martedì 17 aprile 2007

La guerra degli ayatollah deciderà il futuro dell'Iraq

Il ritiro dal governo iracheno dei sei ministri leali all’ayatollah - o più esattamente hojatalislam («prova dell’islam», un grado al di sotto di un ayatollah nella gerarchia sciita) - Moqtada al-Sadr non segna la fine, ma l’inizio di una partita decisiva per il controllo degli sciiti iracheni. La partita non è soltanto fra due ayatollah - il giovane e radicale Moqtada al-Sadr e il vecchio e più moderato Ali Sistani - ma è fra le autorità sciite irachene e l’Iran.
Il centro storico e teologico del mondo sciita è sempre stato in Irak, non in Iran. Saddam Hussein, però, ha perseguitato gli sciiti impedendo ai grandi ayatollah di Najaf di parlare in pubblico, di pubblicare libri e di viaggiare all’estero. Uno dei risultati positivi dell’intervento americano del 2003 e della fine del regime di Saddam è consistito nel rimettere le cose a posto nel mondo sciita. Le istituzioni sciite che hanno il loro centro nella città santa di Najaf hanno ripreso a funzionare a ritmo normale. A poco a poco - anche grazie all’appoggio dei ricchi sciiti dell’Azerbaijan - il grande ayatollah Ali Sistani è riuscito a riprendersi il posto che, di diritto, era sempre stato suo, ma che non poteva occupare finché in Irak c’era Saddam, così che era usurpato di fatto dall’iraniano Khamenei: quello di punto di riferimento per tutto il mondo sciita internazionale.
Gli iraniani, che conoscono le sottigliezze della teologia sciita meglio di chiunque altro, non hanno mai messo in discussione apertamente il primato di Sistani. Sono però con ogni probabilità gli ispiratori dei diversi tentativi di assassinarlo - almeno cinque - dal 2003 a oggi. Diffondono voci non false, ma ampiamente esagerate, sulle sue condizioni di salute: in realtà Sistani - che, a 77 anni, è più giovane di Benedetto XVI - si è ripreso dall’ultima operazione subita a Londra, e non è in pericolo di vita. Soprattutto, Teheran sostiene con armi e denaro l’Esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr.
La battaglia «dei due ayatollah», al-Sadr e Sistani, ha una dimensione teologica che si intreccia con quella politica. Sistani rifiuta il principio-chiave del khomeinismo difeso invece da al-Sadr, il «governo del giurista islamico» secondo cui le decisioni ultime in un paese sciita non spettano alle autorità politiche ma a quelle religiose. Erede del costituzionalismo sciita degli anni 1920, Sistani ha certo un’alta visione del ruolo di guida morale del clero sciita, ma ritiene che l’autorità politica debba essere esercitata da laici democraticamente eletti e non da religiosi.
La stragrande maggioranza degli sciiti iracheni riconosce Sistani come leader. Lo stesso al-Sadr gli ha obbedito quando il vecchio ayatollah ha chiesto che i suoi seguaci entrassero nella coalizione di governo. Oggi ne escono, perché Teheran vuole mantenere alta la tensione in Irak. Sia gli iraniani sia Sadr sanno di non potere sfidare Sistani, che resta il leader più popolare dell’Irak. Possono tuttavia creargli dei fastidi, facendo sì che il risultato della sua mediazione - che alla fine, come già avvenuto nel 2006, sarà accettata almeno formalmente da tutte le fazioni sciite - risulti in un equilibrio più lontano dalle posizioni americane. Sistani si è già pronunciato per un ritiro «in tempi ragionevoli» delle truppe occidentali dall’Irak, sostituite da un esercito iracheno autosufficiente. Sul punto c’è un vasto consenso: ma è sulla quantificazione dei «tempi ragionevoli» che cominciano le difficoltà, e le possibilità per l’Iran di pescare nel torbido.


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Giangiacomo

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