C’è stato chi, dalle colonne di un quotidiano, si diceva certo, anzi certissimo, che il Papa non l’avrebbe mai firmato. Chi, seguendo la dottrina Bush, ha combattuto la sua «guerra preventiva» contro un documento di cui non conosceva il contenuto. Chi ha addirittura detto che Papa Ratzinger liberalizzando l’antico messale avrebbe «sbeffeggiato» il Concilio.
Benedetto XVI, con il Motu proprio e la lettera pubblicati ieri, ha preso una decisione coraggiosa e per certi versi epocale, peraltro in linea con le posizioni che aveva espresso negli ultimi vent’anni su questa materia. Non si torna indietro, non si abolisce il Vaticano II.
I timorosi che hanno paventato un tuffo nell’oscurità del passato - come se i cinque secoli durante i quali si è usato il rito di San Pio V fossero una triste parentesi da dimenticare - possono stare tranquilli. Non ci saranno, almeno in Italia, frotte di fedeli agguerriti a bussare alle parrocchie pretendendo le vecchie celebrazioni, e chi va a messa la domenica non si troverà improvvisamente di fronte a liturgie sconosciute e vetuste.
Con una punta di ironia, lo stesso Ratzinger tranquillizza tutti spiegando che l’antico rito «presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina» che «non si trovano tanto di frequente». A nessuno sarà imposto o impedito alcunché, verrà soltanto impedito di impedire la celebrazione secondo il rito antico.Perché, allora, questa decisione, se in fondo riguarda una minoranza di fedeli, peraltro in qualche caso anche portatori di nostalgiche posizioni socio-politiche in stile ancien régime? «Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura», spiega Benedetto XVI, e «si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa».
Il messale antico non è stato mai proibito né mai abolito. Il Papa apre dunque la porta a tutti i tradizionalisti, compresi i fedeli lefebvriani, il cui mancato ritorno alla piena comunione, dopo questo documento, apparirebbe inspiegabile.
È comunque ben strano che chi invoca un giorno sì e l’altro pure maggiore democrazia nella Chiesa non tenga in alcun conto le richieste provenienti dal basso, dai gruppi di fedeli tradizionalisti. Così come è ben strano che chi quotidianamente combatte contro un certo potere clericale, lo invochi per affermare che i tradizionalisti non hanno il diritto alla celebrazione secondo il vecchio rito. Diciamola tutta: i veri «ispiratori» inconsapevoli del Motu proprio sono quei vescovi i quali negli ultimi anni, disattendendo la richiesta di Giovanni Paolo II che li aveva invitati ad essere generosi nell’autorizzare la vecchia messa, hanno opposto rifiuti e in diversi casi non hanno nemmeno voluto parlare con questi fedeli.
Salvo poi concedere, magari, le chiese della diocesi ai «fratelli separati» dell’ortodossia o ai protestanti, incuranti però di quei fratelli «uniti» nella fede anche se portatori di una diversa sensibilità liturgica. È stato detto che questa decisione papale mette a repentaglio l’unità della Chiesa.
In realtà nella Chiesa le diversità, anche liturgiche, sono state sempre considerate una ricchezza e non si vede perché un rito cattolico usato da grandi santi debba essere oggi considerato alla stregua di una pericolosa bomba ad orologeria. Andrebbe poi ricordato che questa preoccupazione per l’unità liturgica non è stata quasi mai invocata quando si è trattato di intervenire di fronte a certi abusi del postconcilio.
Si può dire messa con i burattini, si possono trasformare le liturgie in show, si può ballare e recitare il Padre Nostro con le melodie dei Beatles, si possono cambiare i testi, si può persino omettere parte del canone senza che qualcuno intervenga.
