligato a presentare la dichiarazione dei redditi completa, come si fa in Italia da ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi. Prendete i diciotto candidati alla Casa Bianca 2008, dieci repubblicani e otto democratici. E’ notizia di ieri che nessuno di loro, tranne Barack Obama, renderà pubblici i dettagli dei propri interessi finanziari.
Nel 2000 e nel 2004 George W. Bush l’aveva fatto, rendendo noti i suoi “tax returns”, mentre il suo sfidante John Kerry aveva negato di svelare gli asset finanziari di sua moglie, la multimilionaria Teresa Heinz Kerry. Bill Clinton, nel 1992, non fece conoscere l’entità e la qualità dei suoi redditi. Rudy Giuliani è proprietario di una società con intrecci finanziari e interessi pubblici in mezzo mondo, John Edwards è un multimilionario che fino a pochi mesi fa ha lavorato per un hedge fund, Mitt Romney è un businessman e, probabilmente, il più ricco di tutti, anche se mai quanto il magnate dell’informazione finanziaria Mike Bloomberg, ora sindaco di New York e solido proprietario del suo impero.
Secondo molti analisti, nessuno dei quali si scandalizza, Bloomberg potrebbe scendere in campo alle presidenziali 2008, proprio grazie al suo patrimonio che gli consentirebbe di utilizzare 500 milioni di dollari di tasca propria e di evitare il fastidioso e lungo processo di raccolta fondi a cui sono obbligati gli altri candidati. Una volta eletto sindaco di New York Bloomberg ha chiesto al New York City Conflicts of Interest Board, un organo comunale nominato dallo stesso sindaco della città, di valutare se una piccola quota del suo patrimonio, circa 50 milioni di dollari su un totale, allora, di 4 miliardi, fosse in potenziale conflitto di interessi perché investito direttamente in società che fornivano servizi al Comune. Bloomberg avrebbe potuto mettere quei pochi titoli in un blind trust, ma non l’ha fatto, preferendo venderli e dare in beneficenza il ricavato. Da sindaco, Bloomberg non rende nota la sua dichiarazione dei redditi. Se lo facesse – ha detto – danneggerebbe il business delle sue società. La Bloomberg L.P. è un megagruppo che fornisce notizie e analisi finanziarie a banche e istituzioni, possiede un’agenzia di stampa, una radio e una tv. Il suo fondatore e proprietario, dimessosi dalla gestione operativa, è socio della banca d’affari Merrill Lynch, detiene quote di 85 società quotate e ha obbligazioni milionarie della città che governa. Tutto ciò è consentito e non è tema di battaglia politica.
Dalla metà degli anni Settanta è consuetudine, però, far conoscere al pubblico alcune informazioni minime. I candidati alla presidenza, e i membri del Congresso, compilano un modulo che descrive in modo parziale fonte e tipo dei propri guadagni, senza entrare nello specifico e senza rivelare l’esatto ammontare. Questi dati, in ogni caso, non vengono controllati e verificati dallo stato federale, lasciando quindi aperta la possibilità ai candidati di fornire notizie incomplete. Nel modulo ci sono nove categorie di entrate, così ampie e vaghe che le ultime due sono: “Più di un milione di dollari, ma meno di 5 milioni” e “oltre 5 milioni di dollari”.
Il conflitto di interessi vero e proprio, invece, è regolato da un Codice di “leggi etiche” di 90 pagine, disponibile presso l’United States Office of Government Ethics.
A differenza delle ipotesi in discussione in Italia, le norme non si occupano dei conflitti potenziali, ma puntano a garantire la trasparenza decisionale e si limitano a sanzionare penalmente i comportamenti privati che effettivamente confliggono con gli interessi pubblici. “Va segnalato – si legge nel report del 31 ottobre 2003 del Congresso degli Stati Uniti che fa il punto delle leggi americane sul conflitto di interessi – che non esiste alcuna legge federale che richiede espressamente a un particolare funzionario federale, o a una categoria di funzionari, di mettere i propri asset in un fondo cieco per esercitare un lavoro pubblico all’interno del governo federale”. Ancora: “I funzionari federali e gli impiegati non sono obbligati a dismettere i loro beni per evitare il conflitto di interessi. Piuttosto… i metodi principali di regolamentazione dei conflitti di interessi, a norma delle leggi federali, sono l’esclusione e la trasparenza (disclosure)”.
Le leggi americane, dunque, non impediscono a priori a nessuno, neanche a un simil Berlusconi locale, l’elezione o la nomina a cariche politiche o di governo. La legge americana, malamente invocata in Italia, prescrive esclusivamente “l’esclusione”, cioè la ricusazione, l’astensione dal partecipare a decisioni pubbliche che potrebbero favorire interessi privati, e poi la trasparenza, cioè rendere pubblici i propri interessi finanziari.
Ma c’è di più, molto di più. Seguite bene: l’obbligo di non partecipare alle decisioni pubbliche potenzialmente confliggenti con gli interessi privati vale soltanto per i funzionari di governo e per gli impiegati federali, ma non si applica né al presidente degli Stati Uniti né al vicepresidente né ai parlamentari di Camera e Senato né ai giudici federali (articolo 202, comma c del Codice degli Stati Uniti).
Ancora prima che questa esplicita esenzione fosse iscritta nel Codice, era consuetudine consolidata escludere presidente e vicepresidente dalle norme sul conflitto d’interesse, per lo stesso motivo per cui non sono mai state applicate nei confronti dei parlamentari: “Una ricusazione obbligatoria potrebbe, in teoria, interferire con i doveri di presidente e vicepresidente richiesti dalla Costituzione”, si legge nel report del Congresso, perché in democrazia liberale è più importante l’interesse pubblico che gli eletti sono chiamati a perseguire, piuttosto che il potenziale conflitto con i loro interessi privati.
Il Foglio
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Giangiacomo
domenica 20 maggio 2007
Il Pakistan discute se mettere a morte gli “apostati”
In urdu, lingua ufficiale del Nord islamico dell’India, la parola Pakistan significa “terra dei puri”. Nella terra dei puri si discute ora se dare la morte agli uomini e l’ergastolo alle donne nel caso in cui lascino l’islam. Sono le pene previste per gli apostati contenute nella proposta di legge sull’apostasia al vaglio della Commissione permanente del Parlamento pachistano.
Il testo è stato presentato al governo dalla Muttahida Majlis-i-Amal, l’alleanza dei partiti religiosi che lo ha approvato e inviato agli esperti della Commissione per la valutazione tecnica. L’arcivescovo di Lahore e presidente della Conferenza episcopale pachistana, Lawrence John Saldanha, parla della “talibanizzazione” del Pakistan. Mentre cade l’anniversario della morte di John Joseph, il vescovo suicidatosi nel 1998 per dimostrare al mondo il dramma della “legge sulla blasfemia”, il decreto che punisce chi offende l’islam, il Profeta e i suoi testi sacri. Nel frattempo le studentesse della Jamia Hafsa, la “madrassa rossa” di Islamabad, chiedono al leader della Grande moschea di Islamabad di emettere una fatwa contro la “moderazione” di alcuni esponenti musulmani che “diffonde solo oscenità nel paese”.
Tra le 13.500 scuole coraniche pachistane, roccaforti del culto jihadista che sostiene i talebani del nord-ovest, la Jamia Hafsa è divenuta famosa dopo che le sue studentesse avevano preso d’assalto una casa di piacere di Islamabad. Il mufti Maulana Abdul Aziz ha salutato nella preghiera del venerdì la nascita della prima corte islamica del paese all’interno della Lal Masjid, la Moschea rossa di Islamabad. Un sistema giuridico “parallelo” a quello federale, che segue i dettami del Corano.
E’ arrivata la prima fatwa contro Nilofar Bakhtiar, ministro donna del Turismo. L’accusa è di oscenità per una fotografia che la ritrae mentre dà un abbraccio di congratulazioni a un paracadutista. Una scuola femminile di Mardan ha ricevuto una lettera minatoria firmata da un gruppo di fondamentalisti islamici che annuncia “la demolizione dell’edificio” se le maestre e le alunne “continuano a non indossare velo e burqa”. E uno studente musulmano ha chiesto all’Alta corte pachistana di interrompere la costruzione di una chiesa all’interno dell’Università laica di Peshawar.
La legge contro la “blasfemia”, che consente di condannare a morte chiunque sia sospettato di aver offeso l’islam, fu introdotta dal generale Zia ul-Haq per compiacere i salafiti islamici. Nessuno dei suoi successori ha cercato di cancellarla. Non la “laica” Benazir Bhutto. Il primo condannato a morte per blasfemia, nel 1998, Ghulam Akbar, non era un cristiano ma un musulmano sciita. Secondo questa legge è reato affermare anche solo che “Gesù Cristo è figlio di Dio”. Il 18 novembre 1998, nove cattolici furono sgozzati a Noushera. Nel novembre 2001 quindici fedeli uccisi nella chiesa di San Domenico a Bahawalpur. L’immagine fece il giro del mondo: corpi avvolti in sudari bianchi. Il 9 agosto 2002, tre infermiere massacrate nella chiesa dell’ospedale cristiano di Islamabad. Il 25 settembre 2002, sette dipendenti di una organizzazione di carità di Karachi sono rapiti, legati, imbavagliati e uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Nella notte di Natale del 2002, durante la messa di mezzanotte, tre ragazze maciullate all’interno della chiesa protestante di Chuyyanwali e il 5 luglio 2003 un sacerdote cattolico viene assassinato nella sua parrocchia di Okara.
Dal 1988 a oggi oltre 650 cristiani sono stati incarcerati per la legge della blasfemia. Gli integralisti musulmani hanno giustiziato anche una ventina di “apostati”, tra cui Arif Hussain Bhatti, l’ex giudice della Corte Suprema divenuto coraggioso avvocato difensore di “apostati”. Svariati infine gli attentati kamikaze che hanno mietuto centinaia di vittime in chiese cattoliche e protestanti. Oltre alla vita della martoriata comunità cristiana, con la rivolta delle madrasse rosse e la minaccia di apostasia di stato è la stabilità del Pakistan ad essere in pericolo. Alleato degli Stati Uniti nella guerra contro l’internazionale del terrore, ma anche retrovia della cultura del martirio e della guerra qaidista.
Il Foglio
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Giangiacomo
Il testo è stato presentato al governo dalla Muttahida Majlis-i-Amal, l’alleanza dei partiti religiosi che lo ha approvato e inviato agli esperti della Commissione per la valutazione tecnica. L’arcivescovo di Lahore e presidente della Conferenza episcopale pachistana, Lawrence John Saldanha, parla della “talibanizzazione” del Pakistan. Mentre cade l’anniversario della morte di John Joseph, il vescovo suicidatosi nel 1998 per dimostrare al mondo il dramma della “legge sulla blasfemia”, il decreto che punisce chi offende l’islam, il Profeta e i suoi testi sacri. Nel frattempo le studentesse della Jamia Hafsa, la “madrassa rossa” di Islamabad, chiedono al leader della Grande moschea di Islamabad di emettere una fatwa contro la “moderazione” di alcuni esponenti musulmani che “diffonde solo oscenità nel paese”.
Tra le 13.500 scuole coraniche pachistane, roccaforti del culto jihadista che sostiene i talebani del nord-ovest, la Jamia Hafsa è divenuta famosa dopo che le sue studentesse avevano preso d’assalto una casa di piacere di Islamabad. Il mufti Maulana Abdul Aziz ha salutato nella preghiera del venerdì la nascita della prima corte islamica del paese all’interno della Lal Masjid, la Moschea rossa di Islamabad. Un sistema giuridico “parallelo” a quello federale, che segue i dettami del Corano.
E’ arrivata la prima fatwa contro Nilofar Bakhtiar, ministro donna del Turismo. L’accusa è di oscenità per una fotografia che la ritrae mentre dà un abbraccio di congratulazioni a un paracadutista. Una scuola femminile di Mardan ha ricevuto una lettera minatoria firmata da un gruppo di fondamentalisti islamici che annuncia “la demolizione dell’edificio” se le maestre e le alunne “continuano a non indossare velo e burqa”. E uno studente musulmano ha chiesto all’Alta corte pachistana di interrompere la costruzione di una chiesa all’interno dell’Università laica di Peshawar.
La legge contro la “blasfemia”, che consente di condannare a morte chiunque sia sospettato di aver offeso l’islam, fu introdotta dal generale Zia ul-Haq per compiacere i salafiti islamici. Nessuno dei suoi successori ha cercato di cancellarla. Non la “laica” Benazir Bhutto. Il primo condannato a morte per blasfemia, nel 1998, Ghulam Akbar, non era un cristiano ma un musulmano sciita. Secondo questa legge è reato affermare anche solo che “Gesù Cristo è figlio di Dio”. Il 18 novembre 1998, nove cattolici furono sgozzati a Noushera. Nel novembre 2001 quindici fedeli uccisi nella chiesa di San Domenico a Bahawalpur. L’immagine fece il giro del mondo: corpi avvolti in sudari bianchi. Il 9 agosto 2002, tre infermiere massacrate nella chiesa dell’ospedale cristiano di Islamabad. Il 25 settembre 2002, sette dipendenti di una organizzazione di carità di Karachi sono rapiti, legati, imbavagliati e uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Nella notte di Natale del 2002, durante la messa di mezzanotte, tre ragazze maciullate all’interno della chiesa protestante di Chuyyanwali e il 5 luglio 2003 un sacerdote cattolico viene assassinato nella sua parrocchia di Okara.
