La moglie di Bersani riveste un interessante ruolo in Coop...
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Giangiacomo
mercoledì 31 dicembre 2008
domenica 28 dicembre 2008
Il consumo non ci salverà
un amico mi consiglia il suo articolo e io Ve lo inoltro pari pari...
A proposito di crisi, ciclo, consumo, risparmio e indebitamento, segnalo il mio articolo: "Il consumo non ci salverà", «Rinascita», 16 dicembre 2008, p. 9.
Esso è consultabile anche al seguente link:
http://www.carmeloferlito.it/vedi_articolo.php?id=260
Carmelo Ferlito, Ph.D. www.carmeloferlito.it
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Giangiacomo
A proposito di crisi, ciclo, consumo, risparmio e indebitamento, segnalo il mio articolo: "Il consumo non ci salverà", «Rinascita», 16 dicembre 2008, p. 9.
Esso è consultabile anche al seguente link:
http://www.carmeloferlito.it/vedi_articolo.php?id=260
Carmelo Ferlito, Ph.D. www.carmeloferlito.it
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Giangiacomo
Impiegati del Ministero del Tesoro... siamo in Italia!
Ieri ho trascorso una stupenda serata. Ho invitato a cena un amico che lavora in Lussemburgo. Nonostante la giovane età, è affascinante restare ad ascoltarlo per ore del suo lavoro, quasi tenesse una lectio magistralis in economia e storia
Tre le varie questioni che mi ha raccontato, DEVO sottolinerne una per Voi...
Lo sapevate che...
alla fine di ogni anno, ogni (TUTTI!) dipendente del Ministero del Tesoro in Italia percepisce un premio netto a discapito di qualsiasi merito e/o criterio?
esatto!
alla fine di ogni (TUTTI) anno, i premi delle varie lotterie, concorsi a premi, ecc, non ritirati o non erogati, vengono divisi tra Ministro, sottosegretari, dirigenti e impiegati del Ministero in tutta Italia (ovviamente in relazione al proprio stipendio), ovviamente non tassati!
Un impiegato di fascia C, ad esempio, percepisce circa 4.000,00 Euro come premio annuo!
Fate Voi i calcoli in relazione alle migliaia di dipendenti del Ministero...
see u,
Giangiacomo
Tre le varie questioni che mi ha raccontato, DEVO sottolinerne una per Voi...
Lo sapevate che...
alla fine di ogni anno, ogni (TUTTI!) dipendente del Ministero del Tesoro in Italia percepisce un premio netto a discapito di qualsiasi merito e/o criterio?
esatto!
alla fine di ogni (TUTTI) anno, i premi delle varie lotterie, concorsi a premi, ecc, non ritirati o non erogati, vengono divisi tra Ministro, sottosegretari, dirigenti e impiegati del Ministero in tutta Italia (ovviamente in relazione al proprio stipendio), ovviamente non tassati!
Un impiegato di fascia C, ad esempio, percepisce circa 4.000,00 Euro come premio annuo!
Fate Voi i calcoli in relazione alle migliaia di dipendenti del Ministero...
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Giangiacomo
lunedì 27 ottobre 2008
I figli dei vip di sinistra? Tutti alle scuole private
Riporto la e-mail di un amico
Tanta preoccupazione per la scuola pubblica si può spiegare solo come un atto estremo di altruismo, visto che quando si tratta di decidere il destino dei figli un bel pezzo di centrosinistra si orienta direttamente verso le scuole private. E magari straniere. Sorprende, insomma, tanta acrimonia nei confronti del ministro Gelmini, visto che non sono pochi gli esponenti della sinistra che di contatti diretti con la riforma della scuola, non ne avranno mai. Lo ha candidamente ammesso Michele Santoro nel corso dell’ultima puntata di AnnoZero, tutta dedicata alla scuola e alla nuova ondata di contestazioni studentesche.
Voleva dimostrare al leghista Roberto Cota quanto fosse sbagliata l’idea di «classi ponte» per insegnare la lingua straniera ai figli di immigrati. In sintesi: l’integrazione è facilissima anche quando un bambino si trova in un’aula dove tutti parlano una lingua che non sa. Per spiegarlo ha riportato, con comprensibile orgoglio paterno, l’esempio della figlia che frequenta una scuola straniera «e già parla un’altra lingua ». Applausi. Non si sa se dedicati alla bravura della bimba poliglotta o all’accostamento tra chi frequenta il costoso istituto francese «Chateaubriand», con l’obiettivo di diventare bilingue ed evitare le storiche carenze della scuola italiana, e i figli degli immigrati alle prese con la durissima battaglia per l’integrazione.
Ospite della trasmissione, il segretario Ds Walter Veltroni. Dei suoi investimenti immobiliari e formativi a New York a favore della figlia si sa già tutto. D’altro canto il Pci non c’è più. E con i comunisti è scomparso anche il divieto non scritto che vigeva per i dirigenti:mai iscrivere i figli alle private. Lo conferma il caso di Giovanna Melandri, la cui prole è stata affidata all’istituto privato «San Giuseppe». Si dice che l’esponente Pd abbia anche cercato di fare entrare la figlia inuna scuola inglese. La stessa - la «Rome International School» - scelta dall’ex parlamentare di Rifondazione comunista Franco Russo, ansioso di dare un’educazione un po’ amerikana ai discendenti.
Niente pubbliche o comunali anche per i nipoti di Fausto Bertinotti, iscritti a suo tempo ad un prestigioso asilo romano dal metodo di insegnamento rivoluzionario. Ma a pagamento. E in effetti non è sempre la caccia alla lingua straniera la molla che fa scappare i genitori democratici dalle pubbliche. È il caso dell’ex ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, contestato dai giovani del centrodestra per aver mandato il figlio ad un Liceo scientifico paritario di Viterbo, proprio negli anni in cui era in carica nel dicastero di viale Trastevere.
La seduzione del privato-straniero ha fatto breccia anche tra i più intransigenti girotondini. È il caso di Nanni Moretti, il cui figlio frequenta la scuola americana di Roma, la «Ambritt». Stessa scelta per il discendente di un vero e proprio outsider del Partito democratico: Mario Adinolfi. Proprio in questi giorni l’ex esponente del Ppi, per sua stessa ammissione allergico alle occupazioni, ha lodato la nuova ondata di studenti contestatori vedendoci l’embrione di un «conflittogiovanile di massa contro queste destre ». Chissà se anche dalle parti della scuola americana di Roma farà breccia l’atteso nuovo Sessantotto.
Scuola privata catanese anche per le figlie diAnna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd. Al club del «no alle statali» si è iscritto anche Francesco Rutelli, Anche lui negli ultimi giorni si è espresso, non tanto a favore della protesta studentesca, quanto controla linea «dura» di Berlusconi. Sicuramente nessuna delle sue due figlie dovrà subire interruzioni delle lezioni:una è iscritta al liceo privato «Kennedy» e l’altra alla prestigiosissima «San Giuseppe De Merode», scuola con vista su Piazza di Spagna.Da quelle parti di okkupazioni, e cortei, se ne vedono pochi.
see u,
Giangiacomo
Tanta preoccupazione per la scuola pubblica si può spiegare solo come un atto estremo di altruismo, visto che quando si tratta di decidere il destino dei figli un bel pezzo di centrosinistra si orienta direttamente verso le scuole private. E magari straniere. Sorprende, insomma, tanta acrimonia nei confronti del ministro Gelmini, visto che non sono pochi gli esponenti della sinistra che di contatti diretti con la riforma della scuola, non ne avranno mai. Lo ha candidamente ammesso Michele Santoro nel corso dell’ultima puntata di AnnoZero, tutta dedicata alla scuola e alla nuova ondata di contestazioni studentesche.
Voleva dimostrare al leghista Roberto Cota quanto fosse sbagliata l’idea di «classi ponte» per insegnare la lingua straniera ai figli di immigrati. In sintesi: l’integrazione è facilissima anche quando un bambino si trova in un’aula dove tutti parlano una lingua che non sa. Per spiegarlo ha riportato, con comprensibile orgoglio paterno, l’esempio della figlia che frequenta una scuola straniera «e già parla un’altra lingua ». Applausi. Non si sa se dedicati alla bravura della bimba poliglotta o all’accostamento tra chi frequenta il costoso istituto francese «Chateaubriand», con l’obiettivo di diventare bilingue ed evitare le storiche carenze della scuola italiana, e i figli degli immigrati alle prese con la durissima battaglia per l’integrazione.
Ospite della trasmissione, il segretario Ds Walter Veltroni. Dei suoi investimenti immobiliari e formativi a New York a favore della figlia si sa già tutto. D’altro canto il Pci non c’è più. E con i comunisti è scomparso anche il divieto non scritto che vigeva per i dirigenti:mai iscrivere i figli alle private. Lo conferma il caso di Giovanna Melandri, la cui prole è stata affidata all’istituto privato «San Giuseppe». Si dice che l’esponente Pd abbia anche cercato di fare entrare la figlia inuna scuola inglese. La stessa - la «Rome International School» - scelta dall’ex parlamentare di Rifondazione comunista Franco Russo, ansioso di dare un’educazione un po’ amerikana ai discendenti.
Niente pubbliche o comunali anche per i nipoti di Fausto Bertinotti, iscritti a suo tempo ad un prestigioso asilo romano dal metodo di insegnamento rivoluzionario. Ma a pagamento. E in effetti non è sempre la caccia alla lingua straniera la molla che fa scappare i genitori democratici dalle pubbliche. È il caso dell’ex ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, contestato dai giovani del centrodestra per aver mandato il figlio ad un Liceo scientifico paritario di Viterbo, proprio negli anni in cui era in carica nel dicastero di viale Trastevere.
La seduzione del privato-straniero ha fatto breccia anche tra i più intransigenti girotondini. È il caso di Nanni Moretti, il cui figlio frequenta la scuola americana di Roma, la «Ambritt». Stessa scelta per il discendente di un vero e proprio outsider del Partito democratico: Mario Adinolfi. Proprio in questi giorni l’ex esponente del Ppi, per sua stessa ammissione allergico alle occupazioni, ha lodato la nuova ondata di studenti contestatori vedendoci l’embrione di un «conflittogiovanile di massa contro queste destre ». Chissà se anche dalle parti della scuola americana di Roma farà breccia l’atteso nuovo Sessantotto.
Scuola privata catanese anche per le figlie diAnna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd. Al club del «no alle statali» si è iscritto anche Francesco Rutelli, Anche lui negli ultimi giorni si è espresso, non tanto a favore della protesta studentesca, quanto controla linea «dura» di Berlusconi. Sicuramente nessuna delle sue due figlie dovrà subire interruzioni delle lezioni:una è iscritta al liceo privato «Kennedy» e l’altra alla prestigiosissima «San Giuseppe De Merode», scuola con vista su Piazza di Spagna.Da quelle parti di okkupazioni, e cortei, se ne vedono pochi.
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Giangiacomo
venerdì 24 ottobre 2008
I risultati del monopolio sull'energia in Italia
Volentieri pubblico lo sfogo di un'amica che si trova davanti ad una ingiustizia del mercato italiano e che scrive a Specchio dei Tempi de La Stampa (e che magari non verrà pubblicato perchè troppo di parte...)
Un racconto veloce dell'esperienza degli ultimi due mesi nella speranza che presto si concluda. Prendo in affitto un appartamento dove è stato installato un nuovo impianto di riscaldamento. Attualmente in Italia bisogna passare prima da Eni Gas & Power e poi c'è possibilità di scelta, ma il mercato non è ancora totalmente liberalizzato. Chiamo all'inizio di Settembre il numero verde di Eni Gas & Power per l'attivazione, la verifica dell'impianto e la prima accensione. Oggi 24 Ottobre nulla è successo. Dopo una trentina di chiamate al numero verde, più pratiche aperte e poi riallineate, solleciti scritti, il nulla! Sembra, e sottolineo sembra, che per un errore informatico del gestionale la pratica non riesca a passare dal call center all'ufficio tecnico. Si rendono conto che dall'altra parte della cornetta c'è una famiglia che non ha acqua calda per una doccia, non ha riscaldamento e non può cucinare? Che Dio ci assista!!
Firmato
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Giangiacomo
Un racconto veloce dell'esperienza degli ultimi due mesi nella speranza che presto si concluda. Prendo in affitto un appartamento dove è stato installato un nuovo impianto di riscaldamento. Attualmente in Italia bisogna passare prima da Eni Gas & Power e poi c'è possibilità di scelta, ma il mercato non è ancora totalmente liberalizzato. Chiamo all'inizio di Settembre il numero verde di Eni Gas & Power per l'attivazione, la verifica dell'impianto e la prima accensione. Oggi 24 Ottobre nulla è successo. Dopo una trentina di chiamate al numero verde, più pratiche aperte e poi riallineate, solleciti scritti, il nulla! Sembra, e sottolineo sembra, che per un errore informatico del gestionale la pratica non riesca a passare dal call center all'ufficio tecnico. Si rendono conto che dall'altra parte della cornetta c'è una famiglia che non ha acqua calda per una doccia, non ha riscaldamento e non può cucinare? Che Dio ci assista!!
Firmato
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Giangiacomo
sabato 27 settembre 2008
Scuola: la scelta di Veltroni
La settimana prossima si voterà alla Camera il decreto Gelmini per la scuola. Sul sito www.governoberlusconi.it si possono trovare le indicazioni dei provvedimenti e le loro motivazioni.
Dopo le rituali proteste di queste settimane, a Veltroni spetta una scelta.
Ripercorrere la strada battuta (con qualche successo, purtroppo per la scuola) tra il 2002 e il 2006 o scegliere di cambiare strada. Allora la sinistra scelse la scuola come il terreno privilegiato per la battaglia politica contro il governo, demonizzando le iniziative del ministro e della maggioranza, terrorizzando le famiglie con false notizie (tempo pieno abolito, insegnamenti tagliati, insegnanti di sostegno licenziati, attacco alla scuola statale, ecc.), strumentalizzando i bambini e usando gli edifici scolastici come strumenti per comunicare falsamente ai cittadini e ai media.
Lo stesso è accaduto purtroppo finora. Veltroni e i suoi sembrano non capire che la scuola è come l'Alitalia, un carrozzone destinato al fallimento se non si interviene subito e a fondo. I provvedimenti presi finora - educazione civica, voto in condotta, pagelle con i voti, maestro unico,riorganizzazione dell'impiego dei docenti nelle scuole elementari (potenziando il tempo pieno e mantenendo gli insegnati di sostegno) blocco della progressione della spesa - vanno nella direzione di creare nel giro di pochi anni le condizioni per una scuola migliore, più capace di istruire ma anche di educare, con insegnanti riconosciuti nel loro ruolo sociale e meglio pagati. Sono provvedimenti facili da comprendere, apprezzati dai cittadini, che mettono la sinistra davanti a un bivio. Oggi l’alternativa è quella di collaborare in una riforma non più rinviabile o continuare a lasciare le cose come stanno e giungere alla bancarotta economica, formativa ma soprattutto educativa.
Per il bene di tutti e per il futuro dell’Italia le auguriamo di avere la forza di scegliere la strada giusta, stavolta... ma, se il buon giorno si vede dal mattino, non abbiamo grandi speranze.
see u,
Giangiacomo
Dopo le rituali proteste di queste settimane, a Veltroni spetta una scelta.
Ripercorrere la strada battuta (con qualche successo, purtroppo per la scuola) tra il 2002 e il 2006 o scegliere di cambiare strada. Allora la sinistra scelse la scuola come il terreno privilegiato per la battaglia politica contro il governo, demonizzando le iniziative del ministro e della maggioranza, terrorizzando le famiglie con false notizie (tempo pieno abolito, insegnamenti tagliati, insegnanti di sostegno licenziati, attacco alla scuola statale, ecc.), strumentalizzando i bambini e usando gli edifici scolastici come strumenti per comunicare falsamente ai cittadini e ai media.
Lo stesso è accaduto purtroppo finora. Veltroni e i suoi sembrano non capire che la scuola è come l'Alitalia, un carrozzone destinato al fallimento se non si interviene subito e a fondo. I provvedimenti presi finora - educazione civica, voto in condotta, pagelle con i voti, maestro unico,riorganizzazione dell'impiego dei docenti nelle scuole elementari (potenziando il tempo pieno e mantenendo gli insegnati di sostegno) blocco della progressione della spesa - vanno nella direzione di creare nel giro di pochi anni le condizioni per una scuola migliore, più capace di istruire ma anche di educare, con insegnanti riconosciuti nel loro ruolo sociale e meglio pagati. Sono provvedimenti facili da comprendere, apprezzati dai cittadini, che mettono la sinistra davanti a un bivio. Oggi l’alternativa è quella di collaborare in una riforma non più rinviabile o continuare a lasciare le cose come stanno e giungere alla bancarotta economica, formativa ma soprattutto educativa.
Per il bene di tutti e per il futuro dell’Italia le auguriamo di avere la forza di scegliere la strada giusta, stavolta... ma, se il buon giorno si vede dal mattino, non abbiamo grandi speranze.
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Giangiacomo
Caritas... ipocriti!!
L’Osservatore Romano, in un articolo firmato dal responsabile della Caritas, critica il “giro di vite” del governo italiano in materia di immigrazione e attacca le politiche europee che prevedono restrizioni.
Ancora una volta, monsignori in blue jeans che vogliono mettersi in mostra si atteggiano a maestri di solidarietà sulla pelle degli altri.
Queste affermazioni non hanno nulla a che fare con la carità cristiana e con la sincera solidarietà e sembrano piuttosto mosse solo da un pregiudizio politico e da un inguaribile protagonismo (vizi, questi, caratteristici degli “esperti” della Caritas).
