Il giornalista Massimo Gramellini non è certo un uomo di destra. Ma è difficile dargli torto quando, sulla prima pagina de La Stampa del 17 novembre, scrive che quelli proposti da Gianfranco Fini come elenchi dei valori della destra «non erano elenchi, ma frasi fatte». La questione può apparire priva di senso in un’epoca di «dittatura del relativismo» – l’espressione, com’è noto, ricorre spesso nel Magistero di Benedetto XVI – in cui ognuno dà alle parole il significato che più gli aggrada. Il dittatore segreto del mondo che ci circonda è il malvagio Humpty Dumpty di Attraverso lo specchio (1872), il fortunato seguito che Lewis Carroll (1832-1898) diede al suo Alice nel Paese delle meraviglie (1865). Nel sesto capitolo di Attraverso lo specchio troviamo questo dialogo fra Alice e Humpty Dumpty:
«Quando io uso una parola, – disse Humpty Dumpty in tono d'alterigia, – essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno.
- Si tratta di sapere, – disse Alice, – se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
- Si tratta di sapere, – disse Humpty Dumpty, – chi ha da essere il padrone. Questo è tutto».
In questa pagina di grande letteratura troviamo un tema sviluppato da Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona del 2006 e nelle encicliche Spe salvi del 2007 e Caritas in veritate del 2009: o la ragione accetta di farsi misurare dalla verità oppure sarà misurata soltanto dal potere. Che cosa sia la verità o che cosa significa una parola sarà deciso dal «padrone», da chi controlla la comunicazione e i media. Se tutte le parole hanno un padrone, che opera contro la verità, siamo di fronte allo scenario apocalittico evocato da un altro geniale scrittore inglese, don Robert Hugh Benson (1871-1914) nel suo Il Padrone del mondo (1907).
L’Apocalisse e la sacra Scrittura non ci portano lontano dal nostro tema. È qui infatti che troviamo l’origine delle espressioni «destra» e «sinistra». Un commentario alle lettere di san Pietro e alla lettera di san Giuda spiega che dopo l’Ascensione «Cristo è ormai “alla destra” di Dio. Per comprendere tale posizione bisogna ricordare la valenza positiva della “destra” nella Scrittura e nella civiltà antica e il significato negativo della sinistra. […] [Nella Scrittura] la destra assume il significato di lato positivo, fortunato, salvifico, divino, mentre la sinistra assume significato negativo, maledetto e satanico; così i salvati-benedetti saranno collocati da Gesù alla destra e i maledetti alla sinistra (cfr. Mt 25, 31-46)» (Michele Mazzeo, Lettere di Pietro, Lettera di Giuda, Paoline, Milano 2002, p. 141).
Non è dunque un caso se dopo la Rivoluzione francese, restaurata la monarchia, coloro che si opponevano ai principi rivoluzionari andarono a occupare la parte destra dei banchi del Parlamento e coloro che accettavano tali principi o almeno non li condannavano radicalmente la parte sinistra, così dando origine ai moderni concetti politici di «destra» e «sinistra». Agli inizi del secolo XIX che cosa queste parole volessero significare era dunque chiaro. Era di destra chi si opponeva ai principi della Rivoluzione francese. Era di sinistra chi non vi si opponeva.
Ma è necessario un rapido approfondimento. La destra non era costituita da semplici nostalgici della monarchia così com’era esistita prima del 1789. Secondo l’osservazione di un pensatore cattolico della generazione successiva, René de La Tour du Pin (1834-1924), chi avversa la Rivoluzione francese non è interessato a tornare al 1788, perché sa che un anno dopo verrà il 1789. La monarchia del 1788 soffriva già dei morbi dell’assolutismo e del centralismo, che la Rivoluzione non avrebbe curato ma esasperato. L’ordine cristiano della monarchia tradizionale – che è cosa ben diversa dalla monarchia assoluta – riconosceva che sopra al sovrano c’è un limite costituito dalla legge di Dio e dalla legge naturale. Il sovrano non può emanare norme che contraddicano la legge iscritta da Dio nella natura: se lo fa, non si tratta di vere leggi né si è tenuti a rispettarle. Se rispetta questo limite in alto, il sovrano rispetterà anche un limite in basso, costituito dai diritti non del «cittadino» astratto, invenzione dell’Illuminismo, ma delle persone concrete riunite in comunità e corpi intermedi.