Dal 1988 a oggi oltre 650 cristiani sono stati incarcerati per la legge della blasfemia. Gli integralisti musulmani hanno giustiziato anche una ventina di “apostati”, tra cui Arif Hussain Bhatti, l’ex giudice della Corte Suprema divenuto coraggioso avvocato difensore di “apostati”. Svariati infine gli attentati kamikaze che hanno mietuto centinaia di vittime in chiese cattoliche e protestanti. Oltre alla vita della martoriata comunità cristiana, con la rivolta delle madrasse rosse e la minaccia di apostasia di stato è la stabilità del Pakistan ad essere in pericolo. Alleato degli Stati Uniti nella guerra contro l’internazionale del terrore, ma anche retrovia della cultura del martirio e della guerra qaidista.
Il Foglio
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Giangiacomo
sabato 19 maggio 2007
«Amo la Francia come una persona cara»
Il primo discorso del nuovo presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy: «E' ora che io restituisca al Paese quello che mi ha dato»
"Cari compatrioti,
parlando con voi questa sera, in questo momento diverso per tutti, ma eccezionale nella vita di un uomo, sento una profonda sincera immensa emozione.
Dall'infanzia sono fiero di appartenere ad una grande una vecchia una bellissima nazione, la Francia.
Io amo la Francia. Io amo la Francia come amo una persona cara che mi ha dato tutto.
Ora tocca a me, tocca a me, ridarle quello che lei mi ha dato.
Questa sera penso ai milioni di francese che mi hanno dato la loro fiducia.
voglio dire loro che mi hanno fatto il più grande onore che si puù dare giudicandomi degno di presiedere al destino della Francia.
Il mio pensiero va a tutti quelli che mi hanno accompagnato in questa campagna voglio dire quanto sono grato, voglio darle il mio affetto sopratutto alla mia famiglia, ai miei amici, ai miei partigiani, voglio dirlo a tutti quelli che mi hanno sostenuto.
E il mio pensiero va alla madame Royal, il mio pensiero va a Lei, voglio dire a lei
...
Rispettate madame royal, rispettandola significa rispettare i milioni francesi che hanno votato per lei.
Il presidente della republica deve amare tutti i francesi qualsiasi pensiero politico abbiano.
Il mio pensiero va a tutti i francesi che non hanno votato per me.
Voglio dirli che oltre la lotta politica e la divergenza di opinioni, per me esiste una sola Francia, sarò il presidente di tutti i francesi, parlerò per ognuno di loro.
Questa sera c'è una sola vittoria: della democrazia, dei valori che ci uniscono, degli ideali che ci uniscono.
La priorità è fare di tutto perchè i francesi abbiamo sempre la voglia di parlare tra di loro, di lavorare insieme.
Il popolo francese si è espresso, ha deciso di rompere con le idee abitutdini del passato.
Oggi riabiliterò il lavoro, l'autorità, la morale, il rispetto, il merito.
Voglio mettere all'onore la nazione di identità nazionale.
Voglio rendere ai francesi l'orgoglio della Francia.
Il pentimento, che è una forma di odio verso noi stessi, è finito.
I francesi hanno deciso di cambiare questo cambiamento lo attuerò perchè è il mandato che i francesi mi hanno dato e perchè la Francia ne ha bisogno.
Però lo farò con tutti i francesi. Lo farò con uno spirito di unione e fratellanza. Lo farò senza che nessuno senta di essere escluso.
Lo farò con la volontà che ognuno possa trovare il posto nella repubblica, che ognuno si senta rispettato, riconosciuto nella sua dignità di cittadino, di uomo.
Tutti quelli che la vita ha distrutto, ha usato, devono sapere che non saranno abbandonati, saranno aiutati, saranno soccorsi.
Quelli che credono che non usciranno mai, qualsiasi cosa loro facciano, devono sapere che non saranno messi da parte avranno le stesse opportunità di tutti gli altri.
Io chiedo a tutti i francesi al dila delle loro credenze e delle loro orgini di unirsi a me per rimettere la Francia in movimento.
Chiedo di non lasciarsi rinchiudersi dall'intolleranza e dai settarismi, ma di aprirsi agli altri, a quelli diversi, a quelli che hanno altri convizioni.
Voglio lanciare un appello ai nostri partner europei con il quale il nostro destino legato.
Voglio dire loro che da sempre sono europeo.
Credo profondamente e sinceramente di costruire un'europa e questa sera la Francia è rientrata in Europa.
Ma chiedo ai nostri partner europei, di ascoltare la voce dei popoli che vogliono essere protetti.
Voglio chiedere ai nostri partner europei di non restare sordi alla collera dei popoli che vedono l'unione europea non come protezione, ma come cavallo di troia per tutte le minacce che porta il mondo.
Voglio lanciare un appello ai nostri amici americani per dirgli che possono contare sulla nostra amicizia
che sono i nostri amici nelle tragedie che abbiamo affrontato insieme.
la Francia sarà sempre al loro fianco quando loro avranno bisogno della Francia, ma voglio anche dire che l'amicizia è accettare che gli amici possano pensare in modo diverso e che una grande nazione come gli USA ha il dovere di non ostacolare la lotta contro il riscaldamento climatico, ma di prendere la testa di questa lotta perchè la sorta di tutta l'umanità è in pericolo.
La Francia farà di questa lotta la sua prima lotta!
Voglio lanciare un appello a tutti i popoli del mediterraneo per dirgli che tutto si giocherà nel mediterraneo, che dobbiamo sormontare tutti gli odi per lasciare il posto ad un grande sogno di pace e di civiltà.
Voglio dire di costruire insieme un'unione del mediterraneo che sarà un trade d'union con l'Africa:
quello che è stato fatto 60 anni fa per l'unione dell'europa, lo faremo oggi per l'unione del mediterraneo.
Voglio lanciare un appello a tutti gli africani, un appello fraterno per dire all'Africa, per dirle che la aiuteremo, per l'aiutare a sconfiggere la povertà, la malattia e vincere in pace.
Voglio dirle che decideremo insieme una politica di immigrazione e sviluppo ambizioso.
Voglio lanciare un appello a tutti coloro che nel mondo credono nei valori della tolleranza, della libertà, della democrazia, dell'umanità,
a tutti quelli che sono perseguiti dalle tirannie,
a tutti i bambini e alle donne che il dovere della Francia sarà di essere accanto a loro,
alle infermiere libiche che da 8 anni sono prigioniere,
la Francia non li abbandonerà!
Non abbandonerà le donne che condannano al burka, le donne che non hanno le libertà.
la Francia sarà dalla parte degli oppressi del mondo: è il messaggio della Francia, è l'identità della Francia, è la storia della Francia!
Cari compatrioti, oggi scriveremo insieme una nuova pagina della nostra storia; questa pagina, cari compatrioti, sono certo che sarà grande, sarà bella.
Dal profondo del cuore voglio dirvi, con la più grande sincerità, Viva la Repubblica, Viva la francia"
www.youtube.com/watch?v=GnLzCFwM9Ew
see u,
Giangiacomo
"Cari compatrioti,
parlando con voi questa sera, in questo momento diverso per tutti, ma eccezionale nella vita di un uomo, sento una profonda sincera immensa emozione.
Dall'infanzia sono fiero di appartenere ad una grande una vecchia una bellissima nazione, la Francia.
Io amo la Francia. Io amo la Francia come amo una persona cara che mi ha dato tutto.
Ora tocca a me, tocca a me, ridarle quello che lei mi ha dato.
Questa sera penso ai milioni di francese che mi hanno dato la loro fiducia.
voglio dire loro che mi hanno fatto il più grande onore che si puù dare giudicandomi degno di presiedere al destino della Francia.
Il mio pensiero va a tutti quelli che mi hanno accompagnato in questa campagna voglio dire quanto sono grato, voglio darle il mio affetto sopratutto alla mia famiglia, ai miei amici, ai miei partigiani, voglio dirlo a tutti quelli che mi hanno sostenuto.
E il mio pensiero va alla madame Royal, il mio pensiero va a Lei, voglio dire a lei
...
Rispettate madame royal, rispettandola significa rispettare i milioni francesi che hanno votato per lei.
Il presidente della republica deve amare tutti i francesi qualsiasi pensiero politico abbiano.
Il mio pensiero va a tutti i francesi che non hanno votato per me.
Voglio dirli che oltre la lotta politica e la divergenza di opinioni, per me esiste una sola Francia, sarò il presidente di tutti i francesi, parlerò per ognuno di loro.
Questa sera c'è una sola vittoria: della democrazia, dei valori che ci uniscono, degli ideali che ci uniscono.
La priorità è fare di tutto perchè i francesi abbiamo sempre la voglia di parlare tra di loro, di lavorare insieme.
Il popolo francese si è espresso, ha deciso di rompere con le idee abitutdini del passato.
Oggi riabiliterò il lavoro, l'autorità, la morale, il rispetto, il merito.
Voglio mettere all'onore la nazione di identità nazionale.
Voglio rendere ai francesi l'orgoglio della Francia.
Il pentimento, che è una forma di odio verso noi stessi, è finito.
I francesi hanno deciso di cambiare questo cambiamento lo attuerò perchè è il mandato che i francesi mi hanno dato e perchè la Francia ne ha bisogno.
Però lo farò con tutti i francesi. Lo farò con uno spirito di unione e fratellanza. Lo farò senza che nessuno senta di essere escluso.
Lo farò con la volontà che ognuno possa trovare il posto nella repubblica, che ognuno si senta rispettato, riconosciuto nella sua dignità di cittadino, di uomo.
Tutti quelli che la vita ha distrutto, ha usato, devono sapere che non saranno abbandonati, saranno aiutati, saranno soccorsi.
Quelli che credono che non usciranno mai, qualsiasi cosa loro facciano, devono sapere che non saranno messi da parte avranno le stesse opportunità di tutti gli altri.
Io chiedo a tutti i francesi al dila delle loro credenze e delle loro orgini di unirsi a me per rimettere la Francia in movimento.
Chiedo di non lasciarsi rinchiudersi dall'intolleranza e dai settarismi, ma di aprirsi agli altri, a quelli diversi, a quelli che hanno altri convizioni.
Voglio lanciare un appello ai nostri partner europei con il quale il nostro destino legato.
Voglio dire loro che da sempre sono europeo.
Credo profondamente e sinceramente di costruire un'europa e questa sera la Francia è rientrata in Europa.
Ma chiedo ai nostri partner europei, di ascoltare la voce dei popoli che vogliono essere protetti.
Voglio chiedere ai nostri partner europei di non restare sordi alla collera dei popoli che vedono l'unione europea non come protezione, ma come cavallo di troia per tutte le minacce che porta il mondo.
Voglio lanciare un appello ai nostri amici americani per dirgli che possono contare sulla nostra amicizia
che sono i nostri amici nelle tragedie che abbiamo affrontato insieme.
la Francia sarà sempre al loro fianco quando loro avranno bisogno della Francia, ma voglio anche dire che l'amicizia è accettare che gli amici possano pensare in modo diverso e che una grande nazione come gli USA ha il dovere di non ostacolare la lotta contro il riscaldamento climatico, ma di prendere la testa di questa lotta perchè la sorta di tutta l'umanità è in pericolo.
La Francia farà di questa lotta la sua prima lotta!
Voglio lanciare un appello a tutti i popoli del mediterraneo per dirgli che tutto si giocherà nel mediterraneo, che dobbiamo sormontare tutti gli odi per lasciare il posto ad un grande sogno di pace e di civiltà.
Voglio dire di costruire insieme un'unione del mediterraneo che sarà un trade d'union con l'Africa:
quello che è stato fatto 60 anni fa per l'unione dell'europa, lo faremo oggi per l'unione del mediterraneo.
Voglio lanciare un appello a tutti gli africani, un appello fraterno per dire all'Africa, per dirle che la aiuteremo, per l'aiutare a sconfiggere la povertà, la malattia e vincere in pace.
Voglio dirle che decideremo insieme una politica di immigrazione e sviluppo ambizioso.
Voglio lanciare un appello a tutti coloro che nel mondo credono nei valori della tolleranza, della libertà, della democrazia, dell'umanità,
a tutti quelli che sono perseguiti dalle tirannie,
a tutti i bambini e alle donne che il dovere della Francia sarà di essere accanto a loro,
alle infermiere libiche che da 8 anni sono prigioniere,
la Francia non li abbandonerà!
Non abbandonerà le donne che condannano al burka, le donne che non hanno le libertà.
la Francia sarà dalla parte degli oppressi del mondo: è il messaggio della Francia, è l'identità della Francia, è la storia della Francia!
Cari compatrioti, oggi scriveremo insieme una nuova pagina della nostra storia; questa pagina, cari compatrioti, sono certo che sarà grande, sarà bella.