Ma questi “professionisti del solidarismo” hanno mai conosciuto nelle nostre periferie il volto dell’immigrazione?
Propongo nei commenti una testimonianza molto cruda che dà il senso della distanza tra l’ideologia buonista e la realtà!
Le ultime della Caritas richiamano le riflessioni, più in generale, sulla Chiesa sinistrata
"Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E' venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di incertezze" (Paolo VI, 29 giugno 1972).
Church disfigurement "We thought that after the Council a day of sunshine would have dawned for the history of the Church. What dawned, instead, was a day of clouds and storms, of darkness, of searching and uncertainties." (Pope Paul VI, 29 June 1972).
see u,
Giangiacomo
Ancora una volta, monsignori in blue jeans che vogliono mettersi in mostra si atteggiano a maestri di solidarietà sulla pelle degli altri.
Queste affermazioni non hanno nulla a che fare con la carità cristiana e con la sincera solidarietà e sembrano piuttosto mosse solo da un pregiudizio politico e da un inguaribile protagonismo (vizi, questi, caratteristici degli “esperti” della Caritas).
Ma questi “professionisti del solidarismo” hanno mai conosciuto nelle nostre periferie il volto dell’immigrazione?
Propongo nei commenti una testimonianza molto cruda che dà il senso della distanza tra l’ideologia buonista e la realtà!
Le ultime della Caritas richiamano le riflessioni, più in generale, sulla Chiesa sinistrata
"Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E' venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di incertezze" (Paolo VI, 29 giugno 1972).
Church disfigurement "We thought that after the Council a day of sunshine would have dawned for the history of the Church. What dawned, instead, was a day of clouds and storms, of darkness, of searching and uncertainties." (Pope Paul VI, 29 June 1972).
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giovedì 18 settembre 2008
Trattativa Alitalia
L’irresponsabilità di molti lavoratori, l’arroccamento dei privilegiati, l’ideologia dei sindacati...Speriamo che la vicenda almeno insegni dove conduce quell’economia in cui le aziende sono dello Stato: immani sprechi, schiere di intoccabili, posto assicurato, nessuna produttività.Ma prima o poi...
Lavoro o sindacato?
"Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente chiari. I salari aumentavano eccessivamente mentre le prospettive aziendali precipitavano con l'inizio della recessione" (diario di Margaret Thatcher nei primi giorni del suo governo, 1979).
Work or trade-union?
"The economic results of trade-union power were already painfully clear. The salaries increased excessively whilst the corporate perspectives fell over with the beginning of the recession" (Margaret Thatcher's diary in the first days of her government, 1979).
see u,
Giangiacomo
Lavoro o sindacato?
"Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente chiari. I salari aumentavano eccessivamente mentre le prospettive aziendali precipitavano con l'inizio della recessione" (diario di Margaret Thatcher nei primi giorni del suo governo, 1979).
Work or trade-union?
"The economic results of trade-union power were already painfully clear. The salaries increased excessively whilst the corporate perspectives fell over with the beginning of the recession" (Margaret Thatcher's diary in the first days of her government, 1979).
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sabato 13 settembre 2008
Due anni fa, la morte di Oriana Fallaci
Due anni fa, la morte di Oriana Fallaci (15 sett. 2006)
“La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’entro. C’entro, ahimè c’entro”
Islam ed Europa: Oriana Fallaci (1929-2006)
"Sveglia, Occidente, sveglia! Ci hanno dichiarato la guerra, siamo in guerra! E alla guerra bisogna combattere" (Oriana Fallaci)
Occident: Oriana Fallaci (1929-2006)
"Wake up Occident, wake up! They declared war on us and war is what they got. We have to hang tough!" (Oriana Fallaci)
see u,
Giangiacomo
“La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’entro. C’entro, ahimè c’entro”
Islam ed Europa: Oriana Fallaci (1929-2006)
"Sveglia, Occidente, sveglia! Ci hanno dichiarato la guerra, siamo in guerra! E alla guerra bisogna combattere" (Oriana Fallaci)
Occident: Oriana Fallaci (1929-2006)
"Wake up Occident, wake up! They declared war on us and war is what they got. We have to hang tough!" (Oriana Fallaci)
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lunedì 8 settembre 2008
La rendita dei comuni
di Francesco Giavazzi
L'Italia è il Paese, dopo gli Stati Uniti e l'Australia, che consuma il maggior numero di litri d'acqua per abitante: quasi 600 litri al giorno negli Usa, 500 in Australia, 400 in Italia. In Gran Bretagna se ne consumano solo 150, in Germania 190. In parte ciò è dovuto al fatto che la nostra rete idrica è un colabrodo, con una perdita media del 30% e punte del 50%; ciononostante per migliorare i nostri acquedotti investiamo meno della metà di quanto investono gli inglesi (in realtà non tutta l'acqua persa è sprecata: una buona parte viene rubata, spesso per irrigare i campi con acqua potabile. Ad Agrigento, quando i carabinieri hanno sequestrato alcuni invasi illeciti, le cisterne in città quasi scoppiavano tanta acqua arrivava). L'elevato consumo dipende anche dal fatto che nelle nostre città il prezzo dell'acqua è fra i più bassi al mondo: circa 80 centesimi al metro cubo a Roma, contro 4,30 euro a Berlino, 3,50 euro a Copenaghen, 2 euro a Londra. La nostra acqua costa poco, ma illudendoci che sia pressoché gratuita ne consumiamo troppa e alla fine le nostre bollette non sono molto inferiori a quelle inglesi o tedesche. Ciò che accade per l'acqua accade per i rifiuti: oneri di smaltimento molto bassi e quindi, con rare eccezioni (Trento ad esempio), un eccesso di rifiuti. Un altro esempio è il trasporto pubblico locale. I biglietti coprono un terzo del costo: non c'è da stupirsi se i passeggeri, non conoscendo quanto costa davvero il servizio, trattino male gli autobus. Dovrebbero bastare questi esempi per convincerci che vi è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui sono gestiti i nostri servizi locali.
Essi dipendono, pressoché senza eccezioni, dalla politica e i politici, anche i meglio intenzionati, si illudono che il modo per aiutare i cittadini — e ottenere i loro voti — sia far pagare poco i servizi. In realtà così facendo contribuiscono al degrado dell'ambiente e, come abbiamo visto nel caso dell'acqua, alla fine non riescono neppure a mantenere basse le bollette. Solo il 5% dei nostri acquedotti è gestito da privati ai quali il servizio è stato affidato in seguito a un'asta competitiva. Gli altri sono gestiti direttamente dagli enti locali, o comunque da società controllate dagli enti locali a cui sono stati affidati senza mai chiedersi se esistesse qualcuno disposto a offrire il servizio a condizioni migliori. Nella scorsa legislatura il ministro Linda Lanzillotta cercò, invano, di condurre in porto una riforma. Per superare il veto di Rifondazione dovette accettare che gli acquedotti rimanessero pubblici. Ma per gli altri servizi quella legge aveva il merito di porre i Comuni di fronte a una scelta chiara: o gestivano il servizio direttamente, o lo affidavano tramite una gara a società terze. Deroghe alla procedura di assegnazione tramite gara dovevano essere approvate dall'Antitrust. La legge non passò non per l'opposizione di Rifondazione, che si accontentò dell'acqua pubblica, ma perché fu considerata un attentato alla tranquilla sopravvivenza del nuovo «capitalismo pubblico locale», le centinaia di aziende a partecipazione pubblica create negli ultimi anni per gestire i servizi locali.
Queste società sono diventate il fulcro del potere politico locale: non c'è fusione che non sia accompagnata dal passaggio al modello societario duale in modo che non un solo presidente, non un solo consigliere di amministrazione perda il suo posto. Oggi, grazie alla Lega hanno ottenuto ciò che volevano: l'art. 23-bis del decreto fiscale approvato l'1 agosto prevede che le deroghe alla procedura di gara siano solo comunicate all'Antitrust. Tolte di mezzo le gare, la sopravvivenza del capitalismo pubblico locale è assicurata. La Lega ha definito l'approvazione del 23-bis una vittoria del federalismo. In realtà anziché parte di un grande progetto di riforma delle istituzioni, sembra piuttosto la misera difesa di qualche poltrona alle spalle dei cittadini. All'interno della maggioranza l'opposizione al 23-bis è venuta soprattutto da Alleanza nazionale che ha inutilmente difeso le gare e ora annuncia la presentazione di un nuovo disegno di legge per rivedere in senso più rispettoso del mercato l'intero assetto dei servizi locali. Ma vi sarebbe un modo più concreto per segnalare la propria diversità: An gestisce Roma, una città dove i servizi pubblici sono tutti assegnati senza gara. Quale lezione ai propri colleghi, e anche all'opposizione, se il sindaco Alemanno annunciasse che d'ora in poi a Roma tutti gli affidamenti avverranno tramite gara.
see u,
Giangiacomo
L'Italia è il Paese, dopo gli Stati Uniti e l'Australia, che consuma il maggior numero di litri d'acqua per abitante: quasi 600 litri al giorno negli Usa, 500 in Australia, 400 in Italia. In Gran Bretagna se ne consumano solo 150, in Germania 190. In parte ciò è dovuto al fatto che la nostra rete idrica è un colabrodo, con una perdita media del 30% e punte del 50%; ciononostante per migliorare i nostri acquedotti investiamo meno della metà di quanto investono gli inglesi (in realtà non tutta l'acqua persa è sprecata: una buona parte viene rubata, spesso per irrigare i campi con acqua potabile. Ad Agrigento, quando i carabinieri hanno sequestrato alcuni invasi illeciti, le cisterne in città quasi scoppiavano tanta acqua arrivava). L'elevato consumo dipende anche dal fatto che nelle nostre città il prezzo dell'acqua è fra i più bassi al mondo: circa 80 centesimi al metro cubo a Roma, contro 4,30 euro a Berlino, 3,50 euro a Copenaghen, 2 euro a Londra. La nostra acqua costa poco, ma illudendoci che sia pressoché gratuita ne consumiamo troppa e alla fine le nostre bollette non sono molto inferiori a quelle inglesi o tedesche. Ciò che accade per l'acqua accade per i rifiuti: oneri di smaltimento molto bassi e quindi, con rare eccezioni (Trento ad esempio), un eccesso di rifiuti. Un altro esempio è il trasporto pubblico locale. I biglietti coprono un terzo del costo: non c'è da stupirsi se i passeggeri, non conoscendo quanto costa davvero il servizio, trattino male gli autobus. Dovrebbero bastare questi esempi per convincerci che vi è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui sono gestiti i nostri servizi locali.
Essi dipendono, pressoché senza eccezioni, dalla politica e i politici, anche i meglio intenzionati, si illudono che il modo per aiutare i cittadini — e ottenere i loro voti — sia far pagare poco i servizi. In realtà così facendo contribuiscono al degrado dell'ambiente e, come abbiamo visto nel caso dell'acqua, alla fine non riescono neppure a mantenere basse le bollette. Solo il 5% dei nostri acquedotti è gestito da privati ai quali il servizio è stato affidato in seguito a un'asta competitiva. Gli altri sono gestiti direttamente dagli enti locali, o comunque da società controllate dagli enti locali a cui sono stati affidati senza mai chiedersi se esistesse qualcuno disposto a offrire il servizio a condizioni migliori. Nella scorsa legislatura il ministro Linda Lanzillotta cercò, invano, di condurre in porto una riforma. Per superare il veto di Rifondazione dovette accettare che gli acquedotti rimanessero pubblici. Ma per gli altri servizi quella legge aveva il merito di porre i Comuni di fronte a una scelta chiara: o gestivano il servizio direttamente, o lo affidavano tramite una gara a società terze. Deroghe alla procedura di assegnazione tramite gara dovevano essere approvate dall'Antitrust. La legge non passò non per l'opposizione di Rifondazione, che si accontentò dell'acqua pubblica, ma perché fu considerata un attentato alla tranquilla sopravvivenza del nuovo «capitalismo pubblico locale», le centinaia di aziende a partecipazione pubblica create negli ultimi anni per gestire i servizi locali.
Queste società sono diventate il fulcro del potere politico locale: non c'è fusione che non sia accompagnata dal passaggio al modello societario duale in modo che non un solo presidente, non un solo consigliere di amministrazione perda il suo posto. Oggi, grazie alla Lega hanno ottenuto ciò che volevano: l'art. 23-bis del decreto fiscale approvato l'1 agosto prevede che le deroghe alla procedura di gara siano solo comunicate all'Antitrust. Tolte di mezzo le gare, la sopravvivenza del capitalismo pubblico locale è assicurata. La Lega ha definito l'approvazione del 23-bis una vittoria del federalismo. In realtà anziché parte di un grande progetto di riforma delle istituzioni, sembra piuttosto la misera difesa di qualche poltrona alle spalle dei cittadini. All'interno della maggioranza l'opposizione al 23-bis è venuta soprattutto da Alleanza nazionale che ha inutilmente difeso le gare e ora annuncia la presentazione di un nuovo disegno di legge per rivedere in senso più rispettoso del mercato l'intero assetto dei servizi locali. Ma vi sarebbe un modo più concreto per segnalare la propria diversità: An gestisce Roma, una città dove i servizi pubblici sono tutti assegnati senza gara. Quale lezione ai propri colleghi, e anche all'opposizione, se il sindaco Alemanno annunciasse che d'ora in poi a Roma tutti gli affidamenti avverranno tramite gara.
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Giangiacomo
domenica 7 settembre 2008
Il questionario
liberamente ispirato al famoso gioco di Marcel Proust
Risponde: Giangiacomo
Il tratto principale del suo carattere?
Le pubbliche relazioni
La qualità che preferisce in un uomo?
Sincerità.
E in una donna?
Essere donna.
Il suo principale difetto?
Desiderare di fare meglio e quindi essere avero negli elogi... sopratutto nei miei confronti.
Il suo sogno di felicità?
Un mondo senza falsi e ipocriti.
Il suo rimpianto?
Politicamente parlando... tante.
L'ultima volta che ho pianto?
Al termine del film "L'albero degli zoccoli".
L'incontro che le ha cambiato la vita?
1999, Comunione e Liberazione.
Sogno ricorrente?
Essere un giocatore dell'Inter.
Il giorno più felice della sua vita?
Arriverà presto...
E il più infelice?
Politicamente parlando... elezioni universitarie 2004.
Quale sarebbe la disgrazia più grande?
Non poter essere più utile.
Il suo primo ricordo?
Nella mia cameretta a disegnare.
Materia preferita?
Matematica
Libro preferito di sempre?
Fratelli di sangue di Chacour Elias
Libro preferito degli ultimi anni?
Oscar e la dama in rosa
Autori preferiti in prosa?
Colto impreparato...
Poeti preferiti?
D'Annunzio, Marinetti.
Cantante preferito?
Nessuno... ascolto solo Gigi D'Agostino.
Il suo eroe e la sua eroina?
Sono cose da piccoli...
I suoi pittori preferiti?
...
Film cult?
Bad boys
Attore preferito?
Sean Connery
Attrice preferita?
Sharon Stone.
Se potesse cambiare qualcosa nel suo aspetto fisico, che cosa cambierebbe?
I capelli
Personaggio storico più ammirato?
Benito Mussolini
Personaggio politico più detestato?
Stalin
Il suo primo amore?
Chiara, alle elementari
Cosa detesta di più?
L'ipocrisia e la prepotenza
L'alternativa al mestiere che ha fatto?
Il poliziotto della scientifica... negli States
Stato d'animo attuale?
Preoccupato
Il suo motto?
Due!
"Che io possa vincere, a se non dovessi riuscire che io possa provare con tutte le mie forze"
"Non per mestiere, ma per passione"
see u
Risponde: Giangiacomo
Il tratto principale del suo carattere?
Le pubbliche relazioni
La qualità che preferisce in un uomo?
Sincerità.
E in una donna?
Essere donna.
Il suo principale difetto?
Desiderare di fare meglio e quindi essere avero negli elogi... sopratutto nei miei confronti.
Il suo sogno di felicità?
Un mondo senza falsi e ipocriti.
Il suo rimpianto?
Politicamente parlando... tante.
L'ultima volta che ho pianto?
Al termine del film "L'albero degli zoccoli".
L'incontro che le ha cambiato la vita?
1999, Comunione e Liberazione.
Sogno ricorrente?
Essere un giocatore dell'Inter.
Il giorno più felice della sua vita?
Arriverà presto...
E il più infelice?
Politicamente parlando... elezioni universitarie 2004.
Quale sarebbe la disgrazia più grande?
Non poter essere più utile.
Il suo primo ricordo?
Nella mia cameretta a disegnare.
Materia preferita?
Matematica
Libro preferito di sempre?
Fratelli di sangue di Chacour Elias
Libro preferito degli ultimi anni?
Oscar e la dama in rosa
Autori preferiti in prosa?
Colto impreparato...
Poeti preferiti?
D'Annunzio, Marinetti.
Cantante preferito?
Nessuno... ascolto solo Gigi D'Agostino.
Il suo eroe e la sua eroina?
Sono cose da piccoli...
I suoi pittori preferiti?
...
Film cult?
Bad boys
Attore preferito?
Sean Connery
Attrice preferita?
Sharon Stone.
Se potesse cambiare qualcosa nel suo aspetto fisico, che cosa cambierebbe?
I capelli
Personaggio storico più ammirato?
Benito Mussolini
Personaggio politico più detestato?
Stalin
Il suo primo amore?
Chiara, alle elementari
Cosa detesta di più?
L'ipocrisia e la prepotenza
L'alternativa al mestiere che ha fatto?
Il poliziotto della scientifica... negli States
Stato d'animo attuale?
Preoccupato
Il suo motto?
Due!
