sabato 10 febbraio 2007

Uomini in azione o cittadini?

L’educazione alla cittadinanza democratica sembra essere il nuovo orizzonte culturale entro il quale dovrebbe essere collocata la scuola, in un mondo che globalizzandosi ha mescolato le identità rendendo più complessi e meno percepibili nelle persone le forme di appartenenza alla propria comunità e alla propria nazione. La progettazione di competenze chiave di cittadinanza (key competencies) sta in capo ad ogni più recente tentativo di riformulazione dei sistemi scolastici nazionali europei, compreso il nostro. Non è un caso che le Indicazioni Nazionali allegate al D.L. 19 febbraio 2004, n.59, che ha ristrutturato il primo ciclo di istruzione, abbiano introdotto nuovi obiettivi specifici di apprendimento per l’educazione alla convivenza civile (di cui è parte fondamentale anche l’educazione alla cittadinanza), assumendo nel contempo il nuovo termine, utilizzato per la prima volta nella Legge delega 53/2003. L’educazione alla convivenza civile si presenta qui come punto di arrivo della conoscenza disciplinare e nello stesso tempo come sintesi delle “educazioni” alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività. Nella Proposta di raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 Novembre 2005 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, la Commissione europea ha definito “competenze chiave” quelle che contribuiscono alla realizzazione personale, all’inclusione sociale, alla cittadinanza attiva e all’occupazione. Esistono ad ogni modo tra i vari documenti differenze semantiche e culturali di non poco conto di cui è bene prendere atto. Se la cittadinanza attiva è tipica della persona consapevole di sé e delle proprie possibilità che è capace di inserirsi attivamente nella realtà del suo tempo che ben conosce e di cui è partecipe, l’educazione alla cittadinanza fa parte, ci sembra, di un altro ambito di significati: quello in cui sulla persona, che di per sé è già fonte di diritto, ha preso il sopravvento l’individuo, la cui fonte di legittimazione è ad esso esterna, risiedendo nella società o nello Stato che in qualche maniera pretende di essere educatore. Insomma attraverso l’educazione alla cittadinanza rientra dalla finestra la tentazione autoritaria di cui è pervaso il concetto hegeliano-marxista di Stato che dopo i disastri novecenteschi e il crollo dei regimi comunisti sembrava essere stato esorcizzato. Nella misura in cui le società europee hanno rinunciato ufficialmente a riconoscere la cultura ebraico-cristiana (e quindi tutto il filone personalistico) come matrice della convivenza civile e della identità degli uomini e delle donne che vivono, lavorano e sperano nello spazio che va dall’Atlantico agli Urali, e semmai da questa partire per dialogare con il mondo islamico, l’educazione alla cittadinanza diviene lo spunto per una operazione di ingegneria genetica culturale, consistente nella fabbricazione dell’uomo nuovo europeo: pragmatico, privo di storia e di radici, tollerante, senza certezze tranne che nella propria capacità di volere tutto e subito, eticamente corretto (un pensierino a Dio ogni tanto), ma incapace di rapporti stabili. Nella misura in cui una tale concezione passasse nel campo scolastico (e sta passando anche surrettiziamente, con lettere, circolari e progetti) o come disciplina e come sintesi di varie discipline, l’effetto devastante sarebbe assicurato. Ecco perché è molto importante distinguere nell’attuale panorama di assestamento della scuola italiana che cosa attiene alla “cittadinanza attiva” (dunque di quali competenze fondamentali dovrà avvalersi il giovane che intenda introdursi creativamente nel mondo adulto) e che cosa alla “educazione alla cittadinanza”, che pretende di entrare in a quello spazio interpersonale riservato ad una proposta di senso per l’esistenza totale (l'educazione) nel quale lo Stato non deve ingerirsi, neppure mascherato delle migliori intenzioni.

L'"io" si vede in azione (Don. L. Giussani)

see u,
Giangiacomo

1 commento:

Anonimo ha detto...