Dal profondo del cuore voglio dirvi, con la più grande sincerità, Viva la Repubblica, Viva la francia"
www.youtube.com/watch?v=GnLzCFwM9Ew
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Giangiacomo
venerdì 18 maggio 2007
Chavez spegne una rete tv e accende la sua dittatura
Fino a qualche giorno fa la sinistra italiana che inneggia al presidente venezuelano Hugo Chavez - il primo capo di Stato ricevuto a Montecitorio in pompa magna da Bertinotti - sosteneva che il suo non era un regime dittatoriale, dal momento che le principali televisioni del Paese erano ostili al governo eppure continuavano a trasmettere. Fino a mercoledì, quando Chavez ha annunciato la chiusura della principale e storica rete televisiva del Paese, Radio Caracas Television (Rctv). È su Rctv che il Venezuela ha visto i primi passi dell’astronauta Neil Armstrong sulla Luna nel 1969, i funerali di Giovanni Paolo II e la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio. È grazie a Rctv che sia i vescovi cattolici sia gli esponenti laici e liberali ostili al neo-comunismo di Chavez riuscivano a diffondere le loro idee.
Il provvedimento di Chavez è del tutto illegale: il contratto del governo con Rctv scade nel 2022, e il rinnovo della concessione nel 2007 è un atto dovuto. Il presidente ha avvertito la Corte Suprema, presso cui l’emittente ha presentato ricorso, che «comunque decidano i giudici, Rctv sarà chiusa». Qualcuno potrebbe obiettare che il presidente venezuelano ha un mandato popolare, avendo vinto le ultime elezioni con ampio margine. Tuttavia anche a proposito delle elezioni stanno emergendo particolari interessanti. Migliaia di funzionari pubblici sono stati convinti che il governo - grazie al voto elettronico - poteva sapere per chi avrebbero votato, e che chi «votava male» sarebbe stato licenziato. Certo, secondo gli osservatori internazionali risalire dal voto elettronico all’elettore era in realtà difficile. Ma perché le minacce avessero effetto bastava che si credesse che era possibile. Inoltre, con il cosiddetto «Progetto Identità» sono stati registrati come elettori decine di migliaia di lavoratori stagionali e di immigrati colombiani, dichiarati cittadini senza troppe cerimonie. I risultati del «Progetto Identità» sono stati trionfali per i successi elettorali di Chavez, ma tragici per l’ordine pubblico. Molti dei colombiani naturalizzati - che, in quanto cittadini, ora non possono più essere espulsi - sono criminali in fuga dal loro Paese o truppe mandate dalla criminalità organizzata a impiantare lucrose filiali in Venezuela. Ne è nata un’immediata recrudescenza del traffico di droga e dell’industria dei sequestri di persona, di cui come si sa hanno fatto le spese anche uomini d’affari italiani. Il rimedio di Chavez? Settimane obbligatorie d'indottrinamento a Cuba per funzionari e poliziotti.
Quando Benedetto XVI ha denunciato in Brasile il sorgere in America Latina di nuove «forme di governo autoritarie» a Chavez devono essere fischiate le orecchie. Ma sulle parole del Papa dovrebbero riflettere anche i troppi fan italiani del caudillo di Caracas. Dopo tutto, qualche «Progetto Identità» per reclutare elettori fra gli immigrati sembra in programma anche da noi.
di Massimo Introvigne (il Giornale, 18 maggio 2007)
see u,
Giangiacomo
Il provvedimento di Chavez è del tutto illegale: il contratto del governo con Rctv scade nel 2022, e il rinnovo della concessione nel 2007 è un atto dovuto. Il presidente ha avvertito la Corte Suprema, presso cui l’emittente ha presentato ricorso, che «comunque decidano i giudici, Rctv sarà chiusa». Qualcuno potrebbe obiettare che il presidente venezuelano ha un mandato popolare, avendo vinto le ultime elezioni con ampio margine. Tuttavia anche a proposito delle elezioni stanno emergendo particolari interessanti. Migliaia di funzionari pubblici sono stati convinti che il governo - grazie al voto elettronico - poteva sapere per chi avrebbero votato, e che chi «votava male» sarebbe stato licenziato. Certo, secondo gli osservatori internazionali risalire dal voto elettronico all’elettore era in realtà difficile. Ma perché le minacce avessero effetto bastava che si credesse che era possibile. Inoltre, con il cosiddetto «Progetto Identità» sono stati registrati come elettori decine di migliaia di lavoratori stagionali e di immigrati colombiani, dichiarati cittadini senza troppe cerimonie. I risultati del «Progetto Identità» sono stati trionfali per i successi elettorali di Chavez, ma tragici per l’ordine pubblico. Molti dei colombiani naturalizzati - che, in quanto cittadini, ora non possono più essere espulsi - sono criminali in fuga dal loro Paese o truppe mandate dalla criminalità organizzata a impiantare lucrose filiali in Venezuela. Ne è nata un’immediata recrudescenza del traffico di droga e dell’industria dei sequestri di persona, di cui come si sa hanno fatto le spese anche uomini d’affari italiani. Il rimedio di Chavez? Settimane obbligatorie d'indottrinamento a Cuba per funzionari e poliziotti.
Quando Benedetto XVI ha denunciato in Brasile il sorgere in America Latina di nuove «forme di governo autoritarie» a Chavez devono essere fischiate le orecchie. Ma sulle parole del Papa dovrebbero riflettere anche i troppi fan italiani del caudillo di Caracas. Dopo tutto, qualche «Progetto Identità» per reclutare elettori fra gli immigrati sembra in programma anche da noi.
di Massimo Introvigne (il Giornale, 18 maggio 2007)
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Giangiacomo
Bilancio di un anno Prodi negativo
E' distensivo trovare, ogni giorno, un modo per sorridere.
Oggi ce lo propone direttamente il Corriere della Sera.
A seguito di un sondaggio (presumiamo vicino al centrosinistra considerato il punto di vista "imparziale" del Corriere della Sera e dell'"imparziale" Paolo Mieli), risulta che:
dopo un anno di Governo Prodi (il premier ieri si dichiarava soddisfatto dei progressi raggiunti)
2 italiani su 3, SOLO 2 italiani su 3 si dichiarano INSODDISFATTI dell'operato della sinistra.
La risposta del premier ultrasessantenne è stata:
"Poteva andare peggio"
Risposta grandiosa. stupefacente. ammirabile.
ma è stupido forte?????
speriamo che possa leggere il presente blog e che possa ricordarsi che prendere atto della situazione sarebbe un atto di minima responsabilità
riuscisse a farne uno nel prossimo anno, sarebbe un risultato eccezionale!!
see u,
Giangiacomo
Oggi ce lo propone direttamente il Corriere della Sera.
A seguito di un sondaggio (presumiamo vicino al centrosinistra considerato il punto di vista "imparziale" del Corriere della Sera e dell'"imparziale" Paolo Mieli), risulta che:
dopo un anno di Governo Prodi (il premier ieri si dichiarava soddisfatto dei progressi raggiunti)
2 italiani su 3, SOLO 2 italiani su 3 si dichiarano INSODDISFATTI dell'operato della sinistra.
La risposta del premier ultrasessantenne è stata:
"Poteva andare peggio"
Risposta grandiosa. stupefacente. ammirabile.
ma è stupido forte?????
speriamo che possa leggere il presente blog e che possa ricordarsi che prendere atto della situazione sarebbe un atto di minima responsabilità
riuscisse a farne uno nel prossimo anno, sarebbe un risultato eccezionale!!
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Giangiacomo
giovedì 17 maggio 2007
Famiglia: DAI!
Il Family Day svoltosi il 12 maggio in piazza San Giovanni in Laterano ha rappresentato un fatto di importanza straordinaria per la società italiana tutta intera. Le implicazioni politiche costituiranno il succo dei dibattiti che faranno da corona all’abbandono, si spera definitivo, della legge sui Dico che la maggioranza degli italiani non vuole. Occorre tuttavia che non sfugga anche la storica portata culturale della manifestazione romana. “La famiglia – ha detto Giancarlo Cesana, responsabile di Comunione e Liberazione, intervistato sul palco del Family Day – è un atto di fecondità, in quanto diventare adulti significa diventare capaci di dare la vita. I giovani hanno bisogno della famiglia perché in essa imparano il senso del dono della vita. La famiglia viene prima di ogni altra realtà, in quanto l’uomo è fatto per la compagnia e non per la solitudine”. A sua volta Savino Pezzotta, portavoce del Family Day, ha affermato nel suo intervento finale: “Sostenere che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio e non solo sul rapporto affettivo o d’interessi tra un uomo e una donna o tra persone omosessuali, non è una questione confessionale”. Pezzotta ha auspicato “normative organiche per la famiglia che affrontino il tema della protezione del diritto alla vita d’ogni essere umano: dal concepimento alla morte naturale; che assumano la famiglia come soggetto sociale da sostenere con politiche specifiche attraverso criteri che la promuovano fin dal suo sorgere e che accompagnino il processo di generatività dal concepimento alla nascita e alla crescita dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, del lavoro dei coniugi. Si tratta in definitiva – ha concluso – di riformare in profondità il nostro welfare e ricentrarlo sulle esigenze della famiglia. Questa è la sfida che ci poniamo per il bene del Paese e della società italiana”. Accogliamo questa sfida anzitutto con alcune brevi riflessioni. La famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna è luogo originario di umanità e di socialità: questo è il centro della questione, da qui bisogna ripartire per capire e andare avanti. Contrariamente a quanto si dice e si scrive da parte dei cultori di una presunta laicità che si rivela menzognera e ultimamente poco favorevole alla causa dell’uomo integrale, la famiglia fondata sul matrimonio non rappresenta un interesse privato (tanto meno quello che per Marx, ricordiamolo, era una atto di prostituzione legalizzata), bensì il luogo di costruzione e di proposta della unità come scopo della vita. La famiglia fondata sul matrimonio è anzitutto il segno di un unità riconosciuta, a cui ci si apre perché da solo l’uomo non è capace di darsela. Poi la famiglia è ambito di trasmissione ai figli di una prima ipotesi di vita (orientamento ideale) sulla quale si costruisce l’unità antropologica dell’io. Quindi la famiglia è la prima cellula della comunità, nella quale si assumono delle responsabilità pubbliche che sono ordinate ad uno scopo. Ne rileviamo due: il lavoro e l’educazione. Il luogo comune che tanto piace a chi accusa gli italiani di familismo (“tengo famiglia”: sinonimo di acquiescenza allo Stato assistenziale) è nei fatti travolto dalle nuove prospettive del lavoro nel contesto di una economia di mercato globale. In questa situazione la famiglia, se sostenuta da adeguate politiche, può garantire la tutela della persona dalla disumanizzazione del lavoro (“tengo se ho famiglia”, si potrebbe controbattere). A proposito dell’educazione, bisogna ribadire che la famiglia è il primo ambiente nel quale ai figli vengono proposte posizioni ideali ed esistenziali che poi nel corso della vita verranno inverate o criticate. La famiglia per questo ha un posto basilare in campo educativo, quindi un ruolo sostanziale nella scuola. Dal Family Day deriva un chiaro messaggio a che la scuola italiana si sviluppi nella direzione della sussidiarietà: si dia alle famiglie la possibilità di essere partecipi degli orientamenti di fondo che la scuola autonoma decide di avere; si dia però anche alle famiglie la possibilità di scegliere la scuola che ritengono più opportuna per i loro figli.
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Giangiacomo
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Giangiacomo
mercoledì 16 maggio 2007
Primo discorso di Sarkozy: rompere con il passato
"Esigenza del cambiamento e di rompere con i comportamenti del passato": nel suo primo discorso da nuovo capo dello Stato francese, Nicolas Sarkozy ha riaffermato oggi quel principio di "rottura" che ne ha guidato la sua vittoriosa campagna presidenziale. Rottura ed "apertura" nelle parole di Sarkozy: "al servizio della Francia - ha detto il presidente, parlando all' Eliseo, dopo il passaggio dei poteri - non ci sono recinti, ma soltanto le competenze, le idee, le convinzioni" di quelli che vogliono l' interesse generale.
"Sono pronto a lavorare con loro", ha sottolineato il capo dello Stato, dichiarando di voler difendere "l' indipendenza e l' identità della Francia". Sarkozy vuole "unire i francesi, rispettare la parola data e mantenere gli impegni": "io - ha affermato - non ho il diritto di deludere".
"Penso - ha aggiunto il presidente - con emozione a questa attesa, a questa speranza, a questo bisogno di credere in un futuro migliore che si sono espressi così fortemente durante la campagna presidenziale".
Cambiare, perché "l' immobilismo non è mai stato così pericoloso", secondo Sarkozy, il quale ha riaffermato altre parole d' ordine della sua campagna: "Riabilitare i valori del lavoro, dello sforzo, del merito, del rispetto; esigenza di tolleranza e di apertura, di sicurezza e di protezione, di ordine e di autorità, di giustizia". Le priorità della diplomazia francese - ha annunciato - saranno "la difesa dei diritti dell' uomo e la lotta contro il riscandamento climatico". Fra gli altri impegni internazionali Sarkozy ha citato "l' unione del Mediterraneo, lo sviluppo dell' Africa, e un'Europa che protegge".
see u,
Giangiacomo
"Sono pronto a lavorare con loro", ha sottolineato il capo dello Stato, dichiarando di voler difendere "l' indipendenza e l' identità della Francia". Sarkozy vuole "unire i francesi, rispettare la parola data e mantenere gli impegni": "io - ha affermato - non ho il diritto di deludere".