"Che io possa vincere, a se non dovessi riuscire che io possa provare con tutte le mie forze"
"Non per mestiere, ma per passione"
see u
venerdì 5 settembre 2008
Induismo: identità e fanatismo
Le recenti tragiche violenze contro i cristiani in India hanno riportato agli onori delle cronache un dibattito che ferve da anni fra politologi e sociologi delle religioni. Ci si chiede se possa davvero essere definita “fondamentalista” la grande organizzazione indiana Rashtriya Swayamsevak Sangh (Associazione dei Volontari della Nazione, RSS), che a diverso titolo è alle origini dell’associazione internazionale di propaganda dell’induismo Vishva Hindu Parishad (VHP) e del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito politico che – dopo una lunga marcia dall’emarginazione al centro della scena politica, apertasi con la partecipazione a governi di coalizione – nel 1998 è diventato il partito di maggioranza relativa in India e ha espresso il primo ministro, Atal Binari Vajpayee, che è stato in carica fino al 2004. Nelle elezioni del 2004 una coalizione laica guidata dal Partito del Congresso dell’indiana di origine piemontese Sonia Gandhi ha sconfitto, contro tutti i sondaggi, il BJP, che è tornato all’opposizione. Il partito BJP, la VHP e molte altre organizzazioni fanno parte del Sangh Parivar, la “famiglia” di organizzazioni che derivano dal RSS e ne condividono gli ideali. Il Sangh Parivar propone una difesa intransigente dell’identità indù dell’India, con campagne contro i missionari cristiani e musulmani, che purtroppo non di rado trascendono in violenze, e gesti simbolici come la distruzione da parte della folla, nel 1992, della moschea eretta in epoca Mogul sul luogo, ad Ayodhya, dove la tradizione indù colloca la nascita di Rama, una delle più popolari incarnazioni di Vishnu.
Si tratta di “fondamentalismo”? La tesi è stata sostenuta sia nella dialettica politica indiana (dagli avversari del BJP), sia da specialisti come Andreas Schworck, ed è stata vigorosamente rifiutata non solo da alcuni studiosi occidentali che hanno evidenti simpatie per il Sangh Parivar come Koenraad Elst ma anche da altri che hanno cercato una definizione accettabile del fondamentalismo come “tipo ideale”, fra i quali lo storico svizzero Jean-François Mayer. Al di là di assonanze innegabili con i fondamentalismi protestante e islamico, il problema sottolineato da Mayer – per quanto riguarda l’induismo – sembra quello di identificare in modo chiaro quale sia il plesso di principi e dottrine religiose da cui dedurre senza mediazioni una cultura e una politica. L’induismo è un mosaico di principi e di correnti diverse, che la VHP ha tentato di unificare in una sorta di “Chiesa” induista, senza però riuscire a costruire più di una federazione di gruppi che rimangono diversi e che comunque rappresentano solo una parte del variegato mondo induista. Le parole d’ordine intorno alle quali il Sangh Parivar raduna un numero cospicuo di seguaci fanno riferimento a un’immagine essenziale e mitica dell’induismo quale elemento unificatore della nazione indiana e bastione contro il colonialismo culturale “straniero” (cioè musulmano e cristiano). Perché questa immagine tenga, occorre ridurre al minimo i dettagli, così che il riferimento alla religione (senza volerlo necessariamente squalificare come strumentale o posticcio) costruisce più un “nazionalismo religioso” che non un autentico fondamentalismo.
Ultimamente, decidere se si tratti di “fondamentalismo” o di “nazionalismo” è certamente importante per gli studiosi, ma non fa molta differenza per le vittime di violenze contro la minoranze cristiana e quella musulmana – senza dimenticare che tra queste due c’è una differenza, che è forse poco “politicamente corretto” ma è obbligatorio ricordare: i cristiani non hanno mai reagito alla violenza con la violenza, mentre i musulmani si sono organizzati per rispondere al sangue con il sangue, alimentando vari conflitti regionali e locali che hanno fatto migliaia di morti. La condanna della violenza – come ha ricordato Papa Benedetto XVI – non può che essere intransigente e assoluta. La violenza contro i cristiani non può essere giustificata o “compresa” – come purtroppo talora si legge anche su qualche giornale occidentale – in nome dell’anticolonialismo o della difesa dell’identità indiana minacciata dalla globalizzazione.
Resta tuttavia un grande problema culturale o politico. Tutto il Sangh Parivar – un immenso movimento il cui braccio politico, il BJP, nelle elezioni indiane del 2004 ha preso (pure arretrando rispetto alla tornata elettorale precedente) ottantacinque milioni di voti – può essere squalificato come una congrega di “fondamentalisti” e di assassini di cristiani? C’è chi lo pensa, con buone ragioni che derivano dalle dichiarazioni di alcuni suoi esponenti, i quali sono almeno “cattivi maestri” rispetto alle folle ubriache di slogan nazionalisti che assaltano le parrocchie e gli orfanotrofi. Di fatto, però, la coalizione che si esprime nel Sangh Parivar e nel partito BJP comprende una ricca varietà di correnti e gruppi che vanno da un ultra-fondamentalismo indù radicale a forme di conservatorismo piuttosto pragmatico. Il partito regionalista Shiv Sena, con base a Bombay (Mumbai) e guidato da Bal Thackeray (con cui ho avuto un’interessante conversazione qualche anno fa) non manca di accenti pressoché razzisti contro i non indù e gli immigrati. Altre componenti del movimento e del partito sono assai più moderate e pragmatiche. Di fatto sono state queste ultime a prevalere (anche se non senza compromessi con le tendenze più estremiste) nella classe dirigente del BJP. Il primo ministro Vajpayee aveva saputo coniugare ultra-antico e ultra-moderno: simboli che risalgono ai Veda e ai poemi epici e una decisa modernizzazione dell’economia in direzione del libero mercato, con risultati economici da molti definiti straordinari.
Il rivale storico del BJP, il Partito del Congresso di Sonia Gandhi oggi al potere, guida un’eterogenea coalizione di forze unite dal richiamo al secolarismo e al laicismo anch’essi tipici di una certa tradizione indiana. Sonia Gandhi ha beneficiato del voto della minoranza cattolica promettendo l’abolizione delle leggi anti-missionarie: tuttavia in molti Stati queste rimangono in vigore, e la Gandhi ha potuto vincere solo mettendo insieme decine di partiti alcuni dei quali a loro volta fieramente anti-cattolici. Quanto al BJP, i suoi oltre ottanta milioni di elettori non sono certo tutti “fondamentalisti” con la bava alla bocca: molti votano BJP perché considerano i nazionalisti più competenti in economia e più onesti della coalizione guidata dal Partito del Congresso, la cui storia è segnata da gravi episodi di corruzione. Il BJP insieme rappresenta e in qualche modo controlla gli elementi più facinorosi della rinascita induista. La comunità internazionale deve chiedere a voce alta e con la necessaria severità a questo grande partito (che potrebbe tornare presto al potere in India) di condannare e isolare i violenti. Ma tagliare i ponti e interrompere il faticoso dialogo con il BJP che gli Stati Uniti e l’Europa hanno avviato da anni sarebbe invece un errore.
see u,
Giangiacomo
Si tratta di “fondamentalismo”? La tesi è stata sostenuta sia nella dialettica politica indiana (dagli avversari del BJP), sia da specialisti come Andreas Schworck, ed è stata vigorosamente rifiutata non solo da alcuni studiosi occidentali che hanno evidenti simpatie per il Sangh Parivar come Koenraad Elst ma anche da altri che hanno cercato una definizione accettabile del fondamentalismo come “tipo ideale”, fra i quali lo storico svizzero Jean-François Mayer. Al di là di assonanze innegabili con i fondamentalismi protestante e islamico, il problema sottolineato da Mayer – per quanto riguarda l’induismo – sembra quello di identificare in modo chiaro quale sia il plesso di principi e dottrine religiose da cui dedurre senza mediazioni una cultura e una politica. L’induismo è un mosaico di principi e di correnti diverse, che la VHP ha tentato di unificare in una sorta di “Chiesa” induista, senza però riuscire a costruire più di una federazione di gruppi che rimangono diversi e che comunque rappresentano solo una parte del variegato mondo induista. Le parole d’ordine intorno alle quali il Sangh Parivar raduna un numero cospicuo di seguaci fanno riferimento a un’immagine essenziale e mitica dell’induismo quale elemento unificatore della nazione indiana e bastione contro il colonialismo culturale “straniero” (cioè musulmano e cristiano). Perché questa immagine tenga, occorre ridurre al minimo i dettagli, così che il riferimento alla religione (senza volerlo necessariamente squalificare come strumentale o posticcio) costruisce più un “nazionalismo religioso” che non un autentico fondamentalismo.
Ultimamente, decidere se si tratti di “fondamentalismo” o di “nazionalismo” è certamente importante per gli studiosi, ma non fa molta differenza per le vittime di violenze contro la minoranze cristiana e quella musulmana – senza dimenticare che tra queste due c’è una differenza, che è forse poco “politicamente corretto” ma è obbligatorio ricordare: i cristiani non hanno mai reagito alla violenza con la violenza, mentre i musulmani si sono organizzati per rispondere al sangue con il sangue, alimentando vari conflitti regionali e locali che hanno fatto migliaia di morti. La condanna della violenza – come ha ricordato Papa Benedetto XVI – non può che essere intransigente e assoluta. La violenza contro i cristiani non può essere giustificata o “compresa” – come purtroppo talora si legge anche su qualche giornale occidentale – in nome dell’anticolonialismo o della difesa dell’identità indiana minacciata dalla globalizzazione.
Resta tuttavia un grande problema culturale o politico. Tutto il Sangh Parivar – un immenso movimento il cui braccio politico, il BJP, nelle elezioni indiane del 2004 ha preso (pure arretrando rispetto alla tornata elettorale precedente) ottantacinque milioni di voti – può essere squalificato come una congrega di “fondamentalisti” e di assassini di cristiani? C’è chi lo pensa, con buone ragioni che derivano dalle dichiarazioni di alcuni suoi esponenti, i quali sono almeno “cattivi maestri” rispetto alle folle ubriache di slogan nazionalisti che assaltano le parrocchie e gli orfanotrofi. Di fatto, però, la coalizione che si esprime nel Sangh Parivar e nel partito BJP comprende una ricca varietà di correnti e gruppi che vanno da un ultra-fondamentalismo indù radicale a forme di conservatorismo piuttosto pragmatico. Il partito regionalista Shiv Sena, con base a Bombay (Mumbai) e guidato da Bal Thackeray (con cui ho avuto un’interessante conversazione qualche anno fa) non manca di accenti pressoché razzisti contro i non indù e gli immigrati. Altre componenti del movimento e del partito sono assai più moderate e pragmatiche. Di fatto sono state queste ultime a prevalere (anche se non senza compromessi con le tendenze più estremiste) nella classe dirigente del BJP. Il primo ministro Vajpayee aveva saputo coniugare ultra-antico e ultra-moderno: simboli che risalgono ai Veda e ai poemi epici e una decisa modernizzazione dell’economia in direzione del libero mercato, con risultati economici da molti definiti straordinari.
Il rivale storico del BJP, il Partito del Congresso di Sonia Gandhi oggi al potere, guida un’eterogenea coalizione di forze unite dal richiamo al secolarismo e al laicismo anch’essi tipici di una certa tradizione indiana. Sonia Gandhi ha beneficiato del voto della minoranza cattolica promettendo l’abolizione delle leggi anti-missionarie: tuttavia in molti Stati queste rimangono in vigore, e la Gandhi ha potuto vincere solo mettendo insieme decine di partiti alcuni dei quali a loro volta fieramente anti-cattolici. Quanto al BJP, i suoi oltre ottanta milioni di elettori non sono certo tutti “fondamentalisti” con la bava alla bocca: molti votano BJP perché considerano i nazionalisti più competenti in economia e più onesti della coalizione guidata dal Partito del Congresso, la cui storia è segnata da gravi episodi di corruzione. Il BJP insieme rappresenta e in qualche modo controlla gli elementi più facinorosi della rinascita induista. La comunità internazionale deve chiedere a voce alta e con la necessaria severità a questo grande partito (che potrebbe tornare presto al potere in India) di condannare e isolare i violenti. Ma tagliare i ponti e interrompere il faticoso dialogo con il BJP che gli Stati Uniti e l’Europa hanno avviato da anni sarebbe invece un errore.
see u,
Giangiacomo
mercoledì 3 settembre 2008
Se i tagli sono una nuova sfida
Sono giustificati i tamburi di guerra di molti esponenti politici e rappresentanti di vari settori contro i tagli del ministro Tremonti, contenuti nella manovra economica in approvazione in questi giorni? Chi osservi il sistema italiano, anche prescindendo dal noto rapporto debito-Pil, vede alcune apparenti contraddittorie situazioni. La spesa pubblica per i servizi sociali, in percentuale sul Pil, è superiore in Italia rispetto ai principali Paesi europei, ma sta crescendo la disuguaglianza tra ricchi e poveri. Siamo il quarto Paese nell'Ocse per spesa per l'istruzione fino alla secondaria, ma la qualità della scuola italiana continua a peggiorare. La spesa per la sanità in Italia è in linea con quella dei Paesi più sviluppati, ma, se si eccettuano alcune Regioni virtuose, il rapporto risorse impiegate-qualità del servizio lascia spesso a desiderare. La spesa per le pensioni in Italia, rispetto al totale della spesa sociale, è molto più elevata se paragonata alla media europea, ma si dubita di poter assicurare la pensione alle generazioni future. E parlando del sistema produttivo, mentre l'impresa italiana continua ad aumentare la sua capacità di esportazione, il Pil non cresce. Perché?Quello che si dimentica, quando si è toccati in prima persona, è che lo statalismo centralista che affligge l'Italia significa rendita: politica di chi moltiplica i dipendenti pubblici e i finanziamenti a pioggia per assicurarsi il consenso; sindacale e associativa, di chi, nel corso degli anni, ha costruito privilegi per le sue corporazioni; di comodo, in chi rifiuta di essere valutato per quel che fa; da oligopolio, per le imprese decotte protette in modo artificioso. In diversi settori si spende male: si maschera come spesa per lo sviluppo e la solidarietà la spesa per alimentare la rendita, con il risultato che ad aumenti di spesa si associa un aumento dell'inefficienza e dell'iniquità. Certo, semplicemente tagliare non può bastare. Può però essere salutare se, mossi dalla necessità, si è spinti a una rivoluzione culturale che rifiuti lo statalismo e sposi il merito, l'iniziativa personale, la competizione virtuosa, la valutazione, la sussidiarietà, la costruzione di reti dal basso, la possibilità di reperire fondi privati per realtà pubbliche e soprattutto una nuova idealità che senta il bene comune come parte del proprio interesse. È una sfida che non possiamo rimandare perché perdendo tutto il Paese perderà anche la nostra vita personale, familiare, sociale.
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazioneper la Sussidiarietà
see u,
Giangiacomo
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazioneper la Sussidiarietà
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Giangiacomo
Ecco come la finanziaria inciderà sul sistema universitario
Riporto un articolo del mio amico Tommaso Agasisti...
Il recente D.L. n. 112 contiene alcune disposizioni che incidono, in misura anche rilevante, sul sistema universitario. In particolare, le norme principali riguardano tre aspetti: (1) il blocco del turnover nell’assunzione di personale a tempo indeterminato, (2) la conseguente riduzione di fondi per il finanziamento ordinario (FFO) delle università, (3) la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
Il blocco del turnover appare una norma in forte controtendenza rispetto al processo di conferimento di maggiore autonomia alle università: impedire agli atenei di utilizzare liberamente le proprie risorse per l’assunzione a tempo indeterminato del proprio personale docente sembra configurare un ritorno della regolazione centrale in un sistema dove, invece, l’autonomia appare oramai un principio irrinunciabile. La legge attualmente vigente (legge 27 dicembre 1997, n. 449) impone un limite di buon senso, prevedendo che la spesa per assegni fissi per il personale non possa eccedere il 90% del trasferimento di FFO annuale; in altre parole, le università non possono spendere in stipendi più del 90% delle risorse trasferite dallo Stato. Molte università hanno oltrepassato questo limite, spesso con politiche di assunzioni irriguardose dei limiti finanziari, generando di fatto una rigidità dei loro bilanci che appare insostenibile (alcune università spendono il 100% dei loro fondi statali in stipendi!). La stessa legge 449/97 prevedeva che, in caso di superamento della soglia del 90% del FFO, scattasse un blocco automatico per le nuove assunzioni; tuttavia, poco è stato fatto dal lato dei controlli e la situazione è spesso degenerata. La norma contenuta nel DL n. 112 probabilmente vuole porre un rimedio a questo fenomeno, ma le modalità pratiche appaiono generiche e inefficaci, perché si applicano a tutti gli atenei in modo indifferenziato. Nei fatti, il provvedimento penalizza non le università che hanno speso male negli ultimi anni, ma quelle virtuose; quelle, cioè, in cui i costi del personale hanno una incidenza limitata sui bilanci. Questi atenei, che pure avrebbero la possibilità di assumere nuovo personale, con politiche di sviluppo anche mirate, si trovano invece limitate nella propria capacità di spesa. A questi atenei andrebbero lasciati margini di autonomia maggiore, non posti nuovi vincoli!