La scienza politica formulerà poi questo rispetto del limite in basso come principio di sussidiarietà e come federalismo. Ma non c’è rispetto del limite in basso senza rispetto del limite in alto. La destra si oppone quindi a ogni potere assoluto, solutus ab, sciolto dal limite della legge naturale in alto e quindi sciolta dal limite del rispetto dei diritti delle persone e delle comunità in basso. Come scrive un pensatore cattolico del secolo XX, il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, «l’atteggiamento della “destra” concorda maggiormente con i princìpi di ordine, di gerarchia, di autorità e di disciplina, che contraddistinguono l’ordine medioevale. “Sinistra” significa poi l’allontanarsi da questi princìpi e perciò, ipso facto, l’esser legati ai princìpi opposti» (Prefazione per un’edizione tedesca, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni. Sugarco, Milano 2010, p. 336).
L’«ordine medioevale» però non ha nulla a che fare con la monarchia assoluta, proprio perché non è «assoluto» ma riconosce i limiti in alto e in basso. E la destra non si caratterizza solo per un momento negativo – il rifiuto della Rivoluzione francese, e del processo di allontanamento dalla verità naturale e cristiana che l’ha preceduta e seguita – ma anche per un momento positivo che fa riferimento in alto alla legge naturale, il cui autore è Dio, e in basso ai diritti della persona, dei corpi intermedi e delle comunità locali – di qui il principio di sussidiarietà e la preferenza federalista – garantiti appunto dal rispetto della legge naturale. Le forme di Stato e di governo sono secondarie rispetto a questa definizione di destra, che è primaria. La democrazia, per esempio, può rispettare la legge naturale e il principio di sussidiarietà, ma – come insegna la dottrina sociale della Chiesa, fino a Benedetto XVI – non garantisce affatto in modo automatico tale rispetto.
Se per «Rivoluzione» intendiamo non solo la Rivoluzione francese, ma un processo più ampio che nega la legge naturale iniziato ben prima del 1789 e che continua fino ai nostri giorni, la geografia della politica – continua Corrêa de Oliveira nel brano citato – diventa più chiara. «Vi è stata una Rivoluzione. Anche gli uomini si lasciano classificare secondo tre tendenze: quelli che riconoscono la Rivoluzione – almeno confusamente – e vi si contrappongono: la destra; quelli che sono al corrente della Rivoluzione e la portano a termine rapidamente o lentamente: la sinistra; quelli che non sanno della Rivoluzione in quanto tale, ne percepiscono solo aspetti superficiali e si sforzano, mediante la conservazione dello status quo, di trovare una pacificazione con la Rivoluzione: il centro» (ibid., pp. 336-337). Capita che le necessità della politica impongano alleanze di centro-destra o di centro-sinistra. In tal caso, almeno in tesi, «centro e destra si sforzano di lottare contro la Rivoluzione. Centro e sinistra si sforzano di far progredire la Rivoluzione senza però cadere nell’estremo» (ibid., p. 337).
Ma ben presto arriva Humpty Dumpty, il quale è precisamente qualcuno che pensa di avere un potere «assoluto», sciolto da ogni limite morale, anche sulle parole. Dal momento che la parola «destra», per ragioni che come si è visto sono antiche addirittura quanto la Bibbia, evoca valori che suscitano un certo consenso anche elettorale, a mano a mano che il processo rivoluzionario avanza nascono quelle che Corrêa de Oliveira chiama «false destre». In particolare, nel corso del secolo XIX emerge una prima «falsa destra», costituita da coloro che accettano i principi liberali nella loro versione del 1789 ma rifiutano il socialismo. E con l’affermazione del marxismo-leninismo nel secolo XX nasce anche una seconda «falsa destra», costituita da quei socialisti che rifiutano il comunismo, pur mantenendo fermi numerosi elementi del pensiero socialista. E così via. Le «false destre» sono innumerevoli, perché il loro orizzonte si sposta continuamente. Rifiutano l’ultima fase, la più estrema, del processo rivoluzionario, ma accettano le fasi precedenti. E queste «destre» sono chiamate a buon diritto «false» perché, a ogni generazione, accettano porzioni sempre più grandi dei principi della sinistra.