"Penso - ha aggiunto il presidente - con emozione a questa attesa, a questa speranza, a questo bisogno di credere in un futuro migliore che si sono espressi così fortemente durante la campagna presidenziale".
Cambiare, perché "l' immobilismo non è mai stato così pericoloso", secondo Sarkozy, il quale ha riaffermato altre parole d' ordine della sua campagna: "Riabilitare i valori del lavoro, dello sforzo, del merito, del rispetto; esigenza di tolleranza e di apertura, di sicurezza e di protezione, di ordine e di autorità, di giustizia". Le priorità della diplomazia francese - ha annunciato - saranno "la difesa dei diritti dell' uomo e la lotta contro il riscandamento climatico". Fra gli altri impegni internazionali Sarkozy ha citato "l' unione del Mediterraneo, lo sviluppo dell' Africa, e un'Europa che protegge".
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Giangiacomo
martedì 15 maggio 2007
Desiderio, libertà e sussidiarietà
Ieri ho letto l'intervento di Giorgio Vittadini, attuale Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
un po' datato (Novembre 2005), ma fenomenale per quanto entri nei contenuti e li enunci con naturalezza, spettacolare per l'esaltazione del principio di sussidiarietà che tanto sostengo nel mio piccolo...
1. L’anomalia virtuosa italiana: nascita, sviluppo, crisi
Il nesso tra desiderio, fede, passione ideale e vita sociale ed economica è all’origine della virtuosa “anomalia italiana” e del suo enorme sviluppo economico e politico.
All’inizio del secolo XIX, dalla fede cristiana e da ideali socialisti e liberali, sono nate opere sociali e un sistema economico unico al mondo, caratterizzato dalla presenza diffusa di piccole e medie imprese che hanno elevato il grado di ricchezza un po’ ovunque. Il nostro è stato un Paese capace di darsi regole democratiche e una Costituzione che ha saputo valorizzare le diverse visioni ideali in funzione di una vita comune; ha saputo stabilire una convivenza che ha garantito rispetto profondo per l’uomo e volontà di offrire ad ognuno una condizione di vita decorosa.
Negli anni, tuttavia, questo sviluppo è stato limitato da concezioni estranee alla sua origine e nemiche dell’uomo, non riuscendo così ad affermarsi in modo definitivo e duraturo.
Ancora oggi la vita sociale e politica italiana è dominata da contrapposte ideologie, nate da idee sull’uomo e sulla realtà figlie di verità parziali e oggi assolutizzate a postulati generali che ne regolano ogni aspetto.
I teorici del liberismo e del privato puro si affidano in modo fideistico alle capacità salvifiche del mercato, che sarebbe capace meccanicamente e impersonalmente di risolvere ogni problema, senza chiedersi quale sia il costo umano e sociale di una selezione portata alle estreme conseguenze.
Invece, i teorici dello statalismo, nostalgici e non di una società marxista, considerano lo Stato l’unica risposta a tutti i mali.
Nel nostro Paese le partecipazioni statali sono arrivate a costituire più del 50% dell’economia e l’abnorme crescita della spesa pubblica viene finanziata favorendo sistemi di tassazione iniqui (1), mentre rendite e sprechi sembrano senza limite (2).
Queste ideologie non si limitano però solo a interessare il sistema economico, ma tentano di definire, fin negli aspetti antropologici e morali, quale sia la posizione umana necessaria per sostenere il sistema in cui si vive. Il cattocomunismo, che del cattolicesimo conserva una generica spinta etica per poi assumere categorie culturali e interpretative veteromarxiste, fa proprie posizioni manichee, identificandosi così con la parte di società “naturalmente pura” da difendere contro la parte corrotta.
Queste posizioni sono analoghe a quelle teorizzate da chi vorrebbe l’avvento di un moralismo calvinista intransigente, capace di ostracizzare chi sbaglia, implacabile nel ridurre l’intera società ad uno strumento per il progresso economico e scientifico teso alla ricerca di un profitto fatto di selezione sociale ed economica.
D’altra parte, come ultima ed estrema versione della ricerca del divo di umanistica memoria, si invocano uomini della provvidenza capaci di risolvere “magicamente” i problemi per le loro capacità, moralità e competenza.
Chi invece si vuole rifare alla tradizione, spesso si fa portatore di un’ideologia neoconservatrice che, come nelle sette protestanti americane, crede nella capacità naturale dell’uomo di raggiungere la moralità e la verità anche nella vita sociale, grazie alla sua adesione a valori filosofici e religiosi.
In tutte queste posizioni prevale la certezza teorica e pratica che siano la politica, l’occupazione dello Stato, la promulgazione di leggi a sé favorevoli a determinare il progresso.
Si tratta in generale di una concezione che subordina l’esistenza dell’uomo a dinamiche sociali, politiche e d economiche costruite prescindendo dalla necessità di rispondere al desiderio di felicità dei singoli e soggetta al controllo del potere politico.
In realtà, la ragione dell’incapacità dello sviluppo ad affermarsi definitivamente e a modellare la società italiana, è ancora più profondo e risiede nella crisi di un Cattolicesimo ancora capace di incidere sotto il profilo sociale, ma sempre più debole a livello di esperienza personale.
Dal punto di vista politico, la Democrazia Cristiana, che ha enormi meriti per ciò che è riuscita a fare per lo sviluppo della vita democratica del Paese, è implosa a poco a poco scivolando nella sola preoccupazione di una gestione del potere e imboccando la via dello statalismo, perdendo così coscienza della sua diversità culturale. Addirittura è arrivata ad accettare un regime consociativo in cui «nella concreta vita parlamentare si realizzava una strategia di compromesso» (3), mentre «nel presupposto che la società civile del dopoguerra fosse impreparata, venne colonizzata politicamente e si favorì una concezione “paternalistica” dei diritti sociali. Nella vita concreta della nuova Repubblica italiana i soggetti attivi del pluralismo sociale vennero identificati e sostanzialmente esauriti nei partiti e nei sindacati, destinando le altre formazioni sociali ad un ruolo marginale e secondario» (4).
Afferma, infatti, Augusto Del Noce: «La storia d’Italia, dal 1945 in poi, è la storia del progressivo affermarsi del Partito d’Azione, del partito al servizio dei ceti emergenti, del capitale finanziario, degli speculatori, della mobilità sociale. Il partito dissolutore della tradizione» (5). «L’esito fu un nuovo edonismo indotto dallo sviluppo economico, l’incapacità di vivere e trasmettere i valori della tradizione, una classe politica sempre più chiusa in se stessa, finirono per spegnere le tensioni ideali del momento costituente» (6).
Sinteticamente, la situazione può essere descritta con le parole di don Giussani «… l’Italia, mi sembra un sommovimento terrestre, un terremoto. Dove chi spinge di più riesce a buttare via più pietre che gli ingombrano il terreno. E’ una situazione civile dove non c’è un ideale adeguato, dove non c’è nulla che ecceda l’aspetto utilitaristico. Un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga ideale. Il timore è che si scatenino conflitti senza fine» (7).
2. Il riflesso economico e sociale della crisi
Il successo dell’economia italiana dell’ultimo dopoguerra era stato reso possibile da tre “miracoli” economici successivi: la ricostruzione postbellica; la crescita esponenziale delle piccole e medie imprese che, «nel momento di crisi delle grandi imprese negli anni Settanta e Ottanta, hanno sviluppato nei fatti i distretti industriali» (8) elaborando «un proprio modello di sviluppo settoriale italiano, incentrandolo sul cosiddetto Made in Italy» (9); il risanamento macrofinanziario degli anni Novanta, che ha portato all’ingresso nell’euro (10).
Tuttavia, come è già stato precedentemente sottolineato, proprio negli anni di maggior sviluppo, con il mancato compimento delle premesse e degli ideali che avevano originato il miracolo economico, non si è colta l’occasione per affrontare e risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana, problemi che continuano a determinare il momento presente: «La mancanza di una solida e riproducibile classe dirigente; scarsissima istituzionalizzazione dei mercati; bassa divisione funzionale tra famiglia e impresa e scarsissima differenziazione sociale tra proprietà e controllo delle stesse imprese» (11).
E ancora: il sottosviluppo del mezzogiorno, la mancanza di infrastrutture (a cui si è aggiunta la scomparsa delle grandi imprese), il declino dell’industria di Stato con i suoi alti tassi di clientelismo e inefficienza, le privatizzazioni che hanno dato vita ad oligopoli e a svendite anche di imprese sane e competitive, il venir meno di un adeguato insegnamento tecnico e professionale, il mancato investimento in istruzione superiore e ricerca, l’incremento vertiginoso della spesa pubblica improduttiva e causa di rendite parassitarie.
Come sostiene l’economista Luigi Campiglio, negli ultimi anni tali fattori negativi sono diventati prevalenti: «Nell’ultimo decennio l’Italia è diventata una società lenta: è lenta l’economia, con un tasso di crescita inferiore alla media europea, e quindi ancora di più rispetto agli Stati Uniti, così come è lenta la società dei cittadini, perché delusa dall’insuccesso dei sussulti di cambiamento nei confronti del sistema politico. Negli anni più recenti il rallentamento è diventato declino assoluto, in particolare nell’industria manifatturiera in cui si registra un declino della produttività del lavoro, che non casualmente si accompagna a una diminuzione degli investimenti e della quota di mercato nel commercio mondiale» (12).
Tra le conseguenze di questo declino c’è anche la crisi sociale. Sono vittime della crisi, innanzitutto, i ceti medi che «si sentono improvvisamente vulnerabili. L’impoverimento dei ceti medi, dunque, sembra assomigliare ai processi sperequativi “all’americana”: nel grande segmento di famiglie italiane poste dall’Istat sopra la soglia di povertà stanno aumentano le disuguaglianze tra le classi. Si sta allargando, cioè, la distanza tra i ceti medio-bassi e quelli medio-alti, sia in termini di potere d’acquisto che di condizioni di vita» (13).
La seconda grande crisi sociale è quella della famiglia. Dice Di Vico: «Un ulteriore fenomeno che sta pesando sullo status dei ceti medi è il boom delle separazioni e dei divorzi. Se fino a qualche lustro addietro la rottura del matrimonio era un privilegio delle classi più ricche, ora è diventata una prerogativa appannaggio di tutti. […] Risulta che sono proprio le classi medie a far saltare con maggiore frequenza il ménage coniugale. se una famiglia si divide moltiplica automaticamente spese e costi». Intimamente legato alla crisi della famiglia e degli ideali è l’invecchiamento della popolazione: « Gli anziani non autosufficienti sono raddoppiati. Due milioni di persone vivono assistiti dalla famiglia, ancora oggi la rete informale prioritaria per l’assistenza. Oltre 900.000 anziani sono costretti in un letto o non possono uscire dalla propria abitazione […]» (14).
Siamo ormai a un bivio, come afferma ancora Campiglio: «Lo sviluppo economico del secondo dopoguerra, con il suo incontenibile travaso unitario, ha fatto gli italiani uniti molto più di un secolo di guerre e divisioni amministrative, e per una breve stagione ha dato loro un interesse permanente e un ruolo internazionale che oggi pare invece indebolito» (15). Al posto di questa consapevolezza comune prevale lo statalismo, come conferma Giulio Sapelli: «L o Stato è troppo lontano dai sistemi di senso e di significato che le persone elaborano per raggiungere i loro fini e per rendere meno indecente la loro vita» (16).
E’ opinione diffusa che la situazione descritta nei precedenti paragrafi sia irreversibile. Autorevoli pensatori, invece, ritengono che esistano ancora elementi di speranza. Tra questi Quadrio Curzio e Marco Fortis affermano: «Noi crediamo, in base all’analisi della storia dello sviluppo economico italiano, che il nostro Paese abbia le capacità per affrontare le nuove sfide purché da un lato riesamini con obiettività la propria vicenda della seconda parte del xx secolo e dall’altro faccia una scelta coraggiosa, rispondente per altro alle proprie migliori caratteristiche economiche, sociali» (17).
3. La situazione europea
Anche grazie all’onda emotiva della Tangentopoli internazionale e alla strumentalizzazione delle questioni legate alla guerra in Iraq - l’identità di un’Europa, che tutti sembrano così pronti a difendere, è stata completamente stravolta da come era stata delineata nel documento programmatico di Lisbona 2000.
L’Europa degli Andreotti, dei Delors, dei Kohl, l’Europa che aveva varato la moneta unica, aveva ben altri scopi e intendimenti: diventare - entro il 2010 - il luogo dove più che in ogni altro posto nel mondo il capitale umano fosse valorizzato e sostenuto, trasformando la propria economia in un’economia della conoscenza, un sistema nel quale le capacità dell’ingegno europeo fossero valorizzate al massimo. Quell’Europa voleva aprirsi al Mediterraneo, superando definitivamente i nazionalismi; voleva dare impulso ad un’economia e ad una società in cui ci fossero spazi di libertà per le molte iniziative nate dal basso e non legata unicamente a pochi centri di potere. Tutto questo è stato stravolto.
Quella guidata da Schröeder, da Chirac e da Zapatero, infatti, è l’Europa dei nazionalismi che, mentre non perde occasione per richiamarsi all’unità (purtroppo solo di facciata), vede crearsi un asse tra due dei suoi massimi esponenti (Schröeder e Chirac), per un seggio tedesco all’ONU, riproponendo così, dove le scelte contano, scene ottocentesche di distinzioni tra Paesi di serie A e di serie B.