Il ragionamento di cui sopra si lega anche con il tema dei tagli finanziari. Il fatto che all’orizzonte si profilasse una riduzione dei finanziamenti statali per gli atenei era ampiamente prevedibile e, sotto il profilo della dinamica della spesa pubblica, si tratta di una prospettiva ineludibile anche per il prossimo futuro. In tutti i paesi industrializzati il trend in atto è quello di un contenimento della spesa pubblica nel settore universitario. Tale trend è giustificato sia dalle politiche restrittive di finanza pubblica comuni a tutti i paesi europei (e non solo); sia dalla natura di “investimento” dell’istruzione universitaria che rende opportuno un aumento dei contributi degli studenti sotto forma di maggiori tasse. I laureati, infatti, ottengono benefici in termini di migliori retribuzioni e di migliore status sociale che giustificano una loro ampia partecipazione ai costi della propria istruzione - a questo ovviamente affiancando strumenti efficaci per sostenere un reale diritto allo studio per studenti meritevoli a basso reddito. Inoltre, con riferimento alla spesa pubblica nel settore, i paragoni con i livelli di spesa degli altri paesi europei sono inutili: nessun altro paese ha un debito pubblico come il nostro, e l’esigenza di risanare e riqualificare la spesa pubblica richiede di effettuare tagli in tutti i settori, compreso dunque quello universitario. Richiedere più spesa pubblica, oppure richiedere di non includere il comparto universitario nei tagli, appare inutile e irrealistico. Il problema, dal punto di vista della finanza pubblica (e il DL . n. 112 assume questo punto di vista), non è “se” tagliare, ma “come” e “quanto” tagliare. Se sul “quanto” ovviamente è il dibattito politico che deve guidare le scelte, sul “come” la norma desta qualche perplessità. Infatti, ipotizzare un taglio lineare che colpisce tutti gli atenei indiscriminatamente significa definire un incentivo perverso: gli atenei che hanno speso meglio negli anni precedenti otterranno una riduzione del proprio finanziamento, esattamente proporzionale a quella degli atenei che hanno speso in modo dissennato. Ritengo, invece, che si dovrebbero differenziare i criteri di riduzione delle risorse statali destinate alle università, tagliando di più agli atenei che hanno speso male e mantenendo invece stabili i livelli di finanziamento delle università “virtuose”. Il problema diviene così quello di definire i criteri migliori per effettuare questa selezione; inutile, invece, sprecare tempo a chiedere più soldi. Se anche le forme di protesta riuscissero ad evitare i tagli quest’anno, che ne sarebbe l’anno prossimo? E l’anno ancora venturo? Ipotizzare una reiterazione negli anni della protesta, per avere qualche milione di euro in più all’anno (su un fondo di oltre 7 miliardi di euro…) sembra una strada francamente poco produttiva. Se si cominciasse a ragionare su criteri di spesa ritenuti “virtuosi” il dibattito sarebbe, probabilmente, più costruttivo.
Infine, la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni private può rappresentare uno stimolo al ripensamento di alcuni problemi delle nostre università. Prima di entrare nel merito è importante ricordare che questa proposta è stata avanzata, negli anni scorsi, da numerosi accademici nonché da vari esponenti politici di destra e di sinistra; è dunque ragionevole ipotizzare che questa idea abbia alcuni aspetti positivi. Così non è, chiaramente, per coloro che vedono nella trasformazione in fondazioni lo “smantellamento dell’università”; per essi infatti qualunque provvedimento in questa direzione sarebbe lesivo della natura “pubblica” dell’istruzione. I vantaggi che si potrebbero ottenere dalla trasformazione in fondazione sono, fondamentalmente, quelli di una maggiore flessibilità nella gestione e di un coinvolgimento di soggetti terzi, pubblici e privati, al finanziamento degli atenei. Occorre però non nascondersi dietro un dito: non è sufficiente ipotizzare la soluzione delle fondazioni per risolvere i vari problemi del sistema universitario, che rimangono aperti: modalità di reclutamento dei docenti, sistemi incentivanti di finanziamento per le performance della produttività scientifica, valutazione della qualità della didattica e della ricerca, ecc. Allo stesso tempo, però, occorre riconoscere che la trasformazione in fondazioni (che, ricordiamo, deve avvenire su base volontaria) potrebbe rappresentare, per le università più intraprendenti, la prima opportunità per differenziarsi, ricercando una maggiore autonomia ed una maggiore qualità.
Per concludere, ritengo dunque che il DL. n. 112 contenga, tutti assieme, elementi ineludibili (il contenimento della spesa pubblica), elementi discutibili e negativi (il blocco indiscriminato del turnover), ed elementi potenzialmente positivi (la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni). La natura del provvedimento, però, è di natura finanziaria e come tale deve essere trattato; la vera discussione intorno al settore universitario non può limitarsi ai soldi e alle regole amministrative, ma deve concentrarsi sugli aspetti “core”, come la qualità della didattica, della ricerca, della gestione delle proprie attività, la rilevanza internazionale dei nostri atenei, la valutazione dei docenti e delle strutture.
Quando si (ri)comincerà a parlare, ma soprattutto a riformare, in relazione a questi aspetti? Il timore è che, a forza di decidere (il Governo) o di lamentarsi (le università) avendo a mente solo la questione delle risorse finanziarie, si dimentichi che l’università è un’altra cosa.
see u,
Giangiacomo
Il recente D.L. n. 112 contiene alcune disposizioni che incidono, in misura anche rilevante, sul sistema universitario. In particolare, le norme principali riguardano tre aspetti: (1) il blocco del turnover nell’assunzione di personale a tempo indeterminato, (2) la conseguente riduzione di fondi per il finanziamento ordinario (FFO) delle università, (3) la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
Il blocco del turnover appare una norma in forte controtendenza rispetto al processo di conferimento di maggiore autonomia alle università: impedire agli atenei di utilizzare liberamente le proprie risorse per l’assunzione a tempo indeterminato del proprio personale docente sembra configurare un ritorno della regolazione centrale in un sistema dove, invece, l’autonomia appare oramai un principio irrinunciabile. La legge attualmente vigente (legge 27 dicembre 1997, n. 449) impone un limite di buon senso, prevedendo che la spesa per assegni fissi per il personale non possa eccedere il 90% del trasferimento di FFO annuale; in altre parole, le università non possono spendere in stipendi più del 90% delle risorse trasferite dallo Stato. Molte università hanno oltrepassato questo limite, spesso con politiche di assunzioni irriguardose dei limiti finanziari, generando di fatto una rigidità dei loro bilanci che appare insostenibile (alcune università spendono il 100% dei loro fondi statali in stipendi!). La stessa legge 449/97 prevedeva che, in caso di superamento della soglia del 90% del FFO, scattasse un blocco automatico per le nuove assunzioni; tuttavia, poco è stato fatto dal lato dei controlli e la situazione è spesso degenerata. La norma contenuta nel DL n. 112 probabilmente vuole porre un rimedio a questo fenomeno, ma le modalità pratiche appaiono generiche e inefficaci, perché si applicano a tutti gli atenei in modo indifferenziato. Nei fatti, il provvedimento penalizza non le università che hanno speso male negli ultimi anni, ma quelle virtuose; quelle, cioè, in cui i costi del personale hanno una incidenza limitata sui bilanci. Questi atenei, che pure avrebbero la possibilità di assumere nuovo personale, con politiche di sviluppo anche mirate, si trovano invece limitate nella propria capacità di spesa. A questi atenei andrebbero lasciati margini di autonomia maggiore, non posti nuovi vincoli!
Il ragionamento di cui sopra si lega anche con il tema dei tagli finanziari. Il fatto che all’orizzonte si profilasse una riduzione dei finanziamenti statali per gli atenei era ampiamente prevedibile e, sotto il profilo della dinamica della spesa pubblica, si tratta di una prospettiva ineludibile anche per il prossimo futuro. In tutti i paesi industrializzati il trend in atto è quello di un contenimento della spesa pubblica nel settore universitario. Tale trend è giustificato sia dalle politiche restrittive di finanza pubblica comuni a tutti i paesi europei (e non solo); sia dalla natura di “investimento” dell’istruzione universitaria che rende opportuno un aumento dei contributi degli studenti sotto forma di maggiori tasse. I laureati, infatti, ottengono benefici in termini di migliori retribuzioni e di migliore status sociale che giustificano una loro ampia partecipazione ai costi della propria istruzione - a questo ovviamente affiancando strumenti efficaci per sostenere un reale diritto allo studio per studenti meritevoli a basso reddito. Inoltre, con riferimento alla spesa pubblica nel settore, i paragoni con i livelli di spesa degli altri paesi europei sono inutili: nessun altro paese ha un debito pubblico come il nostro, e l’esigenza di risanare e riqualificare la spesa pubblica richiede di effettuare tagli in tutti i settori, compreso dunque quello universitario. Richiedere più spesa pubblica, oppure richiedere di non includere il comparto universitario nei tagli, appare inutile e irrealistico. Il problema, dal punto di vista della finanza pubblica (e il DL . n. 112 assume questo punto di vista), non è “se” tagliare, ma “come” e “quanto” tagliare. Se sul “quanto” ovviamente è il dibattito politico che deve guidare le scelte, sul “come” la norma desta qualche perplessità. Infatti, ipotizzare un taglio lineare che colpisce tutti gli atenei indiscriminatamente significa definire un incentivo perverso: gli atenei che hanno speso meglio negli anni precedenti otterranno una riduzione del proprio finanziamento, esattamente proporzionale a quella degli atenei che hanno speso in modo dissennato. Ritengo, invece, che si dovrebbero differenziare i criteri di riduzione delle risorse statali destinate alle università, tagliando di più agli atenei che hanno speso male e mantenendo invece stabili i livelli di finanziamento delle università “virtuose”. Il problema diviene così quello di definire i criteri migliori per effettuare questa selezione; inutile, invece, sprecare tempo a chiedere più soldi. Se anche le forme di protesta riuscissero ad evitare i tagli quest’anno, che ne sarebbe l’anno prossimo? E l’anno ancora venturo? Ipotizzare una reiterazione negli anni della protesta, per avere qualche milione di euro in più all’anno (su un fondo di oltre 7 miliardi di euro…) sembra una strada francamente poco produttiva. Se si cominciasse a ragionare su criteri di spesa ritenuti “virtuosi” il dibattito sarebbe, probabilmente, più costruttivo.
Infine, la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni private può rappresentare uno stimolo al ripensamento di alcuni problemi delle nostre università. Prima di entrare nel merito è importante ricordare che questa proposta è stata avanzata, negli anni scorsi, da numerosi accademici nonché da vari esponenti politici di destra e di sinistra; è dunque ragionevole ipotizzare che questa idea abbia alcuni aspetti positivi. Così non è, chiaramente, per coloro che vedono nella trasformazione in fondazioni lo “smantellamento dell’università”; per essi infatti qualunque provvedimento in questa direzione sarebbe lesivo della natura “pubblica” dell’istruzione. I vantaggi che si potrebbero ottenere dalla trasformazione in fondazione sono, fondamentalmente, quelli di una maggiore flessibilità nella gestione e di un coinvolgimento di soggetti terzi, pubblici e privati, al finanziamento degli atenei. Occorre però non nascondersi dietro un dito: non è sufficiente ipotizzare la soluzione delle fondazioni per risolvere i vari problemi del sistema universitario, che rimangono aperti: modalità di reclutamento dei docenti, sistemi incentivanti di finanziamento per le performance della produttività scientifica, valutazione della qualità della didattica e della ricerca, ecc. Allo stesso tempo, però, occorre riconoscere che la trasformazione in fondazioni (che, ricordiamo, deve avvenire su base volontaria) potrebbe rappresentare, per le università più intraprendenti, la prima opportunità per differenziarsi, ricercando una maggiore autonomia ed una maggiore qualità.
Per concludere, ritengo dunque che il DL. n. 112 contenga, tutti assieme, elementi ineludibili (il contenimento della spesa pubblica), elementi discutibili e negativi (il blocco indiscriminato del turnover), ed elementi potenzialmente positivi (la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni). La natura del provvedimento, però, è di natura finanziaria e come tale deve essere trattato; la vera discussione intorno al settore universitario non può limitarsi ai soldi e alle regole amministrative, ma deve concentrarsi sugli aspetti “core”, come la qualità della didattica, della ricerca, della gestione delle proprie attività, la rilevanza internazionale dei nostri atenei, la valutazione dei docenti e delle strutture.
Quando si (ri)comincerà a parlare, ma soprattutto a riformare, in relazione a questi aspetti? Il timore è che, a forza di decidere (il Governo) o di lamentarsi (le università) avendo a mente solo la questione delle risorse finanziarie, si dimentichi che l’università è un’altra cosa.
see u,
Giangiacomo
Lo scontro di civiltà con la fede al dito
La Chiesa cattolica italiana ha ormai una vasta esperienza di matrimoni misti fra cattolici e musulmani. Ha condotto diverse indagini interne, e dispone di enti come il Centro Federico Peirone a Torino che da anni sono vicini alle coppie miste. La disponibilità all’aiuto in tutti i casi concreti non significa che la Chiesa non segnali con realismo i rischi. Del resto, su questo punto la posizione dei vescovi italiani non è lontana da quella di un combattivo apologista dell’islam come Tariq Ramadan, il quale usa parole piuttosto severe nei confronti di quei musulmani che sposano un coniuge cristiano con una buona dose di superficialità, andando incontro nella maggior parte dei casi a un inevitabile fallimento.
Il problema è anzitutto teologico. La nozione del matrimonio non è la stessa nel cristianesimo e nell’islam. Il diritto islamico – sia pure con precisazioni e limitazioni – ammette la poligamia, e permette al marito di ripudiare la moglie semplicemente dichiarandolo, mentre la donna per divorziare deve passare attraverso un tribunale. Una musulmana non può sposare un uomo di un’altra religione; un musulmano può sposare una cristiana o un’ebrea ma dev’essere chiaramente stipulato che i figli saranno educati nella religione islamica. L’idea soggiacente è che il matrimonio non è, come per i cristiani, anzitutto un’istituzione di diritto naturale, per quanto elevata da Gesù Cristo alla dignità di sacramento. Per l’islam il matrimonio è un contratto rigorosamente normato dal Corano e dal diritto islamico, e l’idea che un musulmano sia coinvolto in un legame matrimoniale meramente “naturale”, non regolato dalla sua religione, non ha senso.
Quando questa mentalità entra in contatto con il diritto occidentale iniziano i problemi. Per cominciare, in Italia una donna ha diritto di sposare chi vuole, prescindendo dalla religione. Ma una donna musulmana che non sia cittadina italiana in pratica avrà molte difficoltà a sposare un non musulmano. Il suo consolato, nella maggior parte dei casi, le negherà il nulla osta matrimoniale. Se il fidanzato italiano non ha una forte identità cristiana si presenterà al consolato per una “falsa” conversione all’islam, che dimenticherà poco dopo il matrimonio, salvo però esporsi a un’accusa di apostasia ove dovesse tornare alla pratica del cristianesimo. In mancanza di conversione dello sposo più o meno fasulla, ci sono oggi sentenze dei nostri tribunali che permettono a donne musulmane straniere di sposarsi in Italia anche senza il nulla osta del Paese di origine. Ma per il loro Paese questo matrimonio è illecito, e se tornano in patria le conseguenze possono essere molto serie.
In realtà, in Italia sono più spesso donne cristiane a sposare immigrati musulmani. Non mancano casi di poligamia, i più gravi, perché il matrimonio poligamo per la legge italiana non esiste e la seconda (o terza, o quarta) moglie potrà essere ripudiata senza godere di alcuna tutela giuridica. La Chiesa sa però che anche i matrimoni misti monogamici spesso falliscono. L’uomo musulmano ha difficoltà a rinunciare all’idea del ripudio facile, evidentemente incompatibile con la nozione cattolica di matrimonio, e certamente non accetta che nel percorso educativo ai figli sia proposto il cristianesimo. Ha ragione – per una volta – Tariq Ramadan: il romanticismo non è un sostituto per la prudenza, e i richiami all’amore non bastano a superare una differenza culturale che si rivela nella maggior parte dei casi insormontabile.
see u,
Giangiacomo
Il problema è anzitutto teologico. La nozione del matrimonio non è la stessa nel cristianesimo e nell’islam. Il diritto islamico – sia pure con precisazioni e limitazioni – ammette la poligamia, e permette al marito di ripudiare la moglie semplicemente dichiarandolo, mentre la donna per divorziare deve passare attraverso un tribunale. Una musulmana non può sposare un uomo di un’altra religione; un musulmano può sposare una cristiana o un’ebrea ma dev’essere chiaramente stipulato che i figli saranno educati nella religione islamica. L’idea soggiacente è che il matrimonio non è, come per i cristiani, anzitutto un’istituzione di diritto naturale, per quanto elevata da Gesù Cristo alla dignità di sacramento. Per l’islam il matrimonio è un contratto rigorosamente normato dal Corano e dal diritto islamico, e l’idea che un musulmano sia coinvolto in un legame matrimoniale meramente “naturale”, non regolato dalla sua religione, non ha senso.
Quando questa mentalità entra in contatto con il diritto occidentale iniziano i problemi. Per cominciare, in Italia una donna ha diritto di sposare chi vuole, prescindendo dalla religione. Ma una donna musulmana che non sia cittadina italiana in pratica avrà molte difficoltà a sposare un non musulmano. Il suo consolato, nella maggior parte dei casi, le negherà il nulla osta matrimoniale. Se il fidanzato italiano non ha una forte identità cristiana si presenterà al consolato per una “falsa” conversione all’islam, che dimenticherà poco dopo il matrimonio, salvo però esporsi a un’accusa di apostasia ove dovesse tornare alla pratica del cristianesimo. In mancanza di conversione dello sposo più o meno fasulla, ci sono oggi sentenze dei nostri tribunali che permettono a donne musulmane straniere di sposarsi in Italia anche senza il nulla osta del Paese di origine. Ma per il loro Paese questo matrimonio è illecito, e se tornano in patria le conseguenze possono essere molto serie.