La questione si complica con il «fusionismo». Spesso si pensa che questa espressione sia nata negli Stati Uniti per designare l’idea di mettere insieme tutte le possibili «destre» per sconfiggere la sinistra. In realtà nacque già tra i monarchici francesi alla fine del secolo XIX, dalla proposta della famiglia Orléans di riunire tutti i monarchici – che fossero cattolici ostili al 1789, liberali disposti a difendere almeno alcuni aspetti della Rivoluzione francese e anche massoni e anticlericali – intorno al comune progetto di restaurare la monarchia in Francia. I fascismi sono, a loro modo, «fusionismi» che cercano di mettere insieme destre diverse: quella vera e quelle false. I cartelli elettorali «fusionisti» spesso funzionano, tanto più nel sistema elettorale degli Stati Uniti. Ma dottrinalmente il «fusionismo» implica un certo relativismo, un certo atteggiamento che fa prevalere l’interesse elettorale sulle idee. E in un clima relativista la falsa destra più omogenea al relativismo fatalmente prevale sulle altre destre e dà il tono a tutto l’insieme. Né va sottovalutata la forza di corruzione del relativismo, nel mettere al suo servizio parole d’ordine apparentemente «di destra», il cui senso è poi sovvertito fino a significare il contrario. «Quando a una parola faccio far tanto lavoro, – disse Humpty Dumpty, – la pago di più» (Attraverso lo specchio, cap. 6).
Che c’entra tutto questo con Gianfranco Fini? C’entra molto, perché chi mi ha seguito fin qui dovrebbe avere ricavato almeno il criterio per distinguere la destra autentica dalle false destre. È vera destra quella che chiede al potere di rispettare un limite in alto costituito dalla legge naturale, quindi – come logica conseguenza – un limite in basso, definito dal principio di sussidiarietà come rispetto da parte dello Stato dei diritti delle persone, dei corpi intermedi e delle autonomie locali. La posizione di Fini è molto confusa quanto al limite in basso. Se talora afferma di non opporsi al federalismo, più spesso difende il centralismo e lo statalismo insieme al pilastro economico che li sorregge, il sistema «tassa e spendi» che caratterizza l’assistenzialismo di Stato.
Come si è visto, c’è un criterio sicuro per prevedere se una certa politica rispetterà il limite in basso. Occorre chiedersi se comincia con il rispettare il limite in alto costituito dal riconoscimento teorico e pratico dell’esistenza di una legge naturale. Nel libro da lui firmato – non importa qui se davvero scritto da lui - Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989 (Rizzoli, Milano 2009) Fini afferma di rifiutare il «dogmatismo […] di tipo religioso» (ibid., 118). Da questo rifiuto fa subito discendere l’affermazione del diritto degli uomini e delle donne all’autodeterminazione in campo bioetico e la forte rivendicazione della posizione a suo tempo assunta in tema di procreazione assistita (ibid., 119), ma anche – perché non si tratta solo di bioetica – un’idea di nazione, quindi di cittadinanza – con riflessi sulla questione degli immigrati – come una realtà dinamica, plastica, plasmabile che continuamente muta e si ridefinisce nel tempo.
A proposito di Eluana Englaro (1970-2009), Fini plaude alla sua soppressione in nome di una presunta «sovranità del singolo […] su se stesso, sulla propria vita e sul proprio lasciare la vita» (ibid., 103). Gli esempi potrebbero continuare – in ogni occasione, Fini insiste sull’urgenza di un riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, anche omosessuali – ma forse non occorre insistere troppo per convincersi che Fini non riconosce nella legge naturale un limite per l’azione dello Stato e delle sue leggi a proposito della vita e della famiglia. Non occorre, come si dice, bere il mare per concludere che è salato.
Non si tratta di problemi secondari: anzi, come ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate sono questi oggi i problemi cruciali della vita sociale e il terreno dove si gioca la battaglia per la definizione della vera libertà e del vero futuro dell’uomo. «Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi – spiega l’enciclica – quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio» (n. 74); «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75). Nel momento in cui Fini ribadisce la sua posizione, antitetica a quella cattolica, sulla fecondazione assistita, sul caso Englaro e sulle unioni omosessuali non sta parlando di questioni marginali, ma del «campo primario e cruciale» della politica.