Dibattito/Viganò: Gavazzi sbaglia sulle paritarie




AVVENIRE - 16 maggio 2008

Serve una valutazione seria. Per tutti

«Bisogna avere il coraggio di riconoscere che ogni istituto è diverso dall’altro Un’effettiva autonomia evidenzia chi lavora meglio»

DI FRANCESCO VIGANÒ*
L’ articolo di Francesco Giavazzi, pubblicato qualche giorno fa sul 'Corriere della Sera', affron­ta a mio parere due questio­ni decisive per liberare la scuola italiana dalle pastoie che la stanno condannando ad una decadenza che è sot­to gli occhi di tutti. Mi hanno però colpito una macrosco­pica dimenticanza ed una e­vidente contraddizione logi­ca.
Queste le affermazioni nodali dell’articolo: a) Il rilancio delle imprese e l’equilibrio sociale esigono oggi in Italia un migliora­mento dell’istruzione b) Per migliorare l’istruzione è indispensabile premiare le scuole migliori, attraverso classifiche affidabili, e rico­noscere il merito degli inse­gnanti migliori.
La dimenticanza è di imme­diata evidenza: nemici di o­gni innovazione nella scuola sono certo i funzionari mini­steriali, ma più ancora lo è l’apparato sindacale.
La contraddizione è più na­scosta ma non meno grave: chiedere «classifiche affida­bili delle varie scuole» signi­fica riconoscere che ogni sin­gola scuola è diversa dall’al­tra. Promuovere il merito nel­la professione insegnante si­gnifica riconoscere che ogni singolo insegnante lavora con efficacia diversa.
Per accertare il valore di una scuola e di un insegnante e­siste un’unica via: l’indagine del dato di realtà. La distinzione scuole stata­li/ scuole private risponde ad una precomprensione ideo­logica del tutto datata: cono­sco scuole paritarie che for­niscono un’istruzione di ot­timo livello e conosco scuo­le paritarie dove pagare la ret­ta garantisce la promozione, come conosco scuole statali dove si lavora bene e scuole statali dove si lavora male. Affermare che, come si legge nell’articolo di Giavazzi, «dall’analisi di un campione di studenti universitari e­merge che gli allievi delle scuole private dimostrano un livello di competenze media­mente più basso rispetto ai loro coetanei che hanno fre­quentato scuole pubbliche», è una stupidaggine perché presuppone che le scuole pri­vate costituiscano un uni­verso omogeneo e così pure le scuole pubbliche. Gli studenti della scuo­la paritaria dove adesso lavoro hanno quasi tut­ti ottimo successo negli studi universitari.
Giavazzi afferma anco­ra «che le famiglie che scelgono scuole private sono in media più ric­che », ma anche la media è u­na categoria generalizzante che distorce il dato di realtà. È evidente che le famiglie che scelgono la scuola privata siano in media più ricche, vi­sto che la scuola costa, ma ciò non significa affatto che ogni famiglia sia ricca. Nella scuo­la dove lavoro molte famiglie tirano la cinghia per poterci mandare i figli, e ce li man­dano per la semplice ragione che hanno capito da tempo il valore del loro sacrificio. I­noltre 80 famiglie, sulle 520 complessive, godono di una forte riduzione di retta grazie al sostegno economico di a­ziende, enti e privati.
Il 'buono scuola' della Re­gione Lombardia ha di fatto consentito la sopravvivenza della scuola in cui oggi lavo­ro; la grande maggioranza delle famiglie che ci iscrivo­no i figli appartengono infat­ti a quella classe media che ha a cuore l’istruzione dei fi­gli, ma che, senza 'buono scuola', non sarebbero in grado di sostenere la retta di una scuola paritaria. Altro che distribuzione di natura regressiva! Concludendo: se si ha il coraggio di affermare che il miglioramento del si­stema scolastico è oggi indi­spensabile al Paese e che ciò esige di premiare le scuole che lavorano meglio, cioè che forniscono una migliore i­struzione, occorre tirare coe­rentemente le conseguenze di queste affermazioni, guar­dando in faccia la realtà per quello che è: le etichette di 'bravi' e di 'cattivi' distri­buite prima di scendere in campo sono le prime re­sponsabili dello stallo del si­stema scolastico italiano.
*Preside Liceo Paritario don Gnocchi di Carate Brianza (Mi)