Sul piano dell’economia internazionale, questa Europa si mostra sempre più una realtà chiusa, abbandonando qualsiasi tentativo di integrazione mediterranea e praticando un protezionismo agricolo verso l’America Latina, per citare solo due esempi. Non ha investito in istruzione e, con la sua politica volta unicamente all’equilibrio di bilancio, ha soffocato lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Del resto, questo non è strano se pensiamo che la politica economica è dominata da commissari – in alcuni casi quasi diretta espressione delle grandi lobby - che parlano di competitività, ma la usano a senso unico, difendendo i monopoli francesi e tedeschi in palese contrasto con antitrust nazionali e internazionali.
Ulteriore elemento negativo sono le posizioni criminali sulla vita, in realtà utili soltanto per accontentare elettorati radicali e coprire la radice reazionaria di questi tre esponenti.
Lo stop alla Costituzione europea è una sintesi di questa mancanza di identità.
In questo quadro italiano ed europeo, senza pretendere di giungere a conclusioni definitive, occorre affidare alla nazione intera e al singolo le chiavi del proprio destino e dello sviluppo. Ma qual è, allora, la strada da percorrere per un nuovo sviluppo?
4. Desiderio, opere, politica
Due testi molto diversi tra di loro, ci aiuteranno ad individuare una ipotesi di risposta: l’intervento di don Giussani all’assemblea della Democrazia Cristiana lombarda svoltosi ad Assago nel 1987 dal titolo “Desiderio, opere e politica” e l’opera fondamentale di K. J. Arrow, premio Nobel per l’economia e teorico dell’economia del benessere, intitolata “Scelte sociali e valori individuali”.
Don Giussani affermò che il desiderio di felicità, di verità, di giustizia, di bellezza costituisce la scintilla che accende il “motore”, per cui l’uomo “si mette a cercare il pane e l’acqua, si mette a cercare il lavoro, a cercare la donna, si mette a cercare una poltrona più comoda e un alloggio più decente, si interessa a come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell’ingrandirsi, del dilatarsi e del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente cuore”.
Come afferma l’autore, tuttavia, la mentalità dominante tende a ridurre sistematicamente i desideri dell’uomo, cercando di governarli, di appiattirli, fino a creare “smarrimento dei giovani e cinismo degli adulti”. Per questo occorrono movimenti che educano il desiderio, fino a permettere quell’esperienza di libertà che è soddisfazione del desiderio, e “incapaci di rimanere nell’astratto […], tendono a mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei bisogni in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture capillari e tempestive che chiamiamo «opere»”, cioè “forme di vita nuova per l’uomo”, come le chiamò Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982.
Da qui nasce l’appello finale alla politica perché rispetti e valorizzi questo dinamismo virtuoso: “Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno Stato prepotente sulla società”.
Alla luce del discorso di Assago è interessante rileggere l’opera fondamentale di Arrow.
L’economista americano dimostra che l’unico caso in cui un ordinamento sociale può essere costruito come semplice funzione delle preferenze personali è quando si attui, nei mercati e nella vita politica, una dittatura. C’è una sola possibilità in cui questa eventualità può essere evitata: quando, rinunciando all’utopia neoclassica dell’intangibilità delle preferenze individuali, più persone riconoscano valori comuni che rispecchiano i loro “desideri socializzati”. Così, Arrow conclude: “L’ordinamento rilevante per il raggiungimento di un massimo sociale è quello basato sui valori che rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi gli importanti desideri socializzanti”.
Cosa può accomunare i principi della Dottrina Sociale della Chiesa rivisitati da don Giussani e la trattazione di Arrow? Il fatto che, per aiutare gli uomini a fare un’esperienza di libertà, ad esprimere la propria capacità di costruzione, di risposta ai suoi bisogni, è necessario un assetto sociale caratterizzato dalla sussidiarietà, intesa come ordinamento che valorizzi i desideri degli io e le libere aggregazioni in cui questi desideri si sviluppano e si esprimono.
Si è detto che occorre educare gli uomini perché i loro desideri non siano ridotti e divengano effettiva libertà, intesa come responsabilità e capacità di costruzione. Tuttavia, uomini così educati hanno bisogno di strumenti per poter essere più efficaci nell’agire sociale, economico e politico. Da qui si deduce che per attuare la sussidiarietà il primo strumento è l’investimento in capitale umano, inteso come una sistematica formazione e istruzione di coloro che, mossi da un ideale e dal loro desiderio, vogliono dar vita ad opere e partecipare al cambiamento e al miglioramento di sé e dei propri simili.
La trattazione di Arrow, articolandosi in due aspetti fondamentali, il governo della società e il mercato, permette di enucleare anche gli altri fondamentali aspetti per l’attuarsi di una vera sussidiarietà. Essi sono: competitività, welfare mix e politica non invasiva.
Vediamo tutti questi aspetti in modo più approfondito a partire dall’investimento in capitale umano.
a. Investimento in capitale umano
Circa i due terzi dello sviluppo di un’attività economica dipendono dalle abilità dei lavoratori: nel breve periodo quale fattore della produzione e, nel lungo periodo, come parte del capitale.
Ecco perché l’Europa, con il Trattato di Lisbona, si era data come obiettivo per il 2010 quello di diventare il luogo dell’eccellenza nella conoscenza.
Dal punto di vista dell’investimento in istruzione, l’Europa è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti che hanno visto nella prima parte del ventesimo secolo il periodo di maggior diffusione dell’istruzione secondaria: la percentuale di americani con un diploma è cresciuta dal 9% del 1910 all’oltre 50% del 1940. Gli ultimi trent’anni hanno visto il diffondersi l’istruzione superiore (college e università). Oggi i due terzi circa dei diplomati americani proseguono in qualche modo la loro carriera scolastica.
In Europa invece la diffusione dell’istruzione secondaria è cominciata solo dopo la prima guerra mondiale e quella dell’istruzione superiore, solo in tempi recenti. Inoltre, ancora oggi i Paesi europei hanno un approccio più elitario di quello americano nei confronti della formazione universitaria.
In Italia, nonostante il fatto che lo sforzo per il cambiamento negli ultimi quarant’anni in Italia sia stato enorme, il gap rispetto agli altri Paesi sviluppati è tuttavia ancora grande. In Italia nel 2002 solo il 71% dei giovani compresi tra i 15 e i 19 anni è iscritto a scuola, contro una media dell’81% in Europa; solo il 42% delle persone tra i 25 e i 34 anni ha un diploma, contro il 60% nel resto dell’Unione Europea. Il dato non è omogeneo, sia in termini territoriali che per tipologia di scuola. Dall’indagine campionaria del Ministero della Pubblica Istruzione del 1999 si evince, in particolare, che la dispersione scolastica (data dagli alunni non frequentanti e dai ritirati senza motivazione) è molto più elevata nella scuola media inferiore e negli istituti tecnici e professionali del Sud e delle Isole rispetto al Nord. Inoltre la dispersione è molto più forte nel complesso degli istituti tecnici e professionali che nei licei, a segnalare come il disagio scolastico si concentri soprattutto in alcuni tipi di scuola. Il quadro complessivo è quello di un Paese che ha compiuto un enorme sforzo verso l’alfabetizzazione e l’istruzione di base di massa, ma non è riuscito completamente a compiere il secondo balzo: si evincono forti differenze, territoriali e per tipologia di scuola, in termini di dispersione scolastica.
La scuola italiana è stata tradizionalmente molto valida fino al primo livello di università. La non rinuncia a un affronto teorico delle materie ha permesso l’aumento dello spirito critico in tutti; il realismo e la concretezza hanno garantito la formazione di tecnici di alto livello. L’università fino al primo livello ha offerto una buona preparazione di base, tanto che molti italiani, specializzati all’estero, hanno raggiunto i vertici nel campo della ricerca scientifica. Adeguati investimenti in istruzione e ricerca sarebbero stati moltiplicatori di tali doti naturali. Invece lo sforzo di alfabetizzazione di massa ha coinciso con una caduta del livello qualitativo dell’istruzione correlato con un centralismo pubblico deleterio.
Fondamentale a questo livello è l’esistenza di scuole libere quali fattori di progresso umano e sociale.
Infatti, come afferma Glenn confrontando differenti sistemi scolastici secondo il grado di libertà di insegnamento, «i genitori che professano fedi o aderiscono a forme di appartenenza che divergono o vanno al di là di quelle autorizzate dalla cultura prevalente e che sono fermamente decisi a impostare l’educazione dei loro figli sulla base di esse, sono percepiti, dall’establishment dell’istruzione, come una minaccia molto più grande del loro reale potere. Nel momento in cui manifestano le loro preoccupazioni, essi mettono in discussione il mito stesso della “scuola unica”, e cioè, che i valori sostenuti e propagati dall’élite culturale mediante la pubblica istruzione siano neutrali, non settari e anzi assolutamente ovvi per ogni persona ragionevole» (18).
Un sistema paritario tra scuole libere e scuole gestite dallo Stato è stato determinato dal ministro Berlinguer e la modifica costituzionale dell’articolo V lo ha confermato solennemente (19). Occorre quindi rendere effettiva tale parità giuridica ponendo fine a una sottrazione di fondi ingiusta a danno di alcuni cittadini e degli studenti, equiparando l’Italia a Paesi come Irlanda, Spagna, Germania, Olanda, Belgio e Inghilterra.
Sostiene il Nobel per l’economia, Gary Becker: «Sono favorevole ad un sistema di voucher che consenta alle famiglie di scegliere tra scuola privata e pubblica. Questo non eliminerebbe l’istruzione pubblica, ma la costringerebbe a esporsi al vento della concorrenza, che può fare miracoli per gli studenti. Prevedo anzi che questo tipo di concorrenza aumenterebbe, e non diminuirebbe, la qualità delle scuole pubbliche, perché le costringerebbe a migliorare per attrarre più studenti» (20).
Tuttavia l’istruzione di per sé non è sufficiente. L’istruzione è strumento essenziale ma può essere utilizzato anche in modo negativo: Pol Pot e altri grandi dittatori hanno studiato alla Sorbona.
Per ricordare la definizione di J.A. Jungmann, resa celebre da Luigi Giussani, l’educazione è “una introduzione alla realtà totale” (21). L’istituzione scolastica ha lo scopo di istruire, ma in essa deve anche poter accadere un incontro con maestri che, nell’alveo di movimenti ideali, collaborando con i genitori, possano educare in un contesto di libertà di insegnamento. Da questo punto di vista la ricaduta di una vera educazione sull’istruzione è evidente. Dove c’è vitalità, spirito ideale, passione, coraggio, esperienza, è più facile imparare e affrontare le prove della vita, e quindi raggiungere il fine dell’istruzione, facendo in modo che nell’ambito della didattica si possano comunicare risposte adeguate ai bisogni conoscitivi, creativi e umani dello studente, a seconda delle varie fasi della sua vita personale. E’ per questo che, come è stato dimostrato, la motivazione incide per due terzi sulla capacità di apprendimento.
Da tale concezione dell’educazione e dal rispetto della libertà individuale deriva la centralità della persona nel processo educativo; essa non è una “identità” da costruire indipendentemente da lui: è “dato” da rispettare e soggettività che vuole crescere e che, per questo, deve essere favorita e aiutata.
b.Competitività e innovazione
Nei mercati di beni e servizi devono esser rispettate le regole necessarie perché ognuno possa esprimere le proprie potenzialità senza costrizioni. Le distorsioni che avvengono oggi in Italia nel sistema bancario, i privilegi che vengono concessi da parte dello Stato e del sistema finanziario a certe grandi imprese incapaci di vero sviluppo, la penalizzazione di molte piccole e medie imprese, ancorché concorrenziali e vitali, la falsa liberalizzazione delle pubbliche utilità che ha dato vita a oligopoli e monopoli, le rendite ingiustificate di corporazioni e lobby, sono forme larvate di dittatura che impediscono la pari opportunità nella competizione, la valorizzazione dei capaci e meritevoli e quindi la libertà.
La globalizzazione dei mercati e la nuova rivoluzione scientifico-tecnologico-industriale costringono ad affrontare tante emergenze per rendere competitivo il nostro sistema produttivo.
Invece di porre l’accento sul problema dell’adeguamento delle dimensioni aziendali o sul superamento dell’impresa a conduzione familiare, Quadrio Curzio e Marco Fortis ritengono cruciale la capacità di innovare come necessaria premessa di ogni ulteriore cambiamento, mettendo in luce le condizioni necessarie per l’attuarsi di tale innovazione: «È necessario considerare la capacità dei DI, delle Pmi e dei settori classici del Made in Italy […] di accettare e vincere la sfida dell’innovazione legata ai problemi dei bassi investimenti in R&S e alla loro scarsa selettività nel privilegiare l’eccellenza, la scarsa presenza dell’Italia nei settori high-tech caratterizzati da una domanda mondiale in dinamica ascesa, il non possedere un significativo numero di grandi imprese che possano supportare ingenti spese in R&S, le carenze della ricerca scientifica e della formazione nel contesto universitario e negli enti di ricerca, la mancanza di loro nessi di trasferimento con le imprese» (22).
