domenica 14 gennaio 2007

Fiat: fine di un'avventura o ripresa con gestione all'italiana?

un articolo del 2002 di Gianluigi Da Rold intitolava...

La fine dell’avventura?
10 ottobre 2002. Il giorno più nero dell’unica grande casa automobilistica italiana.
Un “partito trasversale” per cinquant’anni al centro della vita economica e politica del Paese.
In pericolo migliaia di posti di lavoro

Quando si parlava della Fiat, dei suoi fasti e delle sue cadute, in Italia si restava sempre approssimativi. Ed è cosa veramente strana, perché la più grande azienda di questo Paese avrebbe meritato un’attenzione costante, se non altro perché negli ultimi cinquant’anni lo sviluppo, o meglio l’espansione economica del Paese, è stata strettamente intrecciata alle necessità di produzione della Fiat. L’unico fatto non misterioso è che si sapeva (fin dal 1946, quando in Italia circolavano 500mila automobili) dell’esistenza di un “partito torinese”, eufemismo per dire più discrezionalmente un “partito Fiat”. Con più precisione, si poteva parlare di un “potere forte” della grande azienda automobilistica, che poteva essere noto ai ministri più importanti, ai grandi commis d’ètat, ai giornalisti parlamentari o a quelli “iniziati” che stanno tutti nei grandi media nazionali. Questo potere, diffuso e palpabile, tutelava l’azienda dalle indiscrezioni e dalle inchieste giornalistiche fastidiose, pilotando poi direttamente le grandi svolte che nell’azienda ci sono state e che non potevano essere trascurate dai grandi giornali e dalle televisioni.“Acquisti promozionali”Capitò così che, negli anni Novanta, l’americano Alan Friedmann e l’italiano Marco Borsa scrivessero due libri “fastidiosi” per i proprietari della Fiat e che quei due libri andassero paradossalmente esauriti per gli “acquisti promozionali” dello stesso ufficio pubbliche comunicazioni della Fiat: quei libri erano quasi accatastati in corso Marconi a Torino. Capitò così che la svolta del 1980, con Enrico Berlinguer in un famoso comizio d’autunno davanti ai cancelli Fiat che prometteva l’aiuto del Pci a un’ eventuale occupazione, diventasse il propellente per la famosa “marcia dei quarantamila” in un gioco mediatico ben orchestrato; così come lo scontro fatale interno alla fabbrica tra Romiti (uomo della finanza) e Ghidella (uomo degli ingegneri); così come l’entrata e l’uscita del capitale libico, con interessanti conseguenze borsistiche non proprio favorevoli ai risparmiatori; così come il ruolo Fiat nell’intricata vicenda di Tangentopoli.Insomma, il “grande potere” torinese si è tutelato mediaticamente (probabilmente anche a fin di bene), ma ha creato una sorta di doppio monopolio: la Fiat è l’unica azienda italiana a produrre automobili; la Fiat è l’unica azienda italiana che i grandi media trattano con il “dovuto rispetto”. Alla fine, però, di “monopolio si può anche morire”. Perché non sempre uno “splendido isolamento” permette di comprendere appieno innovazioni teconologiche, nuovi sviluppi del mercato, realtà politiche e sociali in pieno cambiamento.Buco neroPuò succedere quindi che per l’italiano medio, fino al 10 ottobre 2002, la Fiat, con il suo aristocratico “padrone” ammalato appartato, resti una gemma in un grande capitalismo agli sgoccioli. E poi, dopo l’uscita dei giornali del 10 ottobre, la Fiat diventi l’emblema del triste e inevitabile declino di un certo tipo di capitalismo, della grande impresa e di tutta l’Italia. In realtà, l’amara scoperta dell’italiano medio è come quella “dell’acqua calda”. Da almeno un anno si parla del “buco nero” della Fiat. All’inizio del 2000, un giornale “politicamente non corretto”(MF - Milano Finanza) calcolava il debito della Fiat a 80mila miliardi di vecchie lire, ma alcuni sofisticati operatori di rating tedeschi “sparavano” la cifra di 150mila miliardi. Difficile orientarsi tra queste cifre, sapere se sono esatte o meno, ma le percentuali di flessione del mercato automobilistico in tutto il mondo stavano davanti agli occhi di tutti: se i grandi marchi europei o americani perdevano il 7 per cento, la Fiat perdeva il doppio esatto. E tutti gli “iniziati” parlavano di quando General Motors avrebbe messo la sua unica bandiera sulla gloriosa “Fabbrica italiana automobili Torino”. Soprattutto, a quale prezzo.È difficile indicare le ragioni di questa parabola centenaria. Si può partire dalla frase impietosa di Enrico Cuccia negli anni Novanta: «Ho consigliato all’avvocato Agnelli di comprare azioni Mercedes e poi di non fabbricare più automobili», oppure guardare la decadenza di una fascia di utilitarie che il mercato attuale rifiuta. Oppure si può pensare agli errori per alcuni modelli, o ancora per non aver portato a termine ricerche su alcuni settori trainanti (il fuoristrada, ad esempio, dopo che fu varata tanti anni fa la “Campagnola”). Dopo il crollo del Muro di BerlinoPiù concretamente, a nostro parere, con il passare degli anni, il management Fiat non ha creduto più nel suo “core business”, come si dice, per abbracciare altri settori di investimento, trascurando così quello dell’automobile. Forse la spiegazione reale dello scontro tra Romiti e Ghidella sta proprio in questo punto. La svolta, poi, del dopo “Muro di Berlino” è, a conti fatti, per la Fiat come il passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda repubblica italiana. Se per la prima repubblica c’era un salvagente geostrategico che era scoppiato, per la Fiat, la caduta del Muro si traduce, nel giro di poco tempo, in mercato globale, competizione aperta, fine della protezione statale, impossibilità di difendere il monopolio nazionale, anche dopo l’assorbimento di marchi italiani prestigiosi come “Lancia” (acquistata per una lira), “Alfa Romeo” (acquisto rateale complicato e mai ben chiarito), una grande casa automobilistica di cui Henry Ford parlava in questo modo: «Quando vedo passare un’Alfa mi tolgo il cappello». In più, ci permettiamo di azzardare solo un’ipotesi: nella complessiva ristrutturazione del mercato mondiale, all’Italia è forse stata assegnata una parte industriale marginale, senza cioè la possibilità di avere una grande industria nazionale in alcuni settori strategici della produzione. RassegnazioneÈ possibile che agli errori (anche quelli di valutazione politica generale) si sia aggiunta una rassegnazione della dirigenza Fiat, fino ad accettare la buona uscita della rendita, dolce e morbida, rispetto alla battaglia quotidiana e cruenta del profitto nella complicatissima società mondiale e postindustriale.Realisticamente, noi non crediamo a un salvataggio italiano della Fiat. Una classe politica più avveduta e un management industriale più combattivo avrebbe dovuto pensare molto prima alla crisi Fiat. Resta, al momento, il dolore per chi ci lavora, per quello che dovrà sopportare, per il futuro. Resta ancora il dolore per quella massa di immigrati italiani che si spostarono dal Sud al Nord per fare grande la Fiat con il loro lavoro. Resta il dolore di ogni italiano che ama il suo Paese, anche attraverso il marchio di una grande industria in declino.