Non si tratta, naturalmente, di affermare che solo un cattolico o un credente può essere «di destra», né di arruolare la dottrina sociale della Chiesa al servizio delle scelte tecniche di una parte politica, il che sarebbe sbagliato e arbitrario. Certo è un fatto storico che la destra nasce cattolica, ma la legge naturale è accessibile alla ragione umana anche a prescindere dalla fede e quindi s’impone a ogni uomo dotato di retta ragione: che sia credente o non credente, che sia cattolico, ebreo o buddhista. Non si tratta dunque d’indebita ingerenza della Chiesa o del «dogmatismo» religioso – una vecchia espressione massonica, che è significativo vedere ripresa da Fini – ma di riconoscere o meno la legge naturale. Se le parole hanno un senso, e non siamo nel regno di Humty Dumpty, chi riconosce la legge naturale è di destra e chi non la riconosce è di sinistra.
Proprio in tema di fine vita, Fini accusa i sostenitori del mantenimento in vita di Eluana Englaro di essersi mostrati prigionieri di vecchie «linee […] dell’“essere”, vale a dire le linee, in definitiva rassicuranti ma immobili, dell’“identità”» (ibid., 103), mentre si tratta di passare alle «linee contemporanee del “fare”» (ibid.), a una politica giudicata «per ciò che realizza» e non «per ciò che rappresenta» (ibid.). «In principio era l’azione», per dirla con il Faust di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) e con i futuristi tanto cari a Fini. Ma per la vera destra in principio era il Verbo, cioè la verità, e Faust non è un modello ma una semplice vittima del Diavolo.
Né si tratta solo di bioetica, perché quelle di Fini sulla vita e sulla famiglia sono applicazioni di principi generali sull’autodeterminazione, e su una libertà svincolata da una legge morale naturale e non negoziabile, che emergono anche in altri campi. L’evocazione della libertà e del futuro non è specificamente «di destra». Né lo è quella della legalità come obbedienza formale alla legge, a meno che sia accompagnata dalla chiara affermazione secondo cui le leggi che non rispettano i principi del diritto naturale non sono vere leggi. Inoltre, il rispetto della legge naturale e del principio di sussidiarietà non può non accompagnarsi a un giudizio storico preciso su chi ha costruito una politica che ha teorizzato la negazione di quella legge e di quel principio, dai padri della Rivoluzione francese a molti di quelli del Risorgimento, ideologia statalista e centralista da tenere distinta dal fatto storico dell’unità politica dell’Italia. I giudizi storici di Fini vanno precisamente in senso contrario.
In un contesto democratico nessuno può naturalmente vietare a Fini di presentare le sue idee e i suoi programmi all’attenzione degli elettori. Si può però contestare la sua pretesa di spacciarli come «di destra». E si può – anzi, si deve – svolgere un’opera pedagogica che richiami le nozioni di vera e di falsa destra. Humpty Dumpty, quando pretende che il significato delle parole sia indipendente dalla realtà e sia diventato una questione di puro potere, non è soltanto grottesco ma è anche pericoloso. Va combattuto seriamente. Alimentando la speranza con la filastrocca che Alice «ripeteva dolcemente a se stessa:
Humpty Dumpty sedeva sul muro,
Humpty Dumpty cascò sul duro,
tutti i fanti che accorsero tosto
non seppero alzarlo e rimetterlo a posto» (Attraverso lo specchio, cap. 6).
(17 novembre 2010)
see u,
Giangiacomo
domenica 21 novembre 2010
domenica 14 novembre 2010
che sta succedendo?
Copio spudoratamente da http://www.stranocristiano.it/2010/11/che-sta-succedendo/
Che sta succedendo?
Vediamo di semplificare.