Non pochi sottolineano la centralità dell’innovazione e le condizioni per realizzarla, più raro è, invece, vedere nella sussidiarietà il metodo per attuarla. Affermano ancora Quadrio Curzio e Marco Fortis: «L’attuale “modello italiano”, con la sua innovazione complessa (di design, tecnologica, organizzativa e persino sociale) non progettata, come detto, non sarà sufficiente a garantirci la competitività per il futuro. Esso dovrà basarsi su un patto “PDL” ovvero tra Pilastri, Distretti, Laboratori… basato sul concetto di sussidiarietà del sistema economico composto dagli attori presentati e dalle linee di interazione tra gli stessi […] Il distretto è un soggetto “vivente” economico e sociale che ha una fortissima base comunitaria fondata sulla reciproca fiducia dei partecipanti al distretto stesso. È un luogo caratterizzato da forti identità culturali, sociali e civili, che presenta degli indubbi vantaggi competitivi in termini di competenze in particolari specializzazioni produttive e di sviluppo. Infine è una fonte di vivacità continua, compresa quella che si manifesta sotto forma di innovazione incrementale» (23).
c.Welfare mix
Il metodo indicato per lo sviluppo del sistema produttivo che vale anche per il sistema del welfare, come sostengono con forza Lombardi e Antonini (24), sottolineando l’importanza cruciale della nuova formulazione dell’art.118 della Costituzione, dove si utilizza il verbo “riconoscere” a riguardo della creatività economica e sociale, in molti settori ancora troppo spesso soffocata da “lacci e laccioli” .
Nei “quasi mercati” del welfare (sanità, assistenza, istruzione, cultura) sussidiarietà significa tutelare un incontro tra domanda e offerta al di fuori di utopie neoliberiste e dirigismi statalistici.
Secondo numerosi studiosi e nella pratica di molti Paesi di stampo anglosassone, in tali settori può essere concepita una concorrenza tra agenti di diritto pubblico, privati profit e privati non profit, mitigata da regole che tengano conto della delicatezza dei servizi erogati.
Sotto il profilo giuridico, in ogni democrazia occidentale, niente ostacola il fatto che il cittadino possa scegliere tra agenti di diversa tipologia. La reale esistenza di un “quasi mercato” e della libera scelta dipende però da tre condizioni. In primo luogo, occorre riconoscere che alcune realtà non profit di diritto privato svolgono una funzione di pubblica utilità equiparabile a quella di agenti statali. Secondariamente, si devono adottare adeguati sistemi di valutazione e accreditamento degli agenti erogatori di servizi utili per superare le asimmetrie informative che ostacolano la libera scelta del cittadino. In terzo luogo, la libertà di scelta deve essere supportata da un regime di sussidiarietà fiscale che permetta, per chi se ne serva, la detassazione delle donazioni e dei contributi a favore di enti non profit di pubblica utilità accreditati, invece che di agenti statali.
Se si attuassero queste tre condizioni si realizzerebbero reali sistemi di “quasi mercato” e di sussidiarietà orizzontale con grandi vantaggi in termini di efficienza, efficacia, equità, capillarità dei servizi erogati e maggior soddisfazione del consumatore.
Qualcosa in questa direzione, negli ultimi tempi è cambiato.
In Italia la Corte Costituzionale (in occasione della sentenza n.301/2003 sulle fondazioni bancarie) e implicitamente l’articolo 118 della Costituzione (così come è stato riformulato alla fine della scorsa legislatura) hanno cominciato ad ammettere, pur timidamente, la pubblica utilità di determinati agenti non profit; nel giugno di quest’anno è stata promulgata una legge per l’impresa sociale che definisce le non profit di pubblica utilità; in diversi settori si stanno inoltre approntando sistemi di accreditamento e valutazione.
A parte la recente approvazione della legge “Più dai, meno versi” che porta a 70.000 € il tetto di deduzioni riguardanti le erogazioni a favore di enti non profit (ampliando l’assurdo limite precedente fissato a 2000€), quasi nulla è stato fatto, invece, a livello di sussidiarietà fiscale. Se in Gran Bretagna, Germania, USA, esiste una detassazione tendenzialmente illimitata per donazioni e contributi al non profit, in Italia l’opzione per un servizio “privato”, diverso da quello offerto dall’ente pubblico, deve essere pagata con risorse ulteriori rispetto a quelle già prelevate dall’imposizione fiscale. Oggi, voucher, buoni scuola e buoni assistenza regionali esauriscono la limitatissima sussidiarietà fiscale esistente nel nostro Paese.
Quindi, la riforma costituzionale sulla sussidiarietà fiscale, seguita da leggi che permettano nuove deduzioni e detrazioni fiscali, anche estese ai voucher, sarebbe perciò una vera rivoluzione.
Si avrebbe uno strumento efficace per la lotta alla rendita, capace di restituire “sovranità” al contribuente che potrebbe finanziare maggiormente i servizi che più funzionano e lo soddisfano.
Su tale riforma, utile per rendere moderno, democratico ed efficiente il sistema del welfare in Italia, sarebbe veramente irragionevole non raggiungere un consenso unanime superando gli steccati e i pregiudizi ideologici che da troppo tempo ingessano il nostro Paese.
d. Politica non invasiva
Per attuare un sistema di sussidiarietà reale, occorre superare l’autoreferenzialità della “cittadella politica” che distorce il rapporto tra partiti, Stato, cittadini, sotto due aspetti altrettanto importanti. Da una parte è da evitare l’invasività di partiti che tendono a subordinare movimenti, società civile, mondo economico e culturale fino a tentare di eliminare l’espressione libera dei cittadini, anche nelle elezioni, abolendo le preferenze e predeterminando il nome degli eletti.
Occorre tornare a rispettare il valore delle istituzioni, che rappresentano lo Stato e sono garanzia di diritti dei cittadini e che in questi anni sono state svilite e subordinate ai propri interessi da esponenti di entrambi gli schieramenti.
Se queste sono le linee fondamentali secondo cui attuare il principio di sussidiarietà, non bastano analisi per renderlo effettivo: occorre mostrarne e moltiplicarne gli esempi in atto, nell’istruzione, nei mercati, nel welfare, nella politica (vedi ad esempio l’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà), condizioni indispensabili per evitare quel declino che, oggi, ha inizio innanzitutto nelle coscienze.
È l’esaltazione del desiderio di verità, di giustizia, di bellezza come fattore di progresso, anche economico, come afferma nel suo libro L’io, il potere, le opere, don Giussani. Custodire e incrementare il desiderio nell’uomo che lavora e investe è la condizione per favorire un’esistenza che persegua e compia il proprio destino e nello stesso tempo sia la premessa per un nuovo sviluppo (25).
Io credo infatti che, come è avvenuto in molti momenti della nostra secolare storia, l’educazione del singolo io e del popolo alla realtà, percepita nell’integralità dei suoi fattori, attraverso un’esperienza ideale e di fede, possa costituire l’origine di un nuovo sviluppo umano e sociale.
Continuano ad esserne prova tutte quelle esperienze sociali ed economiche nate nella società dalla fede o da ideali di giustizia e progresso di cui la storia del nostro Paese è ricca.
see u,
Giangiacomo
un po' datato (Novembre 2005), ma fenomenale per quanto entri nei contenuti e li enunci con naturalezza, spettacolare per l'esaltazione del principio di sussidiarietà che tanto sostengo nel mio piccolo...
1. L’anomalia virtuosa italiana: nascita, sviluppo, crisi
Il nesso tra desiderio, fede, passione ideale e vita sociale ed economica è all’origine della virtuosa “anomalia italiana” e del suo enorme sviluppo economico e politico.
All’inizio del secolo XIX, dalla fede cristiana e da ideali socialisti e liberali, sono nate opere sociali e un sistema economico unico al mondo, caratterizzato dalla presenza diffusa di piccole e medie imprese che hanno elevato il grado di ricchezza un po’ ovunque. Il nostro è stato un Paese capace di darsi regole democratiche e una Costituzione che ha saputo valorizzare le diverse visioni ideali in funzione di una vita comune; ha saputo stabilire una convivenza che ha garantito rispetto profondo per l’uomo e volontà di offrire ad ognuno una condizione di vita decorosa.
Negli anni, tuttavia, questo sviluppo è stato limitato da concezioni estranee alla sua origine e nemiche dell’uomo, non riuscendo così ad affermarsi in modo definitivo e duraturo.
Ancora oggi la vita sociale e politica italiana è dominata da contrapposte ideologie, nate da idee sull’uomo e sulla realtà figlie di verità parziali e oggi assolutizzate a postulati generali che ne regolano ogni aspetto.
I teorici del liberismo e del privato puro si affidano in modo fideistico alle capacità salvifiche del mercato, che sarebbe capace meccanicamente e impersonalmente di risolvere ogni problema, senza chiedersi quale sia il costo umano e sociale di una selezione portata alle estreme conseguenze.
Invece, i teorici dello statalismo, nostalgici e non di una società marxista, considerano lo Stato l’unica risposta a tutti i mali.
Nel nostro Paese le partecipazioni statali sono arrivate a costituire più del 50% dell’economia e l’abnorme crescita della spesa pubblica viene finanziata favorendo sistemi di tassazione iniqui (1), mentre rendite e sprechi sembrano senza limite (2).
Queste ideologie non si limitano però solo a interessare il sistema economico, ma tentano di definire, fin negli aspetti antropologici e morali, quale sia la posizione umana necessaria per sostenere il sistema in cui si vive. Il cattocomunismo, che del cattolicesimo conserva una generica spinta etica per poi assumere categorie culturali e interpretative veteromarxiste, fa proprie posizioni manichee, identificandosi così con la parte di società “naturalmente pura” da difendere contro la parte corrotta.
Queste posizioni sono analoghe a quelle teorizzate da chi vorrebbe l’avvento di un moralismo calvinista intransigente, capace di ostracizzare chi sbaglia, implacabile nel ridurre l’intera società ad uno strumento per il progresso economico e scientifico teso alla ricerca di un profitto fatto di selezione sociale ed economica.
D’altra parte, come ultima ed estrema versione della ricerca del divo di umanistica memoria, si invocano uomini della provvidenza capaci di risolvere “magicamente” i problemi per le loro capacità, moralità e competenza.
Chi invece si vuole rifare alla tradizione, spesso si fa portatore di un’ideologia neoconservatrice che, come nelle sette protestanti americane, crede nella capacità naturale dell’uomo di raggiungere la moralità e la verità anche nella vita sociale, grazie alla sua adesione a valori filosofici e religiosi.
In tutte queste posizioni prevale la certezza teorica e pratica che siano la politica, l’occupazione dello Stato, la promulgazione di leggi a sé favorevoli a determinare il progresso.
Si tratta in generale di una concezione che subordina l’esistenza dell’uomo a dinamiche sociali, politiche e d economiche costruite prescindendo dalla necessità di rispondere al desiderio di felicità dei singoli e soggetta al controllo del potere politico.
In realtà, la ragione dell’incapacità dello sviluppo ad affermarsi definitivamente e a modellare la società italiana, è ancora più profondo e risiede nella crisi di un Cattolicesimo ancora capace di incidere sotto il profilo sociale, ma sempre più debole a livello di esperienza personale.
Dal punto di vista politico, la Democrazia Cristiana, che ha enormi meriti per ciò che è riuscita a fare per lo sviluppo della vita democratica del Paese, è implosa a poco a poco scivolando nella sola preoccupazione di una gestione del potere e imboccando la via dello statalismo, perdendo così coscienza della sua diversità culturale. Addirittura è arrivata ad accettare un regime consociativo in cui «nella concreta vita parlamentare si realizzava una strategia di compromesso» (3), mentre «nel presupposto che la società civile del dopoguerra fosse impreparata, venne colonizzata politicamente e si favorì una concezione “paternalistica” dei diritti sociali. Nella vita concreta della nuova Repubblica italiana i soggetti attivi del pluralismo sociale vennero identificati e sostanzialmente esauriti nei partiti e nei sindacati, destinando le altre formazioni sociali ad un ruolo marginale e secondario» (4).
Afferma, infatti, Augusto Del Noce: «La storia d’Italia, dal 1945 in poi, è la storia del progressivo affermarsi del Partito d’Azione, del partito al servizio dei ceti emergenti, del capitale finanziario, degli speculatori, della mobilità sociale. Il partito dissolutore della tradizione» (5). «L’esito fu un nuovo edonismo indotto dallo sviluppo economico, l’incapacità di vivere e trasmettere i valori della tradizione, una classe politica sempre più chiusa in se stessa, finirono per spegnere le tensioni ideali del momento costituente» (6).
Sinteticamente, la situazione può essere descritta con le parole di don Giussani «… l’Italia, mi sembra un sommovimento terrestre, un terremoto. Dove chi spinge di più riesce a buttare via più pietre che gli ingombrano il terreno. E’ una situazione civile dove non c’è un ideale adeguato, dove non c’è nulla che ecceda l’aspetto utilitaristico. Un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga ideale. Il timore è che si scatenino conflitti senza fine» (7).