In realtà, in Italia sono più spesso donne cristiane a sposare immigrati musulmani. Non mancano casi di poligamia, i più gravi, perché il matrimonio poligamo per la legge italiana non esiste e la seconda (o terza, o quarta) moglie potrà essere ripudiata senza godere di alcuna tutela giuridica. La Chiesa sa però che anche i matrimoni misti monogamici spesso falliscono. L’uomo musulmano ha difficoltà a rinunciare all’idea del ripudio facile, evidentemente incompatibile con la nozione cattolica di matrimonio, e certamente non accetta che nel percorso educativo ai figli sia proposto il cristianesimo. Ha ragione – per una volta – Tariq Ramadan: il romanticismo non è un sostituto per la prudenza, e i richiami all’amore non bastano a superare una differenza culturale che si rivela nella maggior parte dei casi insormontabile.
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Giangiacomo
venerdì 22 agosto 2008
8-24 Agosto 2008, Olimpiadi insanguinate
8-24 August
The blood Olympic Games
La Cina che ospita i giochi olimpici è una terribile macchina di oppressione e di menzogna
Comunismo in Asia: Cina
La Cina, lo Stato comunista più popoloso del mondo, il più sovraffollato lager («Laogai», in cinese) mai esistito, si sta trasformando in una macchina industriale e commerciale dalle sconfinate potenzialità volta alla conquista economica del mondo.
Communism in Asia: China
China, the most populated Communist country in the world, the most overcrowded lager («Laogai», in Chinese) never existed, is changing into an industrial and commercial machine with endless capability turned to the economic conquest of the world.
see u,
Giangiacomo
The blood Olympic Games
La Cina che ospita i giochi olimpici è una terribile macchina di oppressione e di menzogna
Comunismo in Asia: Cina
La Cina, lo Stato comunista più popoloso del mondo, il più sovraffollato lager («Laogai», in cinese) mai esistito, si sta trasformando in una macchina industriale e commerciale dalle sconfinate potenzialità volta alla conquista economica del mondo.
Communism in Asia: China
China, the most populated Communist country in the world, the most overcrowded lager («Laogai», in Chinese) never existed, is changing into an industrial and commercial machine with endless capability turned to the economic conquest of the world.
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Giangiacomo
giovedì 21 agosto 2008
FS non deve reintegrare De Angelis
Chi sbaglia paga!
e deve servire da esempio...
Rappresentanti sindacali che pensano più alla politica, a farsi vedere dai funzionari, a far carriera all'interno del sindacato, quando...
prima di tutto sono dipendenti di un'azienda
dovrebbero tutelare gli interessi dei loro colleghi e, "bontà loro", pensare agli interessi dell'azienda per la quale lavorano!!
si può crescere anche lì... ed è più stimolante... sicuramente!
see u,
Giangiacomo
e deve servire da esempio...
Rappresentanti sindacali che pensano più alla politica, a farsi vedere dai funzionari, a far carriera all'interno del sindacato, quando...
prima di tutto sono dipendenti di un'azienda
dovrebbero tutelare gli interessi dei loro colleghi e, "bontà loro", pensare agli interessi dell'azienda per la quale lavorano!!
si può crescere anche lì... ed è più stimolante... sicuramente!
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Giangiacomo
Gli atenei diventino fondazioni private
Nelle polemiche di questi giorni riguardanti i tagli di spesa all’università contenuti nel Dl n. 112 si dimentica un aspetto non secondario della recente vita dell’università italiana.
Negli ultimi anni Camere di commercio, associazioni ed enti locali, pubblici e privati, hanno promosso, anche in piccole località, dei comitati per dar vita a nuove università. Dopo un po’ di anni, queste università hanno richiesto di essere riconosciute e finanziate dallo Stato centrale, cosa che è puntualmente avvenuta nella quasi totalità dei casi. Invece di creare sedi staccate di grandi università, come è avvenuto in pochi casi virtuosi, si è voluto premiare interessi locali, che con la qualità della ricerca e della didattica non c’entrano nulla. Le spese per il sistema universitario sono così ora disperse in mille rivoli. Come uscire allora, da questa situazione?
Per rispondere si pensi agli Stati Uniti, dove ci sono miriadi di università e college, molti anche di valore discutibile. L’unica sostanziale differenza è che questi college non sono finanziati in maniera preponderante con trasferimenti statali, che invece sono erogati in gran parte come borse e prestiti agli studenti che scelgono dove spenderli. La qualità delle strutture universitarie diventa criterio determinante nella loro capacità di reperire risorse.
Per questo appare come potenzialmente “rivoluzionaria” la norma, finora ignorata nel dibattito, secondo cui le università si possono trasformare in fondazioni di diritto privato. Le università sarebbero autonome, giuridicamente e finanziariamente, libere di cercarsi partner privati, non appiattite sulle norme burocratiche di gestione delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle inerenti collaborazioni di ricerca con imprese ed altri enti pubblici e privati. Progressivamente si potrebbe favorire il fatto che, almeno in parte, le università si procurino da sole le risorse necessarie per vivere, come accade oggi negli Usa. E ciò prevedibilmente avverrebbe sulla base di qualità di didattica e ricerca, con un naturale riassestarsi in alto del sistema. Certo, c’è molto da lavorare perché questa idea sia perfezionata già a partire da questo decreto e risponda alle molteplici necessità, anche nella fase di transizione. Ma c’è qualcuno disposto veramente ad accettare la sfida della qualità?"
Giorgio Vittadini
Il Giornale, 30 Luglio 2008
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Giangiacomo
Negli ultimi anni Camere di commercio, associazioni ed enti locali, pubblici e privati, hanno promosso, anche in piccole località, dei comitati per dar vita a nuove università. Dopo un po’ di anni, queste università hanno richiesto di essere riconosciute e finanziate dallo Stato centrale, cosa che è puntualmente avvenuta nella quasi totalità dei casi. Invece di creare sedi staccate di grandi università, come è avvenuto in pochi casi virtuosi, si è voluto premiare interessi locali, che con la qualità della ricerca e della didattica non c’entrano nulla. Le spese per il sistema universitario sono così ora disperse in mille rivoli. Come uscire allora, da questa situazione?
Per rispondere si pensi agli Stati Uniti, dove ci sono miriadi di università e college, molti anche di valore discutibile. L’unica sostanziale differenza è che questi college non sono finanziati in maniera preponderante con trasferimenti statali, che invece sono erogati in gran parte come borse e prestiti agli studenti che scelgono dove spenderli. La qualità delle strutture universitarie diventa criterio determinante nella loro capacità di reperire risorse.
Per questo appare come potenzialmente “rivoluzionaria” la norma, finora ignorata nel dibattito, secondo cui le università si possono trasformare in fondazioni di diritto privato. Le università sarebbero autonome, giuridicamente e finanziariamente, libere di cercarsi partner privati, non appiattite sulle norme burocratiche di gestione delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle inerenti collaborazioni di ricerca con imprese ed altri enti pubblici e privati. Progressivamente si potrebbe favorire il fatto che, almeno in parte, le università si procurino da sole le risorse necessarie per vivere, come accade oggi negli Usa. E ciò prevedibilmente avverrebbe sulla base di qualità di didattica e ricerca, con un naturale riassestarsi in alto del sistema. Certo, c’è molto da lavorare perché questa idea sia perfezionata già a partire da questo decreto e risponda alle molteplici necessità, anche nella fase di transizione. Ma c’è qualcuno disposto veramente ad accettare la sfida della qualità?"
Giorgio Vittadini
Il Giornale, 30 Luglio 2008
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Giangiacomo
martedì 19 agosto 2008
Non nobis, Domine
"Non nobis, Domine, sed nomine Tuo da gloriam"
Non a noi, o Signore, ma al Tuo nome da gloria
Motto templare che esprime l’aspirazione al retto agire secondo la dottrina tradizionale
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Giangiacomo
Famiglia Cristiana nuovamente sconclusionata
Forse è tramontata la moda del cattocomunismo (tanto spesso abbracciata dal settimanale venduto nelle parrocchie), ma pare rafforzarsi il catto-idiotismo
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Giangiacomo
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Giangiacomo
sabato 2 agosto 2008
Love of Country
My Friends,
I am often asked why I want to be President of the United States. And my answer is that I believe in the greatness of this nation as a beacon of goodwill throughout the world. I believe each and every one of us has a duty to serve a cause greater than our own self-interest. I've spent my life in service to my country, and I've spent my life putting my country first.When I was held as a prisoner of war in North Vietnam from 1967 to 1973, I was given the option to come home early because my father was an admiral in the U.S. Navy. I refused to go, because I took an oath of service to put my country first. My ca mpaign released a new television ad outlining my years of service to our country and I ask that you take one minute out of your day to watch this ad and pass it along to any friends and family who may be interested in watching. As President of the United States I will always put my country first, I want to promise you that. You can count on me because it is what I have done my entire life. As a candidate for president, I have an enormous sense of responsibility and duty. That's why I am not in the habit of making promises to my country that I do not intend to keep. If I am so fortunate to be elected to our nation's highest office, I give you my word that I will always put the needs of country above my own. It is my hope that by watching this ad today you will see why I truly believe that I owe America more than she has ever owed me. Sincerely,John McCain P.S. When I was offered a chance to go home early from prison camp in North Vietnam, I put my country first, and I've been putting my country first in life ever since. I believe that the challenges I have faced in service to my country have better prepared me to lead our country as president. Our campaign has released a new ad, and I'd like you to be one of the first to see it. Please follow this link today to learn a little more about my life and why I owe so much to our great country. Thank you for your time.
see u,
Giangiacomo
I am often asked why I want to be President of the United States. And my answer is that I believe in the greatness of this nation as a beacon of goodwill throughout the world. I believe each and every one of us has a duty to serve a cause greater than our own self-interest. I've spent my life in service to my country, and I've spent my life putting my country first.When I was held as a prisoner of war in North Vietnam from 1967 to 1973, I was given the option to come home early because my father was an admiral in the U.S. Navy. I refused to go, because I took an oath of service to put my country first. My ca mpaign released a new television ad outlining my years of service to our country and I ask that you take one minute out of your day to watch this ad and pass it along to any friends and family who may be interested in watching. As President of the United States I will always put my country first, I want to promise you that. You can count on me because it is what I have done my entire life. As a candidate for president, I have an enormous sense of responsibility and duty. That's why I am not in the habit of making promises to my country that I do not intend to keep. If I am so fortunate to be elected to our nation's highest office, I give you my word that I will always put the needs of country above my own. It is my hope that by watching this ad today you will see why I truly believe that I owe America more than she has ever owed me. Sincerely,John McCain P.S. When I was offered a chance to go home early from prison camp in North Vietnam, I put my country first, and I've been putting my country first in life ever since. I believe that the challenges I have faced in service to my country have better prepared me to lead our country as president. Our campaign has released a new ad, and I'd like you to be one of the first to see it. Please follow this link today to learn a little more about my life and why I owe so much to our great country. Thank you for your time.
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Giusto il provvedimento della maggioranza in materia di lavoro
Indegno lo sciacallaggio propagandistico della Sinistra e di Casini che si atteggiano a difensori dei “precari”
Lavoro o sindacato?
"Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente chiari. I salari aumentavano eccessivamente mentre le prospettive aziendali precipitavano con l'inizio della recessione" (diario di Margaret Thatcher nei primi giorni del suo governo, 1979).
Work or trade-union?
"The economic results of trade-union power were already painfully clear. The salaries increased excessively whilst the corporate perspectives fell over with the beginning of the recession" (Margaret Thatcher's diary in the first days of her government, 1979).
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Giangiacomo
Lavoro o sindacato?
"Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente chiari. I salari aumentavano eccessivamente mentre le prospettive aziendali precipitavano con l'inizio della recessione" (diario di Margaret Thatcher nei primi giorni del suo governo, 1979).
Work or trade-union?
"The economic results of trade-union power were already painfully clear. The salaries increased excessively whilst the corporate perspectives fell over with the beginning of the recession" (Margaret Thatcher's diary in the first days of her government, 1979).
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domenica 27 luglio 2008
Anche di Hitler e Stalin non riuscimmo a vedere il pericolo
Molti contemporanei non riuscirono a vedere Adolf Hitler, Benito Mussolini e Joseph Stalin per quello che erano; oggi Hezbollah, al Qaeda, i khomeinisti iraniani e i Wahabiti sauditi proclamano apertamente la loro intenzione di distruggerci, ma, ancora una volta, non stiamo prendendo sul serio tali minacce.Perché c’è una così grande riluttanza ad agire? Dopo la seconda guerra mondiale siamo stati guidati dal forte desiderio di capire come il genocidio, il terrorismo e la guerra totale si manifestino e come prevenirli in futuro, e – soprattutto - abbiamo cercato risposta ad alcune domande fondamentali: Perché l’Occidente non è riuscito a vedere l’arrivo della catastrofe?Perché ci sono stati così pochi sforzi per impedire la marea fascista, e perché praticamente tutti i leader occidentali – e così tanti intellettuali – hanno trattato i fascisti come se fossero dei normali capi politici invece che come i pericolosi rivoluzionari che erano? Perché gli ebrei – le vittime maggiormente designate – fallirono ugualmente nel riconoscere l’entità della loro imminente distruzione? Perché la resistenza è stata così sporadica? La maggioranza alla fine ha accettato una doppia “spiegazione”: l’unicità di quel male e la mancanza di precedenti storici. L’Italia e la Germania erano due tra le nazioni più civilizzate e acculturate del mondo.Era difficile capire che un grande male sarebbe diventato supremo nei Paesi in cui sono nati Kant, Beethoven Dante e Rossellini. Eppure, non siamo mai riusciti a vedere la forza crescente dei nostri nemici. Perché li trattiamo come se fossero normali fenomeni politici, come fanno i leader occidentali quando abbracciano i negoziati come la migliore strada percorribile? Non possiamo biasimare i capi di Stato di allora, per non parlare delle vittime, per non aver visto qualcosa che era quasi totalmente sconosciuto come lo sterminio di massa su vasta scala e una minaccia alla stessa civiltà. Prima d’allora, infatti, non c’era mai stata una campagna organizzata per distruggere un’intera “razza”, ed era perciò quasi impossibile rendersene conto o riconoscerla come tale. Tuttavia l’incapacità di percepire il pericolo segue una prassi ben conosciuta: il sistematico rifiuto di vedere i nostri nemici. Le invettive di Hitler, contenute sia nel Mein Kampf che nelle manifestazioni del partito nazista, erano spesso minimizzate come espressioni “politiche”, un modo per mantenere il sostegno popolare, e raramente venivano prese sul serio.L’appello di Mussolini per la creazione di un nuovo impero italiano e la sua successiva alleanza con Hitler sono stati definiti semplici bravate. Qualche studioso ha ampliato l’analisi per includere altri regimi come la Russia di Stalin, responsabile anch’essa della morte di milioni di individui, le cui ambizioni minacciavano ugualmente l’Occidente. Come con il fascismo, la maggior parte dei contemporanei trovò quasi impossibile credere che l’Arcipelago Gulag fosse quello che era, e - come con il fascismo - abbiamo studiato il fenomeno in modo da riconoscere il male abbastanza in tempo per evitare che ci colpisca di nuovo. Ormai è veramente poco quello che non sappiamo su questi regimi e movimenti; alcuni dei nostri maggiori studiosi li hanno descritti, analizzato le ragioni del loro successo e raccontato la guerra che abbiamo combattuto per sconfiggerli. La nostra conoscenza a riguardo è notevole, così come l’onestà e l’intensità del desiderio che cose simili non si ripetano, eppure sta succedendo di nuovo: stiamo agendo come nel secolo scorso.Il mondo reagisce sonnecchiando alle note retoriche e azioni di movimenti e regimi come Hezbollah e al Qaeda, i khomeinisti iraniani e i wahabiti sauditi che giurano di distruggere noi e quelli come noi. Come i loro predecessori del ventesimo secolo, proclamano apertamente le loro intenzioni e le attuano quando e ovunque possono, e - come i loro predecessori - raramente li prendiamo sul serio o agiamo di conseguenza. Più spesso sottovalutiamo la portata delle loro parole, come se si trattasse di una versione islamica o araba di “politica” destinata al consumo interno e ideata per portare avanti obiettivi nazionali. È chiaro che le spiegazioni che ci siamo dati riguardo la nostra incapacità di agire nel secolo scorso sono sbagliate. La nascita di movimenti messianici di massa non è una novità, ed è davvero poco quello che non sappiamo su di loro, né abbiamo scuse per sorprenderci del successo di leader crudeli anche in Paesi con una lunga storia, una grande cultura e stabilità politica. Sappiamo tutto, quindi dobbiamo porci di nuovo le solite domande: perché non riusciamo a vedere la forza crescente dei nostri nemici? Per molte ragioni.Una è l’idea, profondamente radicata, che tutte le persone siano fondamentalmente uguali e buone. La maggior parte della storia umana dimostra l’opposto, ma è difficile accettare il fatto che molte persone siano cattive e che intere culture, anche la migliore, possano cadere preda di leader crudeli e marciare a comando. Molta della cultura occidentale è profondamente impegnata a credere nella bontà dell’umanità, e siamo riluttanti ad abbandonare questo rassicurante articolo di fede; nonostante l’evidenza del contrario, preferiamo inseguire la strada della ragionevolezza anche con i nemici il cui fanatismo totalmente irrazionale è palese. Questa non è filosofia, perché accettare la minaccia contro di noi vuol dire agire, a meno che non si preferisca il suicidio nazionale. Come nel ventesimo secolo, significa guerra; significa che, almeno temporaneamente, dobbiamo fare sacrifici su molti fronti: la comodità delle nostre vite, il rischio di morire, l’oggetto quotidiano dei nostri sforzi – le carriere e le libertà personali soggette a spiacevoli ed anche pericolose restrizioni – e la destinazione della ricchezza dalla soddisfazione personale alla sicurezza nazionale. Tutto questo è doloroso; anche il solo pensarlo fa male. Poi c’è l’antisemitismo.Vecchi testi dell’odio antiebraico, ora anche in farsi e arabo, si stanno diffondendo in tutto il Medio Oriente, e incitazioni alla distruzione di Israele appaiono regolarmente nelle televisioni iraniane, egiziane, saudite e siriane, e sono ascoltate nelle moschee europee e americane. Non c’è da stupirsi se ogni condanna occidentale che non è seguita da praticamente nessuna azione suggerisca, come minimo, una diffusa indifferenza verso il destino degli ebrei. Infine c’è la natura del sistema politico. Nessuna democrazia era adeguatamente preparata alla guerra degli anni Quaranta prima di esserne coinvolta, e nessuno era preparato all’aggressione terrorista del ventunesimo secolo.La natura della politica occidentale rende molto difficile ai leaders nazionali – nonostante alcuni uomini e donne che capiscono cosa stia succedendo e vogliano agire – prendere opportune e attente misure prima che la guerra gli piombi addosso. Uomini come Winston Churchill sono stati relegati all’opposizione fino a quando la battaglia è divenuta inevitabile. Allora come oggi, l’iniziativa spetta ai nemici dell’Occidente. Fino ad oggi, impegnati nei campi di battaglia dell’Iraq e dell’Afghanistan, c’è stato uno scarso riconoscimento del fatto che siamo sotto attacco da parte di un nemico comune, e grande riluttanza ad agire di conseguenza: questa volta l’ignoranza non può essere addotta come giustificazione. Se saremo sconfitti sarà per mancanza di volontà, non di nozioni.