1.La prossima settimana in parlamento si decideranno le sorti della legislatura: il PD e IdV presenteranno una mozione di sfiducia alla Camera, e pare che il neo-terzo polo, FLI (Fini) Udc (Casini) e API (Rutelli) ,ne presenterà un’altra, e dovrà comunque decidere come votare su quella della sinistra. Il PdL, da parte sua, presenterà una mozione di fiducia al Senato. Sarà una gara a chi approva per primo la sua…
2.NON VOGLIONO le elezioni: il grosso del Pd, i finiani, Udc. Questi vorrebbero un governo cosiddetto tecnico, lo chiamano così come se i componenti potessero essere, che so, elettricisti, idraulici, metalmeccanici… tutti rigorosamente apolitici, marziani scesi all’improvviso sul pianeta. In verità questi vogliono un governo fatto da loro stessi, che hanno perso le elezioni, e vogliono che rimanga fuori chi le ha vinte, e cioè Berlusconi. Una grande lezione di democrazia …. ma d’altra parte, che ci si può aspettare da quelli che fino a due mesi fa andavano in gita a Predappio?
3.La scusa della riforma elettorale, che vogliono quelli del cosiddetto “governo tecnico”, è semplice: vogliono fare una riforma che faccia entrare in parlamento i loro partitini, per impedire a Berlusconi di governare. Non è in gioco il bene del paese, ma la loro sopravvivenza politica: una riforma elettorale su misura per Fini&Casini&D’Alema: ancora però non riescono a mettersi d’accordo su quale debba essere, perchè ognuno la vuole adatta al suo partito in particolare. Insomma, vogliono il “governo tecnico” per fare la cosa più politica che c’è: una riforma elettorale.
4.VOGLIONO le elezioni: PdL e Lega, e pure Vendola e Renzi del Pd. Se si andasse adesso al voto, Berlusconi vincerebbe ancora, e Fini andrebbe a fare definitivamente l’uncinetto con la Tulliani e la suocera, magari pure nel tinello della casa di Montecarlo, dove il cognatino lo aspetta fiducioso…..
5.Napolitano difficilmente può fare un governo “tecnico” tenendo fuori del tutto PdL e Lega: se adesso Berlusconi e Lega fossero sbattuti all’opposizione e Fini & Udc & Pd al governo, alle prime elezioni Berlusconi e Lega prenderebbero almeno il 75% e Fini&Casini&D’Alema sarebbero pronti per l’uncinetto collettivo e perenne….
Da segnalare, a futura memoria:
- Fini e i suoi vogliono sfasciare tutto, e la colpa di questa crisi gravissima è tutta la loro. Ma ve lo immaginate un governo con Bocchino e Granata ministri? E magari Fini premier, e la Tulliani “first lady”? Vediamo chi si imbarazza, poi…..
- Pierferdinando Casini, che governa con il Pd e pure con IdV in giro per l’Italia, dopo essersi alleato pure con la Bresso, adesso è d’amore e d’accordo con Fini, quello che ha promesso di rendere moderna l’Italia con il riconoscimento delle coppie di fatto e con i cosiddetti “diritti civili”. E si aspetta pure i voti cattolici? E Buttiglione, che si è arrampicato sugli specchi per spiegare l’alleanza con la Bresso, che si inventa adesso per giustificare quella con Fini?
- La faccenda di Ruby è finita nel niente, come era facile immaginare
- Tutti contro Berlusconi, a cominciare dalla Tv di stato: v.Fazio & Saviano, che adesso ospitano pure Bersani&Fini. Ma d’altra parte, si sa: comunisti e fascisti, due facce della stessa medaglia sono.
E intanto il nostro paese deve andare avanti…
see u,
Giangiacomo
Che sta succedendo?
Vediamo di semplificare.
1.La prossima settimana in parlamento si decideranno le sorti della legislatura: il PD e IdV presenteranno una mozione di sfiducia alla Camera, e pare che il neo-terzo polo, FLI (Fini) Udc (Casini) e API (Rutelli) ,ne presenterà un’altra, e dovrà comunque decidere come votare su quella della sinistra. Il PdL, da parte sua, presenterà una mozione di fiducia al Senato. Sarà una gara a chi approva per primo la sua…
2.NON VOGLIONO le elezioni: il grosso del Pd, i finiani, Udc. Questi vorrebbero un governo cosiddetto tecnico, lo chiamano così come se i componenti potessero essere, che so, elettricisti, idraulici, metalmeccanici… tutti rigorosamente apolitici, marziani scesi all’improvviso sul pianeta. In verità questi vogliono un governo fatto da loro stessi, che hanno perso le elezioni, e vogliono che rimanga fuori chi le ha vinte, e cioè Berlusconi. Una grande lezione di democrazia …. ma d’altra parte, che ci si può aspettare da quelli che fino a due mesi fa andavano in gita a Predappio?