mi piacerebbe sapere da voi, avere un giudizio da voi, a posteriori. ora... il vostro giudizio? preoccupazioni allarmanti o la fiat che luccica oggi è solo una bolla che presto ri-scoppiera?

see u,
Giangiacomo

1 commento:

Fabrizio Goria ha detto...

Sai, mi sono fatto un'idea sulla Fiat, sulla sua decadenza e sulla sua improvvisa rinascita.
Ricapitoliamo: La Fiat perde colpi, tira fuori automobili oggettivamente brutte e compie errori di core business, investendo risorse in campi in cui non poteva competere coi le controparti straniere, investe risorse in paesi in via di sviluppo senza continuare le joint venture con le imprese locali, sbaglia a non delocalizzare gli stabilimenti produttivi e mantiene attiva quella enorme cattedrale nel deserto che è Mirafiori e posso andare avanti ancora per molto. Tutto questo senza dimenticare i finanziamenti che chiede alle Banche come il Sanpaolo.
Ora, pensiamo al preciso momento in cui la Fiat si può dire che ha ricominciato a girare ad un buon regime, proprio quando ha ricevuto la penale di un miliardo e mezzo di dollari da parte di GM, dopo che quest'ultima ha deciso di non avvalersi del suo diritto di opzione d'acquisto totale del gruppo automotive della Fiat. Dopo quel momento, vogliamo ricordare le operazioni che hanno permesso di risalire la china al gruppo? L'assunzione di Marchionne come CEO (uomo silenzioso ma gran mente del business...), il rilancio dell'immagine ed un imponente campagna di marketing per render simpatico il marchio, l'introduzione di modelli come la Panda e la Grande Punto (molto buoni dal punto di vista della qualità e delle finiture...), l'outsourcing di molti servizi come la logistica (data a TNT Traco...) e l'ottimizzazione del management attraverso il Six Sigma (un meticoloso rating per le HR, contro gli sprechi...).
Ora, volete dirmi che questa crisi non è stata indotta solo per poter attirare il pollo di turno (vedi GM, ora in crisi nera e con il CEO Wagoner che sta per licenziare altre migliaia di persone negli Usa), fargli vedere che andava tutto male per poi riprendersi coi soldi delle penali? Beh, siete un po' illusi e forse non vi hanno detto che i bimbi non nascono sotto i cavoli.
Il futuro della Fiat? Certamente florido, se continua su questa strada e cerca di diversificare la sua produzione anche su segmenti che non sono toccati ora, come un grande SUV o come una berlina di classe D, degna di questo nome. Certo è che, coi soldi, si può far molto anche se, purtroppo, non bastano da soli ma ci vuole anche un team all'altezza.

Cordialmente,
Fabruzum