Michael Ledeen - Liberal
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Giangiacomo
Michael Ledeen - Liberal
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Giangiacomo
domenica 20 luglio 2008
sabato 19 luglio 2008
Ma l’Europa è ancora in Europa?
Alla domanda «che cos’è l’Europa?» un numero impressionante di pensatori, giornalisti, cittadini e responsabili politici europei reagiscono affermando che non esiste una risposta, o meglio che nessuna risposta deve essere fornita. L’Europa, dicono, non è nulla di tangibile e questo nulla - lungi dal rappresentare un handicap - è il suo mandato, la sua vocazione, la sua virtù tardiva e cardinale. Il filosofo francese Jean-Marc Ferry definisce l’Europa un’identità il cui principio è legato alla sua disposizione ad aprirsi alle altre identità. L’Europa, l’essere europei significherebbe dunque non dovere nulla alla propria origine ed essere sradicati da se stessi. Questo modo di percepire, di pensare l’Europa è dovuto al trauma di Auschwitz. La forma apocalittica che ha assunto l’esclusione dell’Altro nei campi della morte potrebbe essere riscattata dall’avvento di un’umanità che nessun dissidio interiore sarebbe in grado di fragilizzare o dividere. E l’Europa, essendo appunto stata il luogo del crimine, deve dare l’esempio ed espiare il crimine cancellando il luogo. L’unica identità che può accettare è quella del ripudio di ogni brama identitaria; per non cedere nuovamente alla tentazione dell’esclusione deve optare per la strada redentrice dell’indeterminatezza. Fuggire lontani dall’appartenenza: questa sarebbe la missione civilizzatrice e, innanzitutto, auto-civilizzatrice che si attribuisce l’Europa del «dovere di memoria».Ed è sorretti da questa definizione della non-definizione che i sostenitori dell’integrazione della Turchia nell’Unione Europea hanno accusato i loro avversari di lasciarsi guidare dalla retorica reazionaria della provenienza. «Coloro che vogliono i turchi fuori dall’Ue scoprono il radicamento dell’Europa nell’occidente cristiano», dicono con sarcasmo. Questo radicamento rappresenterebbe ai loro occhi una caduta, anzi una ricaduta. Chiedersi se la Turchia fa parte dell’Europa - ovvero se questo Paese è rimasto ai margini del cosiddetto concerto europeo o se ha condiviso le esperienze che hanno modellato il vecchio continente e che gli hanno conferito la sua particolare fisionomia: il Cristianesimo, il Rinascimento, la Riforma, la Controriforma, l’Illuminismo, il Romanticismo - vuol dire dimenticare che la stessa Europa non fa più parte dell’Europa e che questo distacco la libera finalmente dalla sua storia sanguinosa. L’Europa deve fare di tutto per impedire il ritorno dei suoi vecchi demoni. Ma lo sta facendo bene? Cosa significa veramente questa sua proclamazione di apertura? Rinchiudere l’Altro (in questo caso la Turchia) nell’alternativa tra inclusione ed esclusione non significa rispettarlo in quanto Altro bensì militare attivamente in favore di un mondo privo di alterità. Significa istituire, sotto l’egida del diritto, dell’economia e della morale, l’impero dell’Identico. «Non sono nulla, dunque sono tutto», afferma oggi l’Europa autocritica, pentita, postnazionale e, in un certo senso, post-europea. A questa xenofilia senza xenos si aggiunge l’esercizio di una memoria che dimentica tutto quello che non è stato criminale. In nome di Auschwitz, l’Europa, in quanto esperienza e destino, viene sostituita dall’Europa delle regole, delle procedure e dello sciovinismo di un presente che fonda il suo regno sulle macerie del nazionalismo e dell’etnocentrismo. Prima di noi il diluvio! Prima delle nostre attuali instancabili lotte contro ogni discriminazione, il razzismo, l’antisemitismo, la misoginia, l’omofobia, la colonizzazione, la schiavitù regnavano, insieme o alternativamente, nel territorio europeo.Questa Europa della memoria è un’Europa della tabula rasa. Questa Europa dell’apertura è un’Europa chiusa a tutto quello che non è, qui e ora, come lei. Esiste tuttavia un’altra modalità del dovere di memoria: la cultura. Come ha scritto il filosofo Alain «l’uomo vive in società non perché eredita dall’uomo ma perché commemora l’uomo. Commemorare vuol dire far rivivere quello che vi è di grande nei morti, e nei morti più grandi».Questo utilizzo della memoria è oggi in disuso. Se l’Europa si allontana da se stessa senza cedere ad alcun tipo di nostalgia non è solo perché è ancora abitata dalle atrocità del ventesimo secolo ma perché, purtroppo, la cultura - questa grande mediazione dell’arte, questo tentativo di capire attraverso i nostri morti cosa siamo e cosa rappresenta la vita, ovvero quello che contraddistingueva l’umanesimo europeo - non ha più nessuna importanza nel vecchio continente. In un rapporto che presenta 314 proposte per favorire la crescita, consegnato recentemente al presidente della Repubblica francese da una commissione internazionale di esperti, diretta da Jacques Attali, viene scritto e ripetuto che l’attuale organizzazione dell’insegnamento è sbagliata perché favorisce l’attitudine dei bambini ad imparare conoscenze accademiche a memoria invece di facilitare lo sviluppo della loro creatività, delle loro doti linguistiche, informatiche, artistiche e sportive. L’Europa non ha più il tempo e la voglia di guardarsi indietro. Altri compiti, più impellenti, l’occupano e la preoccupano: l’accesso a tutte le informazioni disponibili su Internet, l’adattamento all’economia mondializzata, il benessere dei consumatori. Questa Europa hyper-connessa è sinceramente convinta che è la sua umanità a distaccarla dalle sue radici identitarie, a spingerla a rinnegare o a trascendere le proprie frontiere. In realtà, è per mancanza di umanesimo che tutto questo accade.
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Giangiacomo
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Napoli, liberata dai rifiuti
Lo aveva promesso in campagna elettorale: il primo consiglio dei ministri operativo si sarebbe tenuto a Napoli e a Napoli Berlusconi e i ministri avrebbero continuato a tornare fin quando non si fosse risolta l’emergenza e i rifiuti non fossero stati tolti definitivamente dalle strade. Oggi Berlusconi è per la quinta volta in meno di due mesi a Napoli e può annunciare che in Campania non ci sono più rifiuti per le strade. L’emergenza è superata, come era stato promesso.
Il risultato è stato raggiunto con un lavoro immane, che ha visto impegnati in prima linea il presidente del Consiglio, il sottosegretario Bertolaso e il generale Giannini, comandante dei militari impiegati per rendere più visibile ed efficace il ritorno dello Stato.
Assieme a Napoli, ben 511 comuni della Campania sono stati interessati dall'emergenza, per un totale di 7.200 tonnellate di rifiuti prodotti al giorno: uscire dall'emergenza ha comportato raccogliere e avviare a smaltimento questa produzione quotidiana e le decine e decine di migliaia di tonnellate accumulatesi nei mesi passati.
Sono state attivate le discariche possibili e necessarie, parte dell'immondizia è stata avviata in Germania (520 tonnellate al giorno), parte è stata pretrattata e avviata agli impianti di termovalorizzazione di altre regioni. Il governo ha avuto la capacità di creare uno spirito di solidarietà che ha prevalso su incomprensioni e contrasti pregressi, perché era chiaro a tutti che stavolta si stava facendo sul serio per uscire definitivamente dall’emergenza perenne.
Lo sforzo eccezionale proseguirà. Con le discariche e i trasferimenti fuori regione si potrà andare avanti per qualche tempo, ma intanto bisognerà continuare a lavorare perché non si ricrei lo scarto negativo fra rifiuti prodotti e rifiuti smaltiti. Si punta sui termovalorizzatori (saranno quattro, presto entrerà in funzione quello di Acerra) e sulla raccolta differenziata, già avviata nei comuni dove non era praticata. Ci vorranno ancora tre anni per la soluzione definitiva della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Per intanto però, come ha detto il premier, “Napoli è stata riportata alla grande civiltà che le compete".
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Giangiacomo
Il risultato è stato raggiunto con un lavoro immane, che ha visto impegnati in prima linea il presidente del Consiglio, il sottosegretario Bertolaso e il generale Giannini, comandante dei militari impiegati per rendere più visibile ed efficace il ritorno dello Stato.
Assieme a Napoli, ben 511 comuni della Campania sono stati interessati dall'emergenza, per un totale di 7.200 tonnellate di rifiuti prodotti al giorno: uscire dall'emergenza ha comportato raccogliere e avviare a smaltimento questa produzione quotidiana e le decine e decine di migliaia di tonnellate accumulatesi nei mesi passati.
Sono state attivate le discariche possibili e necessarie, parte dell'immondizia è stata avviata in Germania (520 tonnellate al giorno), parte è stata pretrattata e avviata agli impianti di termovalorizzazione di altre regioni. Il governo ha avuto la capacità di creare uno spirito di solidarietà che ha prevalso su incomprensioni e contrasti pregressi, perché era chiaro a tutti che stavolta si stava facendo sul serio per uscire definitivamente dall’emergenza perenne.
Lo sforzo eccezionale proseguirà. Con le discariche e i trasferimenti fuori regione si potrà andare avanti per qualche tempo, ma intanto bisognerà continuare a lavorare perché non si ricrei lo scarto negativo fra rifiuti prodotti e rifiuti smaltiti. Si punta sui termovalorizzatori (saranno quattro, presto entrerà in funzione quello di Acerra) e sulla raccolta differenziata, già avviata nei comuni dove non era praticata. Ci vorranno ancora tre anni per la soluzione definitiva della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Per intanto però, come ha detto il premier, “Napoli è stata riportata alla grande civiltà che le compete".
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Giangiacomo
lunedì 14 luglio 2008
14 Luglio 2008 - Rivoluzione francese
La rivoluzione francese
Altro che libertà!
Il mondo moderno viene partorito nel fiume di sangue del Terrore rivoluzionario.
French Revolution
What sort of freedom!
The modern world was born in the river of blood of revolutionary Terror.
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Giangiacomo
Altro che libertà!
Il mondo moderno viene partorito nel fiume di sangue del Terrore rivoluzionario.
French Revolution
What sort of freedom!
The modern world was born in the river of blood of revolutionary Terror.
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Giangiacomo
La giustizia è un'emergenza del Paese, non del premier
Vogliamo giustizia. Quante volte ci è capitato di sentire pronunciare questa frase. È il grido di coloro che, davanti ad un torto subito, chiedono di veder riconosciute le loro ragioni. In molti casi si tratta di persone comuni vittime di un sistema che non è riuscito a tutelarle come dovrebbe. L'articolo 101 della nostra Costituzione è inequivocabile: «La giustizia è amministrata in nome del popolo». Non si tratta quindi di un attività solipsistica. Sempre, nell'esercizio delle loro funzioni, i giudici hanno una limitazione, un vincolo irrinunciabile: il bene comune. Come è possibile coniugare giustizia e bene comune? È come se le lancette dell'orologio fossero tornate indietro di 10 anni. Nella discussione che si sta sviluppando in queste ore, a finire sul bando degli imputati non sono le norme predisposte dal governo, ma il fatto che quest tocchino un processo che vede coinvolto il Presidente del Consiglio.
E' come se si dicesse: siamo d'accordo sul principio, ma siccome c'è di mezzo Berlusconi quello che si sta facendo è sicuramente sbagliato. Pochi ad esempio ricordano la circolare con cui, due anni fa, il procuratore di Torino Marcello Maddalena, davanti all'impossibilità di celebrare tutti i processi, invitava a dare precedenza ai procedimenti più urgenti mettendo in coda quelli su cui era intervenuto l'indulto.
Stessa ratio guida il cosiddetto "lodo-Schifani". Il punto non è l'impunità del Presidente del Consiglio, ma un assetto dei poteri più giusto che superi il conflitto permanente che ci ha accompagnato in questi anni. Troppo spesso, infatti, il potere giudiziario è stato utilizzato come arma di lotta politica. Stabilire l'immunità, durante l'esercizio delle proprie funzioni, di alcune alte cariche dello Stato, significa anzitutto garantire governabilità e stabilità al Paese. Tutti ricordiamo cosa accadde nel 1994. I cittadini vogliono una politica capace di decidere, che non subisca ricatti di sorta. Ce lo hanno chiesto chiaramente alle ultime elezioni bocciando un centrosinistra che ne due anni precedenti si era dimostrato inconcludente e premiando nettamente una coalizione coesa. Credo che l'errore più grande oggi sia quello di tornare sulle barricate. Dobbiamo andare avanti nel confronto tra maggioranza e opposizione consapevoli che quella della giustizia è una delle grandi emergenze del nostro Paese.
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Giangiacomo
E' come se si dicesse: siamo d'accordo sul principio, ma siccome c'è di mezzo Berlusconi quello che si sta facendo è sicuramente sbagliato. Pochi ad esempio ricordano la circolare con cui, due anni fa, il procuratore di Torino Marcello Maddalena, davanti all'impossibilità di celebrare tutti i processi, invitava a dare precedenza ai procedimenti più urgenti mettendo in coda quelli su cui era intervenuto l'indulto.
Stessa ratio guida il cosiddetto "lodo-Schifani". Il punto non è l'impunità del Presidente del Consiglio, ma un assetto dei poteri più giusto che superi il conflitto permanente che ci ha accompagnato in questi anni. Troppo spesso, infatti, il potere giudiziario è stato utilizzato come arma di lotta politica. Stabilire l'immunità, durante l'esercizio delle proprie funzioni, di alcune alte cariche dello Stato, significa anzitutto garantire governabilità e stabilità al Paese. Tutti ricordiamo cosa accadde nel 1994. I cittadini vogliono una politica capace di decidere, che non subisca ricatti di sorta. Ce lo hanno chiesto chiaramente alle ultime elezioni bocciando un centrosinistra che ne due anni precedenti si era dimostrato inconcludente e premiando nettamente una coalizione coesa. Credo che l'errore più grande oggi sia quello di tornare sulle barricate. Dobbiamo andare avanti nel confronto tra maggioranza e opposizione consapevoli che quella della giustizia è una delle grandi emergenze del nostro Paese.
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Giangiacomo
domenica 13 luglio 2008
Appello per la difesa del diritto alla vita di Eluana Englaro
Insieme agli amici dell'Associazione Due minuti per la vita, Vi invito a firmare e a far firmare l'appello in difesa del diritto alla vita di Eluana Englaro presente al link www.firmiamo.it/eluanaenglaro.
Il nostro intervenire come Associazione anche sul tema dell'eutanasia non é fuori luogo ed é anzi espressamente previsto dallo Statuto, laddove all'art. 2, co. 2 si precisa che l'Associazione Due minuti per la vita puó, «promuovere ed aderire a qualsivoglia iniziativa finalizzata alla diffusione e affermazione della "cultura della vita", in particolare della sacralità ed inviolabilità della vita umana in ogni sua fase dal concepimento al termine naturale».
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Giangiacomo
Il nostro intervenire come Associazione anche sul tema dell'eutanasia non é fuori luogo ed é anzi espressamente previsto dallo Statuto, laddove all'art. 2, co. 2 si precisa che l'Associazione Due minuti per la vita puó, «promuovere ed aderire a qualsivoglia iniziativa finalizzata alla diffusione e affermazione della "cultura della vita", in particolare della sacralità ed inviolabilità della vita umana in ogni sua fase dal concepimento al termine naturale».