3.La scusa della riforma elettorale, che vogliono quelli del cosiddetto “governo tecnico”, è semplice: vogliono fare una riforma che faccia entrare in parlamento i loro partitini, per impedire a Berlusconi di governare. Non è in gioco il bene del paese, ma la loro sopravvivenza politica: una riforma elettorale su misura per Fini&Casini&D’Alema: ancora però non riescono a mettersi d’accordo su quale debba essere, perchè ognuno la vuole adatta al suo partito in particolare. Insomma, vogliono il “governo tecnico” per fare la cosa più politica che c’è: una riforma elettorale.
4.VOGLIONO le elezioni: PdL e Lega, e pure Vendola e Renzi del Pd. Se si andasse adesso al voto, Berlusconi vincerebbe ancora, e Fini andrebbe a fare definitivamente l’uncinetto con la Tulliani e la suocera, magari pure nel tinello della casa di Montecarlo, dove il cognatino lo aspetta fiducioso…..
5.Napolitano difficilmente può fare un governo “tecnico” tenendo fuori del tutto PdL e Lega: se adesso Berlusconi e Lega fossero sbattuti all’opposizione e Fini & Udc & Pd al governo, alle prime elezioni Berlusconi e Lega prenderebbero almeno il 75% e Fini&Casini&D’Alema sarebbero pronti per l’uncinetto collettivo e perenne….
Da segnalare, a futura memoria:
- Fini e i suoi vogliono sfasciare tutto, e la colpa di questa crisi gravissima è tutta la loro. Ma ve lo immaginate un governo con Bocchino e Granata ministri? E magari Fini premier, e la Tulliani “first lady”? Vediamo chi si imbarazza, poi…..
- Pierferdinando Casini, che governa con il Pd e pure con IdV in giro per l’Italia, dopo essersi alleato pure con la Bresso, adesso è d’amore e d’accordo con Fini, quello che ha promesso di rendere moderna l’Italia con il riconoscimento delle coppie di fatto e con i cosiddetti “diritti civili”. E si aspetta pure i voti cattolici? E Buttiglione, che si è arrampicato sugli specchi per spiegare l’alleanza con la Bresso, che si inventa adesso per giustificare quella con Fini?
- La faccenda di Ruby è finita nel niente, come era facile immaginare
- Tutti contro Berlusconi, a cominciare dalla Tv di stato: v.Fazio & Saviano, che adesso ospitano pure Bersani&Fini. Ma d’altra parte, si sa: comunisti e fascisti, due facce della stessa medaglia sono.
E intanto il nostro paese deve andare avanti…
see u,
Giangiacomo
1932, quando Topolino diventò massone
di Massimo Introvigne (Avvenire, 13 novembre 2010)
Il numero 34 della collezione – preziosa per l’attenta ricostruzione filologica – Gli anni d’oro di Topolino, pubblicata dalla RCS Quotidiani e intesa a ripresentare in italiano tutto il Topolino di Floyd Gottfredson (1905-1986), fa cenno, riproducendone la tavola iniziale, a una serie del tutto ignota in Italia. Si tratta di Mickey Mouse Chapter, realizzata a partire dal dicembre 1932 da un animatore e disegnatore della Walt Disney, Fred Spencer (1904-1938). La peculiarità di questa serie di Topolino è che è apparsa su una pubblicazione massonica, l’International DeMolay Cordon, e che in queste storie a fumetti il topo più famoso del mondo aderisce all’organizzazione giovanile della massoneria, anzi ne fonda una loggia.