2. Il riflesso economico e sociale della crisi
Il successo dell’economia italiana dell’ultimo dopoguerra era stato reso possibile da tre “miracoli” economici successivi: la ricostruzione postbellica; la crescita esponenziale delle piccole e medie imprese che, «nel momento di crisi delle grandi imprese negli anni Settanta e Ottanta, hanno sviluppato nei fatti i distretti industriali» (8) elaborando «un proprio modello di sviluppo settoriale italiano, incentrandolo sul cosiddetto Made in Italy» (9); il risanamento macrofinanziario degli anni Novanta, che ha portato all’ingresso nell’euro (10).
Tuttavia, come è già stato precedentemente sottolineato, proprio negli anni di maggior sviluppo, con il mancato compimento delle premesse e degli ideali che avevano originato il miracolo economico, non si è colta l’occasione per affrontare e risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana, problemi che continuano a determinare il momento presente: «La mancanza di una solida e riproducibile classe dirigente; scarsissima istituzionalizzazione dei mercati; bassa divisione funzionale tra famiglia e impresa e scarsissima differenziazione sociale tra proprietà e controllo delle stesse imprese» (11).
E ancora: il sottosviluppo del mezzogiorno, la mancanza di infrastrutture (a cui si è aggiunta la scomparsa delle grandi imprese), il declino dell’industria di Stato con i suoi alti tassi di clientelismo e inefficienza, le privatizzazioni che hanno dato vita ad oligopoli e a svendite anche di imprese sane e competitive, il venir meno di un adeguato insegnamento tecnico e professionale, il mancato investimento in istruzione superiore e ricerca, l’incremento vertiginoso della spesa pubblica improduttiva e causa di rendite parassitarie.
Come sostiene l’economista Luigi Campiglio, negli ultimi anni tali fattori negativi sono diventati prevalenti: «Nell’ultimo decennio l’Italia è diventata una società lenta: è lenta l’economia, con un tasso di crescita inferiore alla media europea, e quindi ancora di più rispetto agli Stati Uniti, così come è lenta la società dei cittadini, perché delusa dall’insuccesso dei sussulti di cambiamento nei confronti del sistema politico. Negli anni più recenti il rallentamento è diventato declino assoluto, in particolare nell’industria manifatturiera in cui si registra un declino della produttività del lavoro, che non casualmente si accompagna a una diminuzione degli investimenti e della quota di mercato nel commercio mondiale» (12).
Tra le conseguenze di questo declino c’è anche la crisi sociale. Sono vittime della crisi, innanzitutto, i ceti medi che «si sentono improvvisamente vulnerabili. L’impoverimento dei ceti medi, dunque, sembra assomigliare ai processi sperequativi “all’americana”: nel grande segmento di famiglie italiane poste dall’Istat sopra la soglia di povertà stanno aumentano le disuguaglianze tra le classi. Si sta allargando, cioè, la distanza tra i ceti medio-bassi e quelli medio-alti, sia in termini di potere d’acquisto che di condizioni di vita» (13).
La seconda grande crisi sociale è quella della famiglia. Dice Di Vico: «Un ulteriore fenomeno che sta pesando sullo status dei ceti medi è il boom delle separazioni e dei divorzi. Se fino a qualche lustro addietro la rottura del matrimonio era un privilegio delle classi più ricche, ora è diventata una prerogativa appannaggio di tutti. […] Risulta che sono proprio le classi medie a far saltare con maggiore frequenza il ménage coniugale. se una famiglia si divide moltiplica automaticamente spese e costi». Intimamente legato alla crisi della famiglia e degli ideali è l’invecchiamento della popolazione: « Gli anziani non autosufficienti sono raddoppiati. Due milioni di persone vivono assistiti dalla famiglia, ancora oggi la rete informale prioritaria per l’assistenza. Oltre 900.000 anziani sono costretti in un letto o non possono uscire dalla propria abitazione […]» (14).
Siamo ormai a un bivio, come afferma ancora Campiglio: «Lo sviluppo economico del secondo dopoguerra, con il suo incontenibile travaso unitario, ha fatto gli italiani uniti molto più di un secolo di guerre e divisioni amministrative, e per una breve stagione ha dato loro un interesse permanente e un ruolo internazionale che oggi pare invece indebolito» (15). Al posto di questa consapevolezza comune prevale lo statalismo, come conferma Giulio Sapelli: «L o Stato è troppo lontano dai sistemi di senso e di significato che le persone elaborano per raggiungere i loro fini e per rendere meno indecente la loro vita» (16).
E’ opinione diffusa che la situazione descritta nei precedenti paragrafi sia irreversibile. Autorevoli pensatori, invece, ritengono che esistano ancora elementi di speranza. Tra questi Quadrio Curzio e Marco Fortis affermano: «Noi crediamo, in base all’analisi della storia dello sviluppo economico italiano, che il nostro Paese abbia le capacità per affrontare le nuove sfide purché da un lato riesamini con obiettività la propria vicenda della seconda parte del xx secolo e dall’altro faccia una scelta coraggiosa, rispondente per altro alle proprie migliori caratteristiche economiche, sociali» (17).
3. La situazione europea
Anche grazie all’onda emotiva della Tangentopoli internazionale e alla strumentalizzazione delle questioni legate alla guerra in Iraq - l’identità di un’Europa, che tutti sembrano così pronti a difendere, è stata completamente stravolta da come era stata delineata nel documento programmatico di Lisbona 2000.
L’Europa degli Andreotti, dei Delors, dei Kohl, l’Europa che aveva varato la moneta unica, aveva ben altri scopi e intendimenti: diventare - entro il 2010 - il luogo dove più che in ogni altro posto nel mondo il capitale umano fosse valorizzato e sostenuto, trasformando la propria economia in un’economia della conoscenza, un sistema nel quale le capacità dell’ingegno europeo fossero valorizzate al massimo. Quell’Europa voleva aprirsi al Mediterraneo, superando definitivamente i nazionalismi; voleva dare impulso ad un’economia e ad una società in cui ci fossero spazi di libertà per le molte iniziative nate dal basso e non legata unicamente a pochi centri di potere. Tutto questo è stato stravolto.
Quella guidata da Schröeder, da Chirac e da Zapatero, infatti, è l’Europa dei nazionalismi che, mentre non perde occasione per richiamarsi all’unità (purtroppo solo di facciata), vede crearsi un asse tra due dei suoi massimi esponenti (Schröeder e Chirac), per un seggio tedesco all’ONU, riproponendo così, dove le scelte contano, scene ottocentesche di distinzioni tra Paesi di serie A e di serie B.
Sul piano dell’economia internazionale, questa Europa si mostra sempre più una realtà chiusa, abbandonando qualsiasi tentativo di integrazione mediterranea e praticando un protezionismo agricolo verso l’America Latina, per citare solo due esempi. Non ha investito in istruzione e, con la sua politica volta unicamente all’equilibrio di bilancio, ha soffocato lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Del resto, questo non è strano se pensiamo che la politica economica è dominata da commissari – in alcuni casi quasi diretta espressione delle grandi lobby - che parlano di competitività, ma la usano a senso unico, difendendo i monopoli francesi e tedeschi in palese contrasto con antitrust nazionali e internazionali.
Ulteriore elemento negativo sono le posizioni criminali sulla vita, in realtà utili soltanto per accontentare elettorati radicali e coprire la radice reazionaria di questi tre esponenti.
Lo stop alla Costituzione europea è una sintesi di questa mancanza di identità.
In questo quadro italiano ed europeo, senza pretendere di giungere a conclusioni definitive, occorre affidare alla nazione intera e al singolo le chiavi del proprio destino e dello sviluppo. Ma qual è, allora, la strada da percorrere per un nuovo sviluppo?
4. Desiderio, opere, politica
Due testi molto diversi tra di loro, ci aiuteranno ad individuare una ipotesi di risposta: l’intervento di don Giussani all’assemblea della Democrazia Cristiana lombarda svoltosi ad Assago nel 1987 dal titolo “Desiderio, opere e politica” e l’opera fondamentale di K. J. Arrow, premio Nobel per l’economia e teorico dell’economia del benessere, intitolata “Scelte sociali e valori individuali”.
Don Giussani affermò che il desiderio di felicità, di verità, di giustizia, di bellezza costituisce la scintilla che accende il “motore”, per cui l’uomo “si mette a cercare il pane e l’acqua, si mette a cercare il lavoro, a cercare la donna, si mette a cercare una poltrona più comoda e un alloggio più decente, si interessa a come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell’ingrandirsi, del dilatarsi e del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente cuore”.
Come afferma l’autore, tuttavia, la mentalità dominante tende a ridurre sistematicamente i desideri dell’uomo, cercando di governarli, di appiattirli, fino a creare “smarrimento dei giovani e cinismo degli adulti”. Per questo occorrono movimenti che educano il desiderio, fino a permettere quell’esperienza di libertà che è soddisfazione del desiderio, e “incapaci di rimanere nell’astratto […], tendono a mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei bisogni in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture capillari e tempestive che chiamiamo «opere»”, cioè “forme di vita nuova per l’uomo”, come le chiamò Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982.
Da qui nasce l’appello finale alla politica perché rispetti e valorizzi questo dinamismo virtuoso: “Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno Stato prepotente sulla società”.
Alla luce del discorso di Assago è interessante rileggere l’opera fondamentale di Arrow.
L’economista americano dimostra che l’unico caso in cui un ordinamento sociale può essere costruito come semplice funzione delle preferenze personali è quando si attui, nei mercati e nella vita politica, una dittatura. C’è una sola possibilità in cui questa eventualità può essere evitata: quando, rinunciando all’utopia neoclassica dell’intangibilità delle preferenze individuali, più persone riconoscano valori comuni che rispecchiano i loro “desideri socializzati”. Così, Arrow conclude: “L’ordinamento rilevante per il raggiungimento di un massimo sociale è quello basato sui valori che rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi gli importanti desideri socializzanti”.
Cosa può accomunare i principi della Dottrina Sociale della Chiesa rivisitati da don Giussani e la trattazione di Arrow? Il fatto che, per aiutare gli uomini a fare un’esperienza di libertà, ad esprimere la propria capacità di costruzione, di risposta ai suoi bisogni, è necessario un assetto sociale caratterizzato dalla sussidiarietà, intesa come ordinamento che valorizzi i desideri degli io e le libere aggregazioni in cui questi desideri si sviluppano e si esprimono.
Si è detto che occorre educare gli uomini perché i loro desideri non siano ridotti e divengano effettiva libertà, intesa come responsabilità e capacità di costruzione. Tuttavia, uomini così educati hanno bisogno di strumenti per poter essere più efficaci nell’agire sociale, economico e politico. Da qui si deduce che per attuare la sussidiarietà il primo strumento è l’investimento in capitale umano, inteso come una sistematica formazione e istruzione di coloro che, mossi da un ideale e dal loro desiderio, vogliono dar vita ad opere e partecipare al cambiamento e al miglioramento di sé e dei propri simili.
La trattazione di Arrow, articolandosi in due aspetti fondamentali, il governo della società e il mercato, permette di enucleare anche gli altri fondamentali aspetti per l’attuarsi di una vera sussidiarietà. Essi sono: competitività, welfare mix e politica non invasiva.
Vediamo tutti questi aspetti in modo più approfondito a partire dall’investimento in capitale umano.
a. Investimento in capitale umano
Circa i due terzi dello sviluppo di un’attività economica dipendono dalle abilità dei lavoratori: nel breve periodo quale fattore della produzione e, nel lungo periodo, come parte del capitale.
Ecco perché l’Europa, con il Trattato di Lisbona, si era data come obiettivo per il 2010 quello di diventare il luogo dell’eccellenza nella conoscenza.
Dal punto di vista dell’investimento in istruzione, l’Europa è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti che hanno visto nella prima parte del ventesimo secolo il periodo di maggior diffusione dell’istruzione secondaria: la percentuale di americani con un diploma è cresciuta dal 9% del 1910 all’oltre 50% del 1940. Gli ultimi trent’anni hanno visto il diffondersi l’istruzione superiore (college e università). Oggi i due terzi circa dei diplomati americani proseguono in qualche modo la loro carriera scolastica.
In Europa invece la diffusione dell’istruzione secondaria è cominciata solo dopo la prima guerra mondiale e quella dell’istruzione superiore, solo in tempi recenti. Inoltre, ancora oggi i Paesi europei hanno un approccio più elitario di quello americano nei confronti della formazione universitaria.
In Italia, nonostante il fatto che lo sforzo per il cambiamento negli ultimi quarant’anni in Italia sia stato enorme, il gap rispetto agli altri Paesi sviluppati è tuttavia ancora grande. In Italia nel 2002 solo il 71% dei giovani compresi tra i 15 e i 19 anni è iscritto a scuola, contro una media dell’81% in Europa; solo il 42% delle persone tra i 25 e i 34 anni ha un diploma, contro il 60% nel resto dell’Unione Europea. Il dato non è omogeneo, sia in termini territoriali che per tipologia di scuola. Dall’indagine campionaria del Ministero della Pubblica Istruzione del 1999 si evince, in particolare, che la dispersione scolastica (data dagli alunni non frequentanti e dai ritirati senza motivazione) è molto più elevata nella scuola media inferiore e negli istituti tecnici e professionali del Sud e delle Isole rispetto al Nord. Inoltre la dispersione è molto più forte nel complesso degli istituti tecnici e professionali che nei licei, a segnalare come il disagio scolastico si concentri soprattutto in alcuni tipi di scuola. Il quadro complessivo è quello di un Paese che ha compiuto un enorme sforzo verso l’alfabetizzazione e l’istruzione di base di massa, ma non è riuscito completamente a compiere il secondo balzo: si evincono forti differenze, territoriali e per tipologia di scuola, in termini di dispersione scolastica.