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Giangiacomo
sabato 12 luglio 2008
11 luglio 2005 – 2008. Tre anni fa, le bombe a Londra
11 luglio 2005 – 2008. Tre anni fa, le bombe a Londra
L’errore politico di tollerare la predicazione islamica nella società inglese.La denuncia della Fallici inglese, Melanie Phillips: dal progressismo alla condanna del multiculturalismo
July 11, 2005 – 2008. Three years ago, the bombing in London
The political mistake to tolerate the Islamic preaching in English society.The accusation of the English Oriana Fallaci, Melanie Phillips: from liberal to the condemnation of multiculturalism
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Giangiacomo
L’errore politico di tollerare la predicazione islamica nella società inglese.La denuncia della Fallici inglese, Melanie Phillips: dal progressismo alla condanna del multiculturalismo
July 11, 2005 – 2008. Three years ago, the bombing in London
The political mistake to tolerate the Islamic preaching in English society.The accusation of the English Oriana Fallaci, Melanie Phillips: from liberal to the condemnation of multiculturalism
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Dal lodo Alfano una nuova stabilità ai governi
"Non appena Berlusconi è sceso in politica, egli è stato oggetto di un inusitato attacco giudiziario che non è una sua questione privata, ma un drammatico fatto politico e istituzionale: 90 processi, 2500 udienze, 500 magistrati impegnati, 470 perquisizioni, episodi gravissimi come quelli avvenuti nel 1994 con la violazione del segreto istruttorio sul Corriere della Sera e nel 1996 con il caso Ariosto alla vigilia delle elezioni.... Questi episodi e molti altri ancora sono la dimostrazione che si è trattato di un uso sconvolgente della giustizia volto a manipolare il quadro politico e ad influire sui risultati elettorali. Solo una buona dose di mistificazione, di ipocrisia e di disprezzo dello Stato di diritto può liquidare tutto ciò come un fatto personale".
Con queste parole, Fabrizio Cicchitto ieri alla Camera ha spiegato come il lodo Alfano - la legge che sospende i processi penali per le prime quattro cariche istituzionali del Paese - sia una legge necessaria per dare finalmente stabilità di governo e politica al Paese, cercando di porre fine al contenzioso tra un minoranza di magistrati politicizzati e la politica, che dal 1992 sta devastando la normalità della vita democratica e che nuoce allo sviluppo del Paese.
Su www.ilpopolodellaliberta.it si possono trovare documenti utili a capire l'importanza di una legge che non riguarda una singola persona ma il corretto funzionamento del rapporto tra istituzioni e magistratura. Un passo, che speriamo sia il primo di una lunga serie e che contribuisca a svelenire un clima di contrapposizione che non giova all'Italia e agli italiani.
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Giangiacomo
Con queste parole, Fabrizio Cicchitto ieri alla Camera ha spiegato come il lodo Alfano - la legge che sospende i processi penali per le prime quattro cariche istituzionali del Paese - sia una legge necessaria per dare finalmente stabilità di governo e politica al Paese, cercando di porre fine al contenzioso tra un minoranza di magistrati politicizzati e la politica, che dal 1992 sta devastando la normalità della vita democratica e che nuoce allo sviluppo del Paese.
Su www.ilpopolodellaliberta.it si possono trovare documenti utili a capire l'importanza di una legge che non riguarda una singola persona ma il corretto funzionamento del rapporto tra istituzioni e magistratura. Un passo, che speriamo sia il primo di una lunga serie e che contribuisca a svelenire un clima di contrapposizione che non giova all'Italia e agli italiani.
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domenica 6 luglio 2008
Il compleanno del presidente Bush (6 luglio 1946)
President Bush’s birthday
President George W. Bush was born on July 6, 1946, in New Haven, Connecticut
Perhaps one day we will understand the unreplaceable role played by the president Bush. He has been one of the best leader that modernity has benefited from, the right person at the right time. If we only think about the attack to the Western world performed by islamic terror, only one thought springs to our mind: we couldn't do without him.
Il compleanno del presidente Bush (6 luglio 1946)
Forse un giorno si capirà che il presidente George W. Bush è stato! tra i migliori leader che il mondo moderno abbia avuto e solo allora si comprenderà l’insostituibile compito che quest’uomo è stato chiamato a svolgere; quasi come il leader di cui non si poteva fare a meno dopo l’attacco sferratto all’Occidente dal terrore islamico.
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Giangiacomo
President George W. Bush was born on July 6, 1946, in New Haven, Connecticut
Perhaps one day we will understand the unreplaceable role played by the president Bush. He has been one of the best leader that modernity has benefited from, the right person at the right time. If we only think about the attack to the Western world performed by islamic terror, only one thought springs to our mind: we couldn't do without him.
Il compleanno del presidente Bush (6 luglio 1946)
Forse un giorno si capirà che il presidente George W. Bush è stato! tra i migliori leader che il mondo moderno abbia avuto e solo allora si comprenderà l’insostituibile compito che quest’uomo è stato chiamato a svolgere; quasi come il leader di cui non si poteva fare a meno dopo l’attacco sferratto all’Occidente dal terrore islamico.
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Giangiacomo
venerdì 4 luglio 2008
4 Luglio - Indipendence Day
4 Luglio 2008
Festa nazionale dell’indipendenza USA
1776 - Il Congresso Continentale sancisce la Dichiaratione di Indipendenza
July 4
US Independence Day
1776 - The US Continental Congress adopts the Declaration of Independence without dissent
Più che una rivoluzione, quella americana fu una «restaurazione» che oggi potremmo senz’altro definire antigiacobina. A differenza di quella francese
Rivoluzione americana
"Lungi dall'essere il prodotto di una rivoluzione democratica e di una opposizione alle istituzioni britanniche, la Costituzione degli Stati Uniti fu il risultato di una grandiosa reazione contro la democrazia e a favore delle tradizioni della madrepatria" (Lord John Emerich Edward Dalberg Acton).
American revolution
"Far from being the product of a democratic revolution and of an opposition to English institutions, the constitution of the United States was the result of a powerful reaction against democracy, and in favor of the traditions of the mother country" (Lord John Emerich Edward Dalberg Acton).
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Giangiacomo
Festa nazionale dell’indipendenza USA
1776 - Il Congresso Continentale sancisce la Dichiaratione di Indipendenza
July 4
US Independence Day
1776 - The US Continental Congress adopts the Declaration of Independence without dissent
Più che una rivoluzione, quella americana fu una «restaurazione» che oggi potremmo senz’altro definire antigiacobina. A differenza di quella francese
Rivoluzione americana
"Lungi dall'essere il prodotto di una rivoluzione democratica e di una opposizione alle istituzioni britanniche, la Costituzione degli Stati Uniti fu il risultato di una grandiosa reazione contro la democrazia e a favore delle tradizioni della madrepatria" (Lord John Emerich Edward Dalberg Acton).
American revolution
"Far from being the product of a democratic revolution and of an opposition to English institutions, the constitution of the United States was the result of a powerful reaction against democracy, and in favor of the traditions of the mother country" (Lord John Emerich Edward Dalberg Acton).
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martedì 1 luglio 2008
«Fanghiglia Cristiana» (cristiana?) contro il buon senso
Sostegno alle iniziative del ministro Maroni in materia di sicurezza!
Chiesa sinistrata
"Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E' venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di incertezze" (Paolo VI, 29 giugno 1972).
Church disfigurement
"We thought that after the Council a day of sunshine would have dawned for the history of the Church. What dawned, instead, was a day of clouds and storms, of darkness, of searching and uncertainties." (Pope Paul VI, 29 June 1972).
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Giangiacomo
Chiesa sinistrata
"Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E' venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di incertezze" (Paolo VI, 29 giugno 1972).
Church disfigurement
"We thought that after the Council a day of sunshine would have dawned for the history of the Church. What dawned, instead, was a day of clouds and storms, of darkness, of searching and uncertainties." (Pope Paul VI, 29 June 1972).
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sabato 28 giugno 2008
Le cinque bugie del sindacato sugli stipendi
Vediamo di mettere un po’ d’ordine in questo pasticciaccio dell’inflazione programmata, da cui sta scaturendo una bagarre politica incredibile. E c’è da scommetterci che oggi alla ripresa delle trattative con Confindustria, il sindacato la utilizzerà per alzare le barricate. La sostanza è banale. I redditi dei dipendenti si possono alzare in modo uguale e uniforme per tutti legandoli all’aumento del costo della vita. Oppure, ed è il tentativo che sta portando avanti il governo, vincolando maggiormente gli scatti di retribuzione alla produttività aziendale, agli utili dell’impresa in cui si lavora, al merito individuale. L’inflazione tout court resta una brutta bestia, la peggiore per un’economia.
I prezzi salgono e tutti fanno comprensibilmente a gara per mantenere il proprio potere d’acquisto: nascono le rivendicazioni salariali, i costi lievitano, i prodotti aumentano di prezzo, autonomi e professionisti alzano le pretese e il circolo vizioso in cui tutti perdono si innesca. L’«inflazione programmata» è al contrario una balla: è un numeretto che dal 1993 compare nei documenti contabili del governo e che rappresenta un obiettivo. Il problema è che da almeno dieci anni, con l’avvento dell’euro, gli Stati nazionali hanno le armi spuntate per combatterla: posto che quantità di moneta e tassi di interesse si stabiliscono a Francoforte. Gli Stati nazionali possono tenere a bada il costo della vita solo favorendo maggiore competizione nei settori protetti, mantenendo così sotto controllo i prezzi. Al contrario alcune sciagurate scelte nazionali del passato concorrono a tenere acceso il fuoco: nell’ultimo anno l’energia elettrica è cresciuta nell’area euro del 4, 3 per cento, mentre da noi, senza nucleare, è balzata del 9, 2 per cento.
Ma ritorniamo al nostro pasticciaccio. Il governo ha mantenuto la previsione prodiana dell’inflazione programmata all’1, 7 per cento, ben al di sotto di quella registrata a maggio dall’Istat. Non si tratta di una novità. Tutti i governi hanno programmato inflazioni inferiori a quelle che poi si sono verificate. Questo numeretto parzialmente inutile ma fortemente evocativo fa i conti con la politica monetaria della Banca centrale europea. Che per statuto combatte affinché i prezzi non salgano più del 2 per cento l’anno.Un’opposizione e un sindacato a corto di argomenti hanno colto l’occasione al volo. Per Epifani segretario della Cgil «un salario di 25mila euro annui perderà mille euro nel biennio». Per Veltroni «il governo è riuscito, nel giro di un mese, a riprecipitare l’Italia nel suo passato». L’idea di fondo è quella di ricreare un legame forte tra opposizione e sindacati, per cercare quel consenso in piazza perso nelle urne.
Ma ci sono alcuni numeri che solo poche settimane fa il governatore della Banca d’Italia ha letto, che dovrebbero mettere a tacere per sempre queste polemiche.Tra il 1992 e il 2007 le retribuzioni in Italia sono cresciute in termini reali del 7, 7 per cento: meno di mezzo punto all’anno. Sono cresciute poco, ma comunque più dell’aumento del costo della vita programmato e reale. Se si continua a guardare il dito (l’inflazione programmata o reale) si rischia però di fare la figura dei fessi. Il punto è che in quindici anni i lavoratori italiani hanno visto i propri stipendi crescere comparativamente meno di quelli europei. Sono stati più che protetti dall’inflazione ufficiale. Ma la produttività del sistema non è cresciuta e dunque nessuna beneficio è arrivato in busta paga. Anzi, nota Mario Draghi, «nel decennio la crescita delle retribuzioni è stata superiore, a quella stagnate, della produttività del lavoro».
Il gioco ruota tutto intorno a questa micidiale illusione ottica. I sindacati vogliono spostare la trincea solo sul numeretto magico. Gridano allo scandalo per la sua esiguità. Ma fingono di dimenticare che esso non ha avuto nessun peso nei rinnovi contrattuali del passato e che la causa per la quale i salari italiani sono cresciuti poco non dipende dal mancato adeguamento dell’inflazione, ma dalla crescita zero della produttività.
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Giangiacomo
I prezzi salgono e tutti fanno comprensibilmente a gara per mantenere il proprio potere d’acquisto: nascono le rivendicazioni salariali, i costi lievitano, i prodotti aumentano di prezzo, autonomi e professionisti alzano le pretese e il circolo vizioso in cui tutti perdono si innesca. L’«inflazione programmata» è al contrario una balla: è un numeretto che dal 1993 compare nei documenti contabili del governo e che rappresenta un obiettivo. Il problema è che da almeno dieci anni, con l’avvento dell’euro, gli Stati nazionali hanno le armi spuntate per combatterla: posto che quantità di moneta e tassi di interesse si stabiliscono a Francoforte. Gli Stati nazionali possono tenere a bada il costo della vita solo favorendo maggiore competizione nei settori protetti, mantenendo così sotto controllo i prezzi. Al contrario alcune sciagurate scelte nazionali del passato concorrono a tenere acceso il fuoco: nell’ultimo anno l’energia elettrica è cresciuta nell’area euro del 4, 3 per cento, mentre da noi, senza nucleare, è balzata del 9, 2 per cento.
Ma ritorniamo al nostro pasticciaccio. Il governo ha mantenuto la previsione prodiana dell’inflazione programmata all’1, 7 per cento, ben al di sotto di quella registrata a maggio dall’Istat. Non si tratta di una novità. Tutti i governi hanno programmato inflazioni inferiori a quelle che poi si sono verificate. Questo numeretto parzialmente inutile ma fortemente evocativo fa i conti con la politica monetaria della Banca centrale europea. Che per statuto combatte affinché i prezzi non salgano più del 2 per cento l’anno.Un’opposizione e un sindacato a corto di argomenti hanno colto l’occasione al volo. Per Epifani segretario della Cgil «un salario di 25mila euro annui perderà mille euro nel biennio». Per Veltroni «il governo è riuscito, nel giro di un mese, a riprecipitare l’Italia nel suo passato». L’idea di fondo è quella di ricreare un legame forte tra opposizione e sindacati, per cercare quel consenso in piazza perso nelle urne.
Ma ci sono alcuni numeri che solo poche settimane fa il governatore della Banca d’Italia ha letto, che dovrebbero mettere a tacere per sempre queste polemiche.Tra il 1992 e il 2007 le retribuzioni in Italia sono cresciute in termini reali del 7, 7 per cento: meno di mezzo punto all’anno. Sono cresciute poco, ma comunque più dell’aumento del costo della vita programmato e reale. Se si continua a guardare il dito (l’inflazione programmata o reale) si rischia però di fare la figura dei fessi. Il punto è che in quindici anni i lavoratori italiani hanno visto i propri stipendi crescere comparativamente meno di quelli europei. Sono stati più che protetti dall’inflazione ufficiale. Ma la produttività del sistema non è cresciuta e dunque nessuna beneficio è arrivato in busta paga. Anzi, nota Mario Draghi, «nel decennio la crescita delle retribuzioni è stata superiore, a quella stagnate, della produttività del lavoro».
Il gioco ruota tutto intorno a questa micidiale illusione ottica. I sindacati vogliono spostare la trincea solo sul numeretto magico. Gridano allo scandalo per la sua esiguità. Ma fingono di dimenticare che esso non ha avuto nessun peso nei rinnovi contrattuali del passato e che la causa per la quale i salari italiani sono cresciuti poco non dipende dal mancato adeguamento dell’inflazione, ma dalla crescita zero della produttività.
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Giangiacomo
La vera giustizia: rispettare la volontà dei cittadini
''Se il premier dovesse occuparsi delle udienze, farebbe un buon servizio a se stesso ma un cattivo servizio al Paese. Crediamo che questa nostra iniziativa legislativa possa portare un elemento di equilibrio in più verso un ordinato e sereno assetto tra i poteri dello Stato.”.Queste parole del ministro della giustizia Angelino Alfano sintetizzano il fine del disegno di legge, approvato oggi dal Consiglio dei Ministri, che prevede la sospensione provvisoria dei processi per le alte cariche dello Stato.Il provvedimento prevede la sospensione dei processi per il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera e il Presidente del Consiglio, per i reati che non riguardano il loro incarico istituzionale.
Queste disposizioni sono un valore per la democrazia, perché sono utili al buon funzionamento delle istituzioni e al sereno svolgimento del mandato che cui le alte cariche dello Stato sono state demandate dal voto popolare. Non si tratta di cancellare i processi, ma della loro sospensione temporanea, come avviene per esempio in Francia, per evitare quell’uso strumentale della giustizia come strumento di lotta politica che da troppi anni avvelena la vita politica del nostro Paese. Dopo ogni vittoria elettorale di Berlusconi e vengono accelerate iniziative giudiziarie rivolte alla delegittimazione e alla caduta del governo voluto dagli elettori. Un esito sovversivo, che deve essere evitato.
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Giangiacomo
Queste disposizioni sono un valore per la democrazia, perché sono utili al buon funzionamento delle istituzioni e al sereno svolgimento del mandato che cui le alte cariche dello Stato sono state demandate dal voto popolare. Non si tratta di cancellare i processi, ma della loro sospensione temporanea, come avviene per esempio in Francia, per evitare quell’uso strumentale della giustizia come strumento di lotta politica che da troppi anni avvelena la vita politica del nostro Paese. Dopo ogni vittoria elettorale di Berlusconi e vengono accelerate iniziative giudiziarie rivolte alla delegittimazione e alla caduta del governo voluto dagli elettori. Un esito sovversivo, che deve essere evitato.
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martedì 24 giugno 2008
La manovra finanziaria aiuta le famiglie
In carica da soli 33 giorni, il governo continua a mantenere gli impegni presi con l’elettorato, con una progressione impressionante. Dopo i decreti legge per affrontare l’emergenza rifiuti e per contrastare l’immigrazione clandestina, i provvedimenti per colpire la grande e piccola criminalità, l’abolizione totale dell’Ici, la detassazione degli straordinari e dei premi di produzione, la rinegoziazione dei mutui è ora il momento della manovra economica.
Tremonti ha tenuto fede all’impegno di anticipare la manovra economica a prima dell’estate. Senza togliere un euro dalle tasche dei cittadini, si comincia ad aiutare chi ha più bisogno: carta prepagata per la spesa alimentare e le bollette per gli anziani con la pensione minima; fondo-casa per le giovani coppie; abolizione del divieto di cumulo tra pensione e lavoro per chi vuol proseguire l’attività; tagli ai costi del carburante; libri di testo e ricette mediche on line; liberalizzazione dei servizi pubblici locali per ridurre le bollette.