Che cosa era successo? La massoneria degli Stati Uniti si è preoccupata per tempo del reclutamento delle nuove leve, fondando nel 1919 a Kansas City l’Ordine Internazionale di DeMolay, aperto ai ragazzi dai 12 ai 21 anni, cui sono insegnati i principi massonici e che li prepara a un’eventuale adesione alla massoneria. Se la simbologia è patriottica e vagamente cavalleresca, profondamente massonico è il riferimento ai templari e al loro Gran Maestro Jacques de Molay (ca. 1240-1250-1314). Molti storici pensano che de Molay fosse in realtà un buon cattolico, ingiustamente calunniato e mandato a morire sul rogo dal re di Francia Filippo il Bello (1268-1314), che – forse bello, ma certamente squattrinato – voleva impadronirsi delle favolose ricchezze dei templari. Ma nella simbologia massonica settecentesca e ottocentesca de Molay diventa – in modo piuttosto anacronistico – un campione del libero pensiero, vittima dell’alleanza della monarchia di Francia e della Chiesa Cattolica, e i massoni s’impegnano a vendicarlo combattendo i troni e gli altari. Questi riferimenti mostrano come l’organizzazione giovanile della massoneria – che conta ancora oggi diciottomila membri, in cui si è formato per esempio Bill Clinton, e che ha una sua piccola filiale anche in Italia – non sia completamente innocua.
È nota l’appartenenza massonica di Walt Disney (1901-1966). Meno noti sono l’entusiasmo con cui egli accompagnò le prime attività dell’Ordine DeMolay, e la sua amicizia con il fondatore di questa massoneria per ragazzi, l’imprenditore Frank Sherman Lang (1890-1959). Fino a quando compì quarant’anni, benché fosse ormai fuori età, Disney continuò a portare con orgoglio al dito l’anello dell’Ordine DeMolay. Assunse pure come animatore un altro ex-membro del DeMolay, appunto Fred Spencer, il quale – con l’approvazione dello stesso Disney – nel dicembre 1932 iniziò a disegnare tavole con Topolino, di specifico orientamento massonico, per l’International DeMolay Cordon il quale, nonostante il nome pomposo, era poco più che un bollettino dell’Ordine.
Qui comincia una sorta di mistero, perché – benché anche produzioni minori siano sempre state archiviate dalla Disney – di questa serie “segreta” non c’è traccia negli archivi della Walt Disney Company, e lo stesso Ordine DeMolay dichiara di non avere conservato la collezione del bollettino. Gli storici disneyani, che non sono pochi, sono stati in grado finora di recuperarne solo tre tavole. Nella prima Topolino con alcuni amici, fra cui Orazio, fonda un chapter (“capitolo”, l’equivalente di quella che per gli adulti è una loggia), del DeMolay. Nella seconda e nella terza Pluto fa irruzione in una riunione di loggia, creando notevole scompiglio. S’ignora perfino quando la serie sia finita, probabilmente già molto prima della tragica morte di Spencer in un incidente stradale nel 1938.
Sbaglierebbe chi da questo curioso episodio – e dalla dichiarata passione di Disney per la massoneria – volesse ricavare un giudizio su tutta la produzione disneyana come ispirata ai valori massonici. Da una parte, Disney si è limitato alla supervisione di prodotti confezionati da numerosi artisti, di diversissime sensibilità. Molti dei principali disegnatori e sceneggiatori disneyani non solo non erano massoni ma s’ispiravano a valori piuttosto conservatori e anche esplicitamente cristiani. Dall’altra, nella California dell’epoca in cui Disney diventa massone, negli anni 1920, i membri delle logge sfioravano i centomila. Questo significa che essere massoni – al di fuori dei cattolici, ben consapevoli della condanna della Chiesa – in California non era riservato a un’élite: era del tutto comune per i borghesi, e anche per i piccoli borghesi di successo. Una forma – lo hanno notato storici delle idee come Margaret Jacobs – di “sociabilità diffusa”, pur sempre massonica come dimostrano i simboli scelti ma lontana dalla forte caratterizzazione ideologica delle logge italiane o francesi dell’epoca. Tranne che nella serie “sparita” di Fred Spencer Topolino, dunque, non è massone, e l’affiliazione massonica del suo creatore non è penetrata nelle storie, specie quelle delle origini, scritte da non massoni e ricche di valori morali, oltre che di delicatezza e di poesia. La serie DeMolay resta dunque solo una curiosità.
see u,
Giangiacomo
Il numero 34 della collezione – preziosa per l’attenta ricostruzione filologica – Gli anni d’oro di Topolino, pubblicata dalla RCS Quotidiani e intesa a ripresentare in italiano tutto il Topolino di Floyd Gottfredson (1905-1986), fa cenno, riproducendone la tavola iniziale, a una serie del tutto ignota in Italia. Si tratta