La scuola italiana è stata tradizionalmente molto valida fino al primo livello di università. La non rinuncia a un affronto teorico delle materie ha permesso l’aumento dello spirito critico in tutti; il realismo e la concretezza hanno garantito la formazione di tecnici di alto livello. L’università fino al primo livello ha offerto una buona preparazione di base, tanto che molti italiani, specializzati all’estero, hanno raggiunto i vertici nel campo della ricerca scientifica. Adeguati investimenti in istruzione e ricerca sarebbero stati moltiplicatori di tali doti naturali. Invece lo sforzo di alfabetizzazione di massa ha coinciso con una caduta del livello qualitativo dell’istruzione correlato con un centralismo pubblico deleterio.
Fondamentale a questo livello è l’esistenza di scuole libere quali fattori di progresso umano e sociale.
Infatti, come afferma Glenn confrontando differenti sistemi scolastici secondo il grado di libertà di insegnamento, «i genitori che professano fedi o aderiscono a forme di appartenenza che divergono o vanno al di là di quelle autorizzate dalla cultura prevalente e che sono fermamente decisi a impostare l’educazione dei loro figli sulla base di esse, sono percepiti, dall’establishment dell’istruzione, come una minaccia molto più grande del loro reale potere. Nel momento in cui manifestano le loro preoccupazioni, essi mettono in discussione il mito stesso della “scuola unica”, e cioè, che i valori sostenuti e propagati dall’élite culturale mediante la pubblica istruzione siano neutrali, non settari e anzi assolutamente ovvi per ogni persona ragionevole» (18).
Un sistema paritario tra scuole libere e scuole gestite dallo Stato è stato determinato dal ministro Berlinguer e la modifica costituzionale dell’articolo V lo ha confermato solennemente (19). Occorre quindi rendere effettiva tale parità giuridica ponendo fine a una sottrazione di fondi ingiusta a danno di alcuni cittadini e degli studenti, equiparando l’Italia a Paesi come Irlanda, Spagna, Germania, Olanda, Belgio e Inghilterra.
Sostiene il Nobel per l’economia, Gary Becker: «Sono favorevole ad un sistema di voucher che consenta alle famiglie di scegliere tra scuola privata e pubblica. Questo non eliminerebbe l’istruzione pubblica, ma la costringerebbe a esporsi al vento della concorrenza, che può fare miracoli per gli studenti. Prevedo anzi che questo tipo di concorrenza aumenterebbe, e non diminuirebbe, la qualità delle scuole pubbliche, perché le costringerebbe a migliorare per attrarre più studenti» (20).
Tuttavia l’istruzione di per sé non è sufficiente. L’istruzione è strumento essenziale ma può essere utilizzato anche in modo negativo: Pol Pot e altri grandi dittatori hanno studiato alla Sorbona.
Per ricordare la definizione di J.A. Jungmann, resa celebre da Luigi Giussani, l’educazione è “una introduzione alla realtà totale” (21). L’istituzione scolastica ha lo scopo di istruire, ma in essa deve anche poter accadere un incontro con maestri che, nell’alveo di movimenti ideali, collaborando con i genitori, possano educare in un contesto di libertà di insegnamento. Da questo punto di vista la ricaduta di una vera educazione sull’istruzione è evidente. Dove c’è vitalità, spirito ideale, passione, coraggio, esperienza, è più facile imparare e affrontare le prove della vita, e quindi raggiungere il fine dell’istruzione, facendo in modo che nell’ambito della didattica si possano comunicare risposte adeguate ai bisogni conoscitivi, creativi e umani dello studente, a seconda delle varie fasi della sua vita personale. E’ per questo che, come è stato dimostrato, la motivazione incide per due terzi sulla capacità di apprendimento.
Da tale concezione dell’educazione e dal rispetto della libertà individuale deriva la centralità della persona nel processo educativo; essa non è una “identità” da costruire indipendentemente da lui: è “dato” da rispettare e soggettività che vuole crescere e che, per questo, deve essere favorita e aiutata.
b.Competitività e innovazione
Nei mercati di beni e servizi devono esser rispettate le regole necessarie perché ognuno possa esprimere le proprie potenzialità senza costrizioni. Le distorsioni che avvengono oggi in Italia nel sistema bancario, i privilegi che vengono concessi da parte dello Stato e del sistema finanziario a certe grandi imprese incapaci di vero sviluppo, la penalizzazione di molte piccole e medie imprese, ancorché concorrenziali e vitali, la falsa liberalizzazione delle pubbliche utilità che ha dato vita a oligopoli e monopoli, le rendite ingiustificate di corporazioni e lobby, sono forme larvate di dittatura che impediscono la pari opportunità nella competizione, la valorizzazione dei capaci e meritevoli e quindi la libertà.
La globalizzazione dei mercati e la nuova rivoluzione scientifico-tecnologico-industriale costringono ad affrontare tante emergenze per rendere competitivo il nostro sistema produttivo.
Invece di porre l’accento sul problema dell’adeguamento delle dimensioni aziendali o sul superamento dell’impresa a conduzione familiare, Quadrio Curzio e Marco Fortis ritengono cruciale la capacità di innovare come necessaria premessa di ogni ulteriore cambiamento, mettendo in luce le condizioni necessarie per l’attuarsi di tale innovazione: «È necessario considerare la capacità dei DI, delle Pmi e dei settori classici del Made in Italy […] di accettare e vincere la sfida dell’innovazione legata ai problemi dei bassi investimenti in R&S e alla loro scarsa selettività nel privilegiare l’eccellenza, la scarsa presenza dell’Italia nei settori high-tech caratterizzati da una domanda mondiale in dinamica ascesa, il non possedere un significativo numero di grandi imprese che possano supportare ingenti spese in R&S, le carenze della ricerca scientifica e della formazione nel contesto universitario e negli enti di ricerca, la mancanza di loro nessi di trasferimento con le imprese» (22).
Non pochi sottolineano la centralità dell’innovazione e le condizioni per realizzarla, più raro è, invece, vedere nella sussidiarietà il metodo per attuarla. Affermano ancora Quadrio Curzio e Marco Fortis: «L’attuale “modello italiano”, con la sua innovazione complessa (di design, tecnologica, organizzativa e persino sociale) non progettata, come detto, non sarà sufficiente a garantirci la competitività per il futuro. Esso dovrà basarsi su un patto “PDL” ovvero tra Pilastri, Distretti, Laboratori… basato sul concetto di sussidiarietà del sistema economico composto dagli attori presentati e dalle linee di interazione tra gli stessi […] Il distretto è un soggetto “vivente” economico e sociale che ha una fortissima base comunitaria fondata sulla reciproca fiducia dei partecipanti al distretto stesso. È un luogo caratterizzato da forti identità culturali, sociali e civili, che presenta degli indubbi vantaggi competitivi in termini di competenze in particolari specializzazioni produttive e di sviluppo. Infine è una fonte di vivacità continua, compresa quella che si manifesta sotto forma di innovazione incrementale» (23).
c.Welfare mix
Il metodo indicato per lo sviluppo del sistema produttivo che vale anche per il sistema del welfare, come sostengono con forza Lombardi e Antonini (24), sottolineando l’importanza cruciale della nuova formulazione dell’art.118 della Costituzione, dove si utilizza il verbo “riconoscere” a riguardo della creatività economica e sociale, in molti settori ancora troppo spesso soffocata da “lacci e laccioli” .
Nei “quasi mercati” del welfare (sanità, assistenza, istruzione, cultura) sussidiarietà significa tutelare un incontro tra domanda e offerta al di fuori di utopie neoliberiste e dirigismi statalistici.
Secondo numerosi studiosi e nella pratica di molti Paesi di stampo anglosassone, in tali settori può essere concepita una concorrenza tra agenti di diritto pubblico, privati profit e privati non profit, mitigata da regole che tengano conto della delicatezza dei servizi erogati.
Sotto il profilo giuridico, in ogni democrazia occidentale, niente ostacola il fatto che il cittadino possa scegliere tra agenti di diversa tipologia. La reale esistenza di un “quasi mercato” e della libera scelta dipende però da tre condizioni. In primo luogo, occorre riconoscere che alcune realtà non profit di diritto privato svolgono una funzione di pubblica utilità equiparabile a quella di agenti statali. Secondariamente, si devono adottare adeguati sistemi di valutazione e accreditamento degli agenti erogatori di servizi utili per superare le asimmetrie informative che ostacolano la libera scelta del cittadino. In terzo luogo, la libertà di scelta deve essere supportata da un regime di sussidiarietà fiscale che permetta, per chi se ne serva, la detassazione delle donazioni e dei contributi a favore di enti non profit di pubblica utilità accreditati, invece che di agenti statali.
Se si attuassero queste tre condizioni si realizzerebbero reali sistemi di “quasi mercato” e di sussidiarietà orizzontale con grandi vantaggi in termini di efficienza, efficacia, equità, capillarità dei servizi erogati e maggior soddisfazione del consumatore.
Qualcosa in questa direzione, negli ultimi tempi è cambiato.
In Italia la Corte Costituzionale (in occasione della sentenza n.301/2003 sulle fondazioni bancarie) e implicitamente l’articolo 118 della Costituzione (così come è stato riformulato alla fine della scorsa legislatura) hanno cominciato ad ammettere, pur timidamente, la pubblica utilità di determinati agenti non profit; nel giugno di quest’anno è stata promulgata una legge per l’impresa sociale che definisce le non profit di pubblica utilità; in diversi settori si stanno inoltre approntando sistemi di accreditamento e valutazione.
A parte la recente approvazione della legge “Più dai, meno versi” che porta a 70.000 € il tetto di deduzioni riguardanti le erogazioni a favore di enti non profit (ampliando l’assurdo limite precedente fissato a 2000€), quasi nulla è stato fatto, invece, a livello di sussidiarietà fiscale. Se in Gran Bretagna, Germania, USA, esiste una detassazione tendenzialmente illimitata per donazioni e contributi al non profit, in Italia l’opzione per un servizio “privato”, diverso da quello offerto dall’ente pubblico, deve essere pagata con risorse ulteriori rispetto a quelle già prelevate dall’imposizione fiscale. Oggi, voucher, buoni scuola e buoni assistenza regionali esauriscono la limitatissima sussidiarietà fiscale esistente nel nostro Paese.
Quindi, la riforma costituzionale sulla sussidiarietà fiscale, seguita da leggi che permettano nuove deduzioni e detrazioni fiscali, anche estese ai voucher, sarebbe perciò una vera rivoluzione.
Si avrebbe uno strumento efficace per la lotta alla rendita, capace di restituire “sovranità” al contribuente che potrebbe finanziare maggiormente i servizi che più funzionano e lo soddisfano.
Su tale riforma, utile per rendere moderno, democratico ed efficiente il sistema del welfare in Italia, sarebbe veramente irragionevole non raggiungere un consenso unanime superando gli steccati e i pregiudizi ideologici che da troppo tempo ingessano il nostro Paese.
d. Politica non invasiva
Per attuare un sistema di sussidiarietà reale, occorre superare l’autoreferenzialità della “cittadella politica” che distorce il rapporto tra partiti, Stato, cittadini, sotto due aspetti altrettanto importanti. Da una parte è da evitare l’invasività di partiti che tendono a subordinare movimenti, società civile, mondo economico e culturale fino a tentare di eliminare l’espressione libera dei cittadini, anche nelle elezioni, abolendo le preferenze e predeterminando il nome degli eletti.
Occorre tornare a rispettare il valore delle istituzioni, che rappresentano lo Stato e sono garanzia di diritti dei cittadini e che in questi anni sono state svilite e subordinate ai propri interessi da esponenti di entrambi gli schieramenti.
Se queste sono le linee fondamentali secondo cui attuare il principio di sussidiarietà, non bastano analisi per renderlo effettivo: occorre mostrarne e moltiplicarne gli esempi in atto, nell’istruzione, nei mercati, nel welfare, nella politica (vedi ad esempio l’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà), condizioni indispensabili per evitare quel declino che, oggi, ha inizio innanzitutto nelle coscienze.
È l’esaltazione del desiderio di verità, di giustizia, di bellezza come fattore di progresso, anche economico, come afferma nel suo libro L’io, il potere, le opere, don Giussani. Custodire e incrementare il desiderio nell’uomo che lavora e investe è la condizione per favorire un’esistenza che persegua e compia il proprio destino e nello stesso tempo sia la premessa per un nuovo sviluppo (25).
Io credo infatti che, come è avvenuto in molti momenti della nostra secolare storia, l’educazione del singolo io e del popolo alla realtà, percepita nell’integralità dei suoi fattori, attraverso un’esperienza ideale e di fede, possa costituire l’origine di un nuovo sviluppo umano e sociale.
Continuano ad esserne prova tutte quelle esperienze sociali ed economiche nate nella società dalla fede o da ideali di giustizia e progresso di cui la storia del nostro Paese è ricca.
see u,
Giangiacomo
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