Si tratta di alcune delle misure a maggiore impatto popolare. E ci sono anche misure per lo sviluppo, come la conferma del ritorno al nucleare e la ripresa delle grandi opere, ad iniziare dalla Tav. Spariscono gli adempimenti burocratici introdotti da Prodi e Visco, come il grande fratello sui conti correnti, l’obbligo delle dimissioni su internet, la responsabilità, se fai dei lavori, di accertare che la ditta che hai chiamato sia in regola con fisco e contributi.
Nel suo saggio "La paura e la speranza" Tremonti ha elencato i pericoli che correva l’Europa di fronte agli eccessi della globalizzazione, alla crisi dei mercati e alle speculazioni della finanza mondiale di come questi rischiassero di scaricarsi sui ceti più deboli, sui poveri, sugli anziani, sulle famiglie e sui giovani. La manovra economica presentata mercoledì dà una prima risposta, anche con misure coraggiose come la cosiddetta "Robin Hood Tax", che colpisce i guadagni eccessivi "di congiuntura" di petrolieri, banche e assicurazioni, per recuperare denaro da destinare a chi ha più bisogno.
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Giangiacomo
Tremonti ha tenuto fede all’impegno di anticipare la manovra economica a prima dell’estate. Senza togliere un euro dalle tasche dei cittadini, si comincia ad aiutare chi ha più bisogno: carta prepagata per la spesa alimentare e le bollette per gli anziani con la pensione minima; fondo-casa per le giovani coppie; abolizione del divieto di cumulo tra pensione e lavoro per chi vuol proseguire l’attività; tagli ai costi del carburante; libri di testo e ricette mediche on line; liberalizzazione dei servizi pubblici locali per ridurre le bollette.
Si tratta di alcune delle misure a maggiore impatto popolare. E ci sono anche misure per lo sviluppo, come la conferma del ritorno al nucleare e la ripresa delle grandi opere, ad iniziare dalla Tav. Spariscono gli adempimenti burocratici introdotti da Prodi e Visco, come il grande fratello sui conti correnti, l’obbligo delle dimissioni su internet, la responsabilità, se fai dei lavori, di accertare che la ditta che hai chiamato sia in regola con fisco e contributi.
Nel suo saggio "La paura e la speranza" Tremonti ha elencato i pericoli che correva l’Europa di fronte agli eccessi della globalizzazione, alla crisi dei mercati e alle speculazioni della finanza mondiale di come questi rischiassero di scaricarsi sui ceti più deboli, sui poveri, sugli anziani, sulle famiglie e sui giovani. La manovra economica presentata mercoledì dà una prima risposta, anche con misure coraggiose come la cosiddetta "Robin Hood Tax", che colpisce i guadagni eccessivi "di congiuntura" di petrolieri, banche e assicurazioni, per recuperare denaro da destinare a chi ha più bisogno.
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domenica 15 giugno 2008
Intercettazioni: un disegno di legge utile ed equilibrato
Il Consiglio dei ministri oggi ha approvato un disegno di legge in materia di intercettazioni telefoniche.
Il provvedimento ha due punti di forza: arginare la diffusione incontrollata dei contenuti delle intercettazioni e ridimensionare gli oneri derivanti dalle operazioni di intercettazione.
Le intercettazioni restano ma solo per le ipotesi di reato maggiori (l’omicidio, la mafia, la criminalità organizzata, il terrorismo ed i fatti di particolare pericolosità sociale), per quelli che prevedono pene di almeno dieci anni di carcere e per la corruzione e le molestie reiterate contro le donne e i minori.
Questo disegno di legge non abolisce i reati, ma capovolge la prassi seguita finora: partire dallo spionaggio telefonico, magari a pioggia o a casaccio, per arrivare al reato. D’ora in poi si dovrà partire da un’ipotesi, motivata, di reato, e applicare ad esso lo strumento dell’intercettazione. Non si potrà più tirare in ballo chi non c’entra nulla e ha la sola colpa di essere un amico, un’amica, la moglie e l’amante di un sospetto.
Nessun reato viene cancellato, nessuna indagine viene bloccata. Si dovrà però indagare come in ogni altro paese civile: trovando prove, riscontri, confessioni e moventi. Insomma andando sul campo.
In questi giorni si è detto che senza intercettazioni non si sarebbe scoperto lo scandalo della clinica Santa Rita di Milano. A parte il fatto che il quel caso i magistrati hanno trovato molti altri riscontri documentali, a cominciare dalle confessioni degli indagati: com’è possibile utilizzare strumentalmente un argomento del genere visto che le pene previste per i reati di cui sono accusati medici e funzionari sono ben superiori ai dieci anni?
Ne uscirà una legge equilibrata che garantirà più civiltà giuridica per gli italiani, che eviterà la famigerata gogna mediatica di questi anni, che costringerà gli stessi magistrati a compiere un salto di qualità nelle loro indagini, dunque investigando più efficacemente. Non va dimenticato che nonostante il record mondiale di intercettazioni, l’Italia è il paese nel quale nove crimini du dieci restano impuniti e tutti i grandi delitti sono rimasti irrisolti.
«Questo provvedimento - ha affermato in conferenza stampa il ministro della Giustizia, Angelino Alfano - risponde esattamente al dettato della Costituzione sulla tutela della riservatezza ed è inoltre coerente con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il sistema delle intercettazioni era degenerato - ha spiegato Alfano - perché la privacy delle persone è stata violata troppe volte. Il testo approvato è molto equilibrato e coniuga il diritto del cittadino a vedere assicurata la privacy e l’esigenza dell’ordinamento statuale che deve contrastare i crimini».
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Giangiacomo
Il provvedimento ha due punti di forza: arginare la diffusione incontrollata dei contenuti delle intercettazioni e ridimensionare gli oneri derivanti dalle operazioni di intercettazione.
Le intercettazioni restano ma solo per le ipotesi di reato maggiori (l’omicidio, la mafia, la criminalità organizzata, il terrorismo ed i fatti di particolare pericolosità sociale), per quelli che prevedono pene di almeno dieci anni di carcere e per la corruzione e le molestie reiterate contro le donne e i minori.
Questo disegno di legge non abolisce i reati, ma capovolge la prassi seguita finora: partire dallo spionaggio telefonico, magari a pioggia o a casaccio, per arrivare al reato. D’ora in poi si dovrà partire da un’ipotesi, motivata, di reato, e applicare ad esso lo strumento dell’intercettazione. Non si potrà più tirare in ballo chi non c’entra nulla e ha la sola colpa di essere un amico, un’amica, la moglie e l’amante di un sospetto.
Nessun reato viene cancellato, nessuna indagine viene bloccata. Si dovrà però indagare come in ogni altro paese civile: trovando prove, riscontri, confessioni e moventi. Insomma andando sul campo.
In questi giorni si è detto che senza intercettazioni non si sarebbe scoperto lo scandalo della clinica Santa Rita di Milano. A parte il fatto che il quel caso i magistrati hanno trovato molti altri riscontri documentali, a cominciare dalle confessioni degli indagati: com’è possibile utilizzare strumentalmente un argomento del genere visto che le pene previste per i reati di cui sono accusati medici e funzionari sono ben superiori ai dieci anni?
Ne uscirà una legge equilibrata che garantirà più civiltà giuridica per gli italiani, che eviterà la famigerata gogna mediatica di questi anni, che costringerà gli stessi magistrati a compiere un salto di qualità nelle loro indagini, dunque investigando più efficacemente. Non va dimenticato che nonostante il record mondiale di intercettazioni, l’Italia è il paese nel quale nove crimini du dieci restano impuniti e tutti i grandi delitti sono rimasti irrisolti.
«Questo provvedimento - ha affermato in conferenza stampa il ministro della Giustizia, Angelino Alfano - risponde esattamente al dettato della Costituzione sulla tutela della riservatezza ed è inoltre coerente con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il sistema delle intercettazioni era degenerato - ha spiegato Alfano - perché la privacy delle persone è stata violata troppe volte. Il testo approvato è molto equilibrato e coniuga il diritto del cittadino a vedere assicurata la privacy e l’esigenza dell’ordinamento statuale che deve contrastare i crimini».
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Giangiacomo
giovedì 12 giugno 2008
Islam e terrorismo: George W. Bush
Forse un giorno si capirà che il Presidente George W. Bush è stato tra i migliori leader che il mondo moderno abbia avuto e solo allora si comprenderà l'insostituibile compito che quest'uomo è stato chiamato a svolgere; quasi come il leader di cui non si poteva fare a meno dopo l'attacco sferrato all'Occidente dal terrore islamico.
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domenica 8 giugno 2008
Un farnetico alla Cultura?
Lasciare il potere intellettuale al gramscismo?
Sandro Bondi dichiara a Tempi di non avere alcuna intenzione di far guerra alla egemonia culturale della sinistra
Chiede Amicone, direttore di Tempi: Lei ha già ha speso parole generose per Nanni Moretti e Umberto Eco, per esempio. Oltre all’ecumenismo proverà a promuovere voci, personalità, espressioni culturali radicalmente diverse rispetto all’egemonia di matrice gramsciana che imperversano in questo paese praticamente dall’immediato secondo dopoguerra?
Il Ministro risponde: sarebbe assurdo pensare di proporre una nuova egemonia di segno diverso ma sempre finalizzata al potere
Ci risiamo.Ogni volta che il Centro torna al Governo, è preso da raptus di buonismo e libertarismo. Dimenticando che la battaglia più importante, premessa di ogni altra, è quella culturale. A questa battaglia le sinistre dedicano da sempre le migliori energie.Un esempio? Nel 1974 viene introdotto in Italia il divorzio. Sbaglierebbe chi pensasse che la maggioranza degli italiani si sia lasciata convincere dai tre anni di campagna referendaria che lo precedettero. Il voto sul divorzio (o sull’aborto, sulla droga e così via) fu il risultato di un’opera di corruzione della mentalità e dei costumi intrapresa almeno dal secondo dopo guerra. Fu Gramsci ad insegnare che, per ottenere la direzione della vita di un paese occidentale, era indispensabile conquistare l’egemonia culturale. Luigi Amicone, direttore di Tempi, queste cose le sa ed intelligentemente chiede all’On. Bondi, neo-Ministro per i Beni e le Attività culturali: "Lei ha già ha speso parole generose per Nanni Moretti e Umberto Eco, per esempio. Oltre all’ecumenismo proverà a promuovere voci, personalità, espressioni culturali radicalmente diverse rispetto all’egemonia di matrice gramsciana che imperversano in questo paese praticamente dall’immediato secondo dopoguerra?". La risposta del Ministro è permeata dalle ingenuità del libero mercato: "Piuttosto credo sia giusto riconoscere le grandi intellettualità, come nel caso di Eco, ma vorrei anche che nessuno si scandalizzasse quando vengono chiamati ai livelli più alti intellettuali di centrodestra". Bondi vede "grande intellettualità" dove, invece, c’è solo un raccontar balle utile alla cultura progressista. Ma la risposta di Bondi rivela un virus più grave: il considerare la concorrenza – tra intellettuali di destra e "intellettuali" di sinistra – come una panacea per tutti i mali.
Il buon Amicone, non si arrende e, forse non capacitandosi di tanta insipienza, insiste sollevando: "la questione della storia e della storia della cultura insegnata attraverso i libri di testo". Allucinante la risposta del neo-Ministro: "Credo che la questione sia di competenza del ministro dell’Istruzione".Peccato che il Ministero incaricato del "Sostegno Editoria Libraria" sia proprio quello di Bondi. Se non si sostengono le case editrici che pubblicano testi veritieri, quali saranno i libri che verranno adottati nelle scuole?
Amicone - lo immagino sgomento - insiste: "Non sarebbe ora di chiudere il rubinetto dei finanziamenti pubblici a questo cinema che di italiano ha solo i vizi e ben poche virtù culturali?". Aggiungo io: e il teatro, la musica, lo spettacolo? Bondi nemmeno capisce la domanda: "Se non ci fosse un sostegno pubblico, non esisterebbe più da tempo cinema di qualità italiano".On. Bondi, pensi almeno alla sua poltrona: quanti voti crede le porterà la libera concorrenza ? un popolo nutrito da sesso libero, droga, sballi vari, per quale ragione dovrebbe preferirla al Partito Democratico?
Le parole del neo ministro rivelano tuttavia una malattia ancora più grave. Si tratta del male – letale per l’Occidente – del relativismo. Ogni papà sa che non tutto deve essere lasciato alla libertà di scelta dei piccoli. Un Governo che vuole davvero il bene di un popolo non può ignorare come e da quale cultura si sia affermato il peggiore totalitarismo della storia. Chissà perché, invece, per il Centro-Destra, la libera diffusione di testi come "Il piccolo manuale della guerriglia urbana" (autoprol.org) o il "Manuale dell’azione diretta" (bologna.social-forum.org) è considerata "concorrenza", come se i black block o i neo terroristi dei Centri Sociali spuntassero per magia.
La maggiore novità del nuovo Parlamento sta nel fatto che la destra non è più rappresentata, benché alcuni suoi esponenti siano stati eletti qua e la’. Così, come tutti i Governi centristi, anche quello attuale si sta occupando di economia, si sicurezza, di efficienza. Alla cultura ci mettono uno qualsiasi.Ma dire che "La Chiesa è una ricchezza per lo Stato" e poi agire come se verità ed errore avessero gli stessi diritti o producessero gli stessi effetti è roba da Prodi.
Il Ministro risponde: sarebbe assurdo pensare di proporre una nuova egemonia di segno diverso ma sempre finalizzata al potere
Ci risiamo.Ogni volta che il Centro torna al Governo, è preso da raptus di buonismo e libertarismo. Dimenticando che la battaglia più importante, premessa di ogni altra, è quella culturale. A questa battaglia le sinistre dedicano da sempre le migliori energie.Un esempio? Nel 1974 viene introdotto in Italia il divorzio. Sbaglierebbe chi pensasse che la maggioranza degli italiani si sia lasciata convincere dai tre anni di campagna referendaria che lo precedettero. Il voto sul divorzio (o sull’aborto, sulla droga e così via) fu il risultato di un’opera di corruzione della mentalità e dei costumi intrapresa almeno dal secondo dopo guerra. Fu Gramsci ad insegnare che, per ottenere la direzione della vita di un paese occidentale, era indispensabile conquistare l’egemonia culturale. Luigi Amicone, direttore di Tempi, queste cose le sa ed intelligentemente chiede all’On. Bondi, neo-Ministro per i Beni e le Attività culturali: "Lei ha già ha speso parole generose per Nanni Moretti e Umberto Eco, per esempio. Oltre all’ecumenismo proverà a promuovere voci, personalità, espressioni culturali radicalmente diverse rispetto all’egemonia di matrice gramsciana che imperversano in questo paese praticamente dall’immediato secondo dopoguerra?". La risposta del Ministro è permeata dalle ingenuità del libero mercato: "Piuttosto credo sia giusto riconoscere le grandi intellettualità, come nel caso di Eco, ma vorrei anche che nessuno si scandalizzasse quando vengono chiamati ai livelli più alti intellettuali di centrodestra". Bondi vede "grande intellettualità" dove, invece, c’è solo un raccontar balle utile alla cultura progressista. Ma la risposta di Bondi rivela un virus più grave: il considerare la concorrenza – tra intellettuali di destra e "intellettuali" di sinistra – come una panacea per tutti i mali.
Il buon Amicone, non si arrende e, forse non capacitandosi di tanta insipienza, insiste sollevando: "la questione della storia e della storia della cultura insegnata attraverso i libri di testo". Allucinante la risposta del neo-Ministro: "Credo che la questione sia di competenza del ministro dell’Istruzione".Peccato che il Ministero incaricato del "Sostegno Editoria Libraria" sia proprio quello di Bondi. Se non si sostengono le case editrici che pubblicano testi veritieri, quali saranno i libri che verranno adottati nelle scuole?
Amicone - lo immagino sgomento - insiste: "Non sarebbe ora di chiudere il rubinetto dei finanziamenti pubblici a questo cinema che di italiano ha solo i vizi e ben poche virtù culturali?". Aggiungo io: e il teatro, la musica, lo spettacolo? Bondi nemmeno capisce la domanda: "Se non ci fosse un sostegno pubblico, non esisterebbe più da tempo cinema di qualità italiano".On. Bondi, pensi almeno alla sua poltrona: quanti voti crede le porterà la libera concorrenza ? un popolo nutrito da sesso libero, droga, sballi vari, per quale ragione dovrebbe preferirla al Partito Democratico?
Le parole del neo ministro rivelano tuttavia una malattia ancora più grave. Si tratta del male – letale per l’Occidente – del relativismo. Ogni papà sa che non tutto deve essere lasciato alla libertà di scelta dei piccoli. Un Governo che vuole davvero il bene di un popolo non può ignorare come e da quale cultura si sia affermato il peggiore totalitarismo della storia. Chissà perché, invece, per il Centro-Destra, la libera diffusione di testi come "Il piccolo manuale della guerriglia urbana" (autoprol.org) o il "Manuale dell’azione diretta" (bologna.social-forum.org) è considerata "concorrenza", come se i black block o i neo terroristi dei Centri Sociali spuntassero per magia.
La maggiore novità del nuovo Parlamento sta nel fatto che la destra non è più rappresentata, benché alcuni suoi esponenti siano stati eletti qua e la’. Così, come tutti i Governi centristi, anche quello attuale si sta occupando di economia, si sicurezza, di efficienza. Alla cultura ci mettono uno qualsiasi.Ma dire che "La Chiesa è una ricchezza per lo Stato" e poi agire come se verità ed errore avessero gli stessi diritti o producessero gli stessi effetti è roba da Prodi.
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