Solo il messale di San Pio V romperebbe l’unità.Quello del Papa è, invece, un atto in linea con le direttive di Giovanni Paolo II, e l’offerta benevola di una maggiore libertà nell’uso del rito antico per favorire la riconciliazione non può che essere bene accolta anche da quanti, come chi scrive, non sono tradizionalisti e si sentono pienamente a loro agio con la nuova messa ben celebrata.
see u,
Giangiacomo
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2 commenti:
Mano tesa di Benedetto XVI ai discepoli di Lefebvre
di Massimo Introvigne (il Giornale, 12 luglio 2007)
Il documento della Congregazione per la dottrina della fede su «alcuni aspetti della dottrina sulla Chiesa» reso pubblico martedì rappresenta la fase due dell’offerta di Benedetto XVI ai seguaci di quella che ha definito la «spaccatura» di monsignor Marcel Lefebvre, l’arcivescovo francese scomparso nel 1991 e capofila dei cosiddetti tradizionalisti. La prima fase era stata il motu proprio di sabato scorso, che liberalizzava la celebrazione della Messa nel rito detto di san Pio V e in lingua latina: ma la questione tradizionalista va al di là della liturgia.
Il disagio dei tradizionalisti nei confronti del Vaticano II ha infatti il suo centro nelle nozioni di libertà religiosa e di ecumenismo. Secondo monsignor Lefebvre, dopo il Concilio la Chiesa cattolica predicherebbe la tesi secondo cui tutte le religioni sono più o meno uguali, con un progressivo scivolamento verso il relativismo. La prova di questo assunto consisterebbe nel fatto che nella costituzione «Lumen gentium» del Vaticano II si afferma al numero 8 che la vera Chiesa «sussiste nella Chiesa cattolica», mentre secondo la dottrina tradizionale l'unica vera Chiesa «è» la Chiesa cattolica. Inoltre prima del Vaticano II, secondo i tradizionalisti, solo la Chiesa cattolica era chiamata «Chiesa» mentre ora sono dette «Chiese» anche quelle ortodosse orientali, separate da Roma, e talora gli stessi protestanti.
Il nuovo documento ora precisa però che il Vaticano II «né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato» la dottrina tradizionale sulla Chiesa. La vera Chiesa «sussiste» - cioè si manifesta - unicamente nella Chiesa cattolica, mentre «è presente» - ma parzialmente, attraverso «elementi di santificazione e di verità» che sono però misti a «carenze» - nelle Chiese e comunità separate. In questo senso la parola «sussiste» non nega, ma sottolinea l’unicità della Chiesa cattolica. Quanto agli altri cristiani, il termine «Chiese» è applicato agli ortodossi, dei quali la Chiesa crede che conservino la successione nell’episcopato, il valido sacerdozio e la valida eucarestia anche se con una «carenza» grave, la separazione dalla comunione con il Papa. Le denominazioni protestanti, che invece non hanno conservato la successione apostolica né un valido sacerdozio, non vanno chiamate «Chiese» ma «comunità».
Dunque, nessun relativismo. Ma neppure nessun passo indietro sull’ecumenismo. Infatti, benché nelle altre Chiese cristiane propriamente non «sussista» l’unica vera Chiesa, esse tuttavia «non sono affatto spoglie di significato e di peso». «Infatti lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza» per cui la Chiesa cattolica non può rinunciare al dialogo ecumenico.
Ai tradizionalisti - dopo la liturgia - Benedetto XVI offre ampie rassicurazioni sulla dottrina tradizionale della Chiesa, del resto già contenute nella dichiarazione «Dominus Iesus» che aveva firmato nel 2000 come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Dà tuttavia anche un avviso ai naviganti che spera siano diretti verso Roma: all’ecumenismo la Santa Sede non intende rinunciare, né è disposta ad ammettere - come vorrebbe qualche tradizionalista - che i documenti del Vaticano II (da non confondere con la loro interpretazione da parte di qualche teologo) contenessero errori. Più in là, onestamente, Benedetto XVI non poteva andare. I tradizionalisti possono scegliere: stringere la mano che è stata loro tesa o imboccare decisamente la via dello scisma.
see u,
Giangiacomo
MAH.
Potrei dilungarmi come faccio spesso dal vivo nello spiegare perchè sarebbe meglio la messa in latino più frequente, e di come io sostanzialemnte al 45% contro le degenerazioni del postconcilio.
Ma sul mezzo scritto non darei il mio meglio.
sbattimento < 0.1 g/L
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