Di fronte alla ferocia emersa nelle ultime settimane in occasione del sequestro del giornalista Mastrogiacomo e della barbara uccisione del suo autista Saied Agha, molti si chiedono: ma chi sono i talebani? La storia afghana recente è complicata, ma per capire i talebani deve essere schematicamente riassunta.
L’Afghanistan ha come sua principale ricchezza la posizione geografica e il suo essere «strada»: per le merci, per i pellegrini verso la Mecca, e oggi per il petrolio e il gas naturale dell’Asia Centrale. Percorsa da eserciti invasori di tutti i tipi, la strada afghana ha dato origine a un paese etnicamente composito, dove alla maggioranza pashtun, musulmana sunnita, si contrappongono le minoranze uzbeke e tagike nel Nord e Nord-Est (pure sunnite, ma con forti influenze sufi), hazara al Centro (di lingua persiana e sciita), dari a Ovest (persiana di lingua ma sunnita), più un’ampia serie di minoranze più piccole. Al di sotto dell’etnia si collocano le tribù, spesso in lotta fra loro, come avviene all’interno dei pashtun fra i durrani (la cui capitale tradizionale è Kandahar) e i ghilzai (più numerosi nella zona di Kabul, che pure è città a sua volta etnicamente composita). Il padre della monarchia afghana moderna è il re Ahmad Shah (1722-1772),: un pio pashtun della tribù durrani, che avvia la tradizione afghana di lasciare ampie possibilità di autogoverno alle minoranze interne ricevendone in cambio sostegno contro i nemici esterni. Fra alti e bassi, questa tradizione continua fino al regno di Mohammad Zahir Shah, re dal 1933.
Zahir è rovesciato nel 1973 dal cugino Mohammad Daud (1909-1978), che cerca d’introdurre nel paese una forma di nazionalismo laico. Daud è avversato da una parte dall’islam politico, dall’altra dai comunisti leali alla vicina Unione Sovietica, peraltro divisi fra le correnti Khalq («Masse») e Parchan («Bandiera»). L’opposizione islamica a Daud è guidata – dal Pakistan – da tre dirigenti: il centrista Burhanuddin Rabbani, il moderato Ahmad Shah Massud (1953-2001) e il fondamentalista Gulbuddin Hikmatyar. Daud cerca di governare venendo a patti con la fazione comunista Parchan di Babrak Karmal (1929-1996), ma nel 1978 è ucciso da una rivolta guidata dalla corrente Khalq. Quest’ultima non riesce a controllare il paese, scosso dalle rivolte dei fondamentalisti e delle minoranze etniche: nel 1979 l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan, fa uccidere il presidente Khalq, Hafizullah Amin (1929-1979), e installa al suo posto Karmal.
Nei successivi dieci anni al prezzo di un milione e mezzo di morti la composita alleanza mujaheddin – che comprende tutto l’islam politico e le minoranze etniche –, con l’aiuto del Pakistan e degli Stati Uniti, scaccia i sovietici dal paese, e nel 1992 abbatte il regime comunista di Najibullah (1947-1996), succeduto a Karmal nel 1986. Il primo presidente mujaheddin dell’Afghanistan è il moderato sufi Sibghatullah Mujaddedi, cui fa seguito nel 1993 il centrista Rabbani, con un governo a forte presenza tagika e con il tagiko Massud come capo dell’esercito. Di fatto, Rabbani non riuscirà mai a controllare l’intero territorio nazionale: le minoranze etniche diverse dalla tagika sono tutte in rivolta, e l’area pashtun è spezzettata in piccole zone ciascuna di fatto governata da un «signore della guerra» spesso legato alla malavita.
Nel 1994 uno di questi comandanti locali fa rapire due ragazze del villaggio di Singesar, nella provincia di Kandahar, e le violenta. Il mullah del villaggio, Mohammed Omar, raduna trenta studenti (taliban) della sua piccola madrassa (scuola coranica), libera le ragazze e impicca il comandante. Il successo di Omar, dopo diverse imprese dello stesso genere, è fenomenale: lo sostiene il governo di Rabbani, che pensa di utilizzare questi «talebani» nelle zone pashtun contro i comandanti locali e contro i fondamentalisti dissidenti di Hikmatyar, che riuscirà a conquistare Kabul e a diventare presidente per pochi mesi nel 1996. Grazie a questi aiuti – e a quello di Osama bin Laden, quando nel 1996 si installa in Afghanistan, e cui si deve l’uccisione di Massud alla vigilia dei fatti dell’11 settembre 2001 – in due anni i talebani riescono a impadronirsi del paese. Il consenso popolare, all’inizio diffuso, evapora rapidamente – a causa della rigidissima applicazione della legge islamica (spesso mischiata al codice tradizionale pashtun), dell’oppressione delle donne, della discriminazione contro i non pashtun e anche contro i pashtun che non sono durrani; e la guerra civile continua.
Vi s’intersecano complesse questioni legate al traffico di droga (che i talebani dichiarano lecito purché rivolto a un consumatore finale non islamico, così che l’Afghanistan arriva a rifornire il novanta per cento del mercato mondiale dell’eroina), e alla costruzione di oleodotti e gasdotti in territorio afghano. La guerra civile assume però un tono mistico e millenarista, quando – il 4 aprile 1996 – il mullah Omar si presenta ai suoi fedeli avvolto in una delle più venerate reliquie dell’islam, conservata a Kandahar ma esposta al pubblico solo un paio di volte per secolo, il mantello del profeta Muhammad, e si fa acclamare come emiro dell’Afghanistan.
I talebani – con poche eccezioni, fra cui lo stesso Omar – non hanno combattuto contro i sovietici. Si sono preparati piuttosto al dopo-invasione studiando nelle scuole coraniche in Pakistan, con l’intenzione esplicita di preparare una classe dirigente alternativa. Ma quale tipo di scuole? Le radici culturali dei talebani si situano nelle derivazioni pakistane della corrente tradizionalista indiana deobandi, di origine ottocentesca, affine, anche se non identica, al movimento wahhabita dell’Arabia Saudita e diversa dal fondamentalismo: a differenza dei fondamentalisti, i tradizionalisti s’interessano più di morale che di politica, più al pudore delle donne che alla politica internazionale. Tuttavia quella dei talebani è una versione estrema del puritanesimo deobandi, con punte di «pulizia etnica» contro gli sciiti afghani, considerati non musulmani, che hanno provocato fra l’altro l’implacabile ostilità dell’Iran sciita ai talebani, e cui si è affiancata la distruzione delle statue buddhiste a Bamiyan, tradizionalmente tollerate e custodite dagli hazari sciiti. Questo spiega come i tradizionalisti talebani abbiano potuto allearsi con i fondamentalisti di Osama bin Laden, la cui storia è diversa e parte dalla politica più che dalla morale, e a cui ora ha prestato giuramento di fedeltà anche Hikmatyar. Dopo l’11 settembre, l’alleanza con Al Qaida si rivela fatale ai talebani, rovesciati dagli Stati Uniti e dai loro alleati con la benedizione dell’ONU. Ma le difficoltà del nuovo governo democraticamente eletto di Karzai di controllare un territorio che nessuno nella storia ha mai controllato veramente fanno riemergere una guerriglia che vede affiancati i talebani e Al Qaida: un cocktail velenoso di tradizionalismo puritano e fondamentalismo violento, che è ormai degenerato in semplice terrorismo.
di Massimo Introvigne (Il Nostro Tempo, anno 62, n. 13, 1° aprile 2007)
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Giangiacomo
giovedì 5 aprile 2007
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