giovedì 10 gennaio 2008

Risanare la sanità italiana: una visione obiettiva dall'interno

I media parlano di loro solo quando fumano nei corridoi o sbagliano un intervento, ma quali sono i problemi che i medici italiani vivono sul campo?

Che problemi si trova oggi ad affrontare un medico? «Non certamente quelli delle quote rosa o dei mozziconi di sigarette», sghignazza Cristiano Hüscher, cardiochirurgo celebre per la sua perizia tecnica e per il carattere focoso e diretto, che attualmente opera all'università del Molise di Isernia. Oggi di ospedali si parla sui giornali per denunciare casi di sporcizia nei corridoi (l'Espresso dopo il caso dell'Umberto I di Roma ha scelto settimana scorsa di raccontare le malefatte del Gaslini di Genova) o la mancanza di donne medico fra i reparti. «Uomo o donna, che importa? La questione è se è preparato o meno», taglia corto Hüscher. Non che l'igiene non sia importante, chiosa, «ma esistono problemi più urgenti e profondi da risolvere se vogliamo una sanità che funzioni». Quali? «La preparazione dei medici. Abbiamo un 10, 20 per cento di dottori preparati, il resto lo potremmo far rientrare nella categoria dei "sindacalizzati e inamovibili". Non disponiamo di incentivi economici per farli lavorare, non possiamo assumerli se non attraverso concorsi pilotati dalla politica». E poi «siamo troppi». Dal suo punto di vista, cioè dal punto di vista di uno che ha eseguito circa 25 mila interventi, Hüscher si domanda: «Come può essere esperto un medico che esegue solo tre, quattro interventi all'anno? Il numero eccessivo di dottori è il frutto amaro del '68, dell'università di massa, e lo sostengo io, che nel '68 ero in piazza a protestare contro i baroni». Oggi Hüscher ha cambiato idea: «Alla Sapienza di Roma avevamo cento primari per dieci malati, un assurdo. Come è un assurdo che in ogni ospedale d'Italia la spesa sia così suddivisa: il 90 per cento per il salario dei dipendenti, il 10 per cento per il materiale e gli strumenti. E quando ci sono problemi di budget che si fa? Si va a tagliare sul 10 per cento». È vero che esistono gli sprechi, «ma con percentuali così diverse è inutile continuare a intervenire solo sulla spesa per gli strumenti, o si mette mano anche ai salari o non c'è futuro». L'avvenire nero prospettato da Hüscher necessita di una rivoluzione. «Ma attenzione, non solo su un piano di gestione o di educazione tecnica: il disastro maggiore che vedo è sul piano morale. C'è una grave carenza di attenzione da parte dei medici alla persona. Quando parlo ai miei studenti di quella "tenerezza" che Giuseppe Moscati diceva essere il primo compito del medico, loro sbadigliano, come se parlassi di questioni d'altri tempi. Vogliono imparare il "come", la tecnica operatoria, ma non ascoltano quando spiego loro il "perché", il motivo e l'atteggiamento da avere di fronte al malato». Demetrio Vidili, primario della Rianimazione all'ospedale Santissima Annunziata di Sassari, la vede così: «L'aspetto più difficoltoso è riuscire a "quantificare" la salute. Esiste la malasanità ed esistono gli sprechi, però mettere sempre al centro come missione dell'ospedale non la salute dei pazienti ma il risparmio comporta una ricaduta negativa sui malati stessi. Se non hai gli strumenti adatti come puoi curare adeguatamente?». Non è l'unica cosa che non va, secondo Vidili: «Una certa burocratizzazione della figura del medico ha avuto come risultato che il dottore oggi passa più tempo a compilare fogli che ad assistere i malati». «Il paradosso è che c'è più gratificazione a operare gratuitamente in Bangladesh che, retribuiti, in Italia». La provocazione è usata da Andrea Di Francesco, chirurgo maxillofacciale all'ospedale Sant'Anna di Como, per spiegare che «purtroppo in Italia l'organizzazione degli ospedali è poco funzionale alla missione del medico». Di Francesco è fondatore e presidente di "Progetto sorriso nel mondo", associazione che da dieci anni opera nei paesi del Terzo Mondo. «Milleottocento interventi e 5 mila prestazioni mi hanno illuminato: in Italia esiste ormai una sovrastruttura burocratica che ostacola il medico, che lo mette in difficoltà nello svolgere il suo lavoro. Non voglio apparire presuntuoso né ho ricette magiche per cambiare la situazione, ma è un fatto che ho trovato più semplice - e operando secondo norme internazionali ben definite e in situazioni spesso molto pericolose - lavorare in Bangladesh che in Italia».
Il presente non è così nero
Per Alberto Dragonetti, otorinolaringoiatra e direttore dell'unità operativa all'ospedale San Giuseppe di Milano, «esistono senz'altro sprechi di risorse ed eccessi di burocratizzazione del sistema, ma il panorama attuale non è così nero. Certo che c'è una sovrastruttura elefantiaca e costosa che deprime la professionalità, ma non ci si può focalizzare solo su ciò che non va. è vero che spesso le risorse sono utilizzate più per sostenere la burocrazia che non la ricerca o l'innovazione ed è vero che oggi il medico è sempre meno "protagonista" all'interno del mondo sanitario, ma dal mio punto di vista non credo sia questo il problema. Esiste un fatto che è insopprimibile e che è il rapporto medico-paziente. Nessuna aziendalizzazione può influire su questo perché chi cura sarà sempre il medico e mai il manager». Quindi, le rogne ci sono «ma, soprattutto in certe realtà, il medico può lavorare e lavorare bene».
Eppure qualcosa da fare ci sarebbe
Pasquale Cannatelli è il direttore generale dell'ospedale Niguarda di Milano. Recentemente, una delle punte di diamante del suo ospedale, il cardiochirurgo Ettore Vitali, ha annunciato che lui, da sempre un "pasdaran del pubblico", lascerà per andare a lavorare nel privato, stanco delle rigidità che il sistema impone. Tuttavia, lo stesso Vitali ha avuto parole di grande elogio per Cannatelli, cui ha riconosciuto intelligenza e abilità nell'amministrare l'ospedale. Cannatelli ringrazia e commenta: «Auguro a Vitali ogni fortuna per la sua sfida professionale. Sicuramente esistono delle rigidità nel sistema pubblico rispetto al privato, ma è anche vero che non tutto il pubblico - soprattutto in Lombardia - è così inefficiente. Quando partecipo a convegni con altri direttori generali di altre regioni e spiego come operiamo in Lombardia mi dicono che io "vengo dalla luna"». Per Cannatelli va ripensato l'ospedale secondo una nuova prospettiva: «Deve diventare il luogo della cura della fase acuta. Le tecnologie attuali ci permettono di intervenire prima sul malato e di seguirlo poi lasciandolo a casa e non dovendolo per forza tenere in un letto dell'ospedale. Viviamo una fase molto delicata: l'innalzamento dell'età media ha portato all'esplosione della spesa sanitaria. In più abbiamo a disposizione certe cure che sono efficaci (penso a certi cicli oncologici), ma anche molto costose». Come tenere in equilibrio costi e prestazioni? «Un modo c'è - dice Cannatelli - ed è la costruzione di una rete che, con altri soggetti, permetta la prevenzione prima e la cura domiciliare poi». è l'uovo di Colombo per quanto riguarda i costi. «Un ospedale in rete fa risparmiare». E anche per quel che riguarda la qualità della cura: «Si va verso un modello più personalizzato, più adeguato alle esigenze del malato».

see u,
Giangiacomo

3 commenti:

G. ha detto...

post numero 300!!

see u,
Giangiacomo

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e

Anonimo ha detto...

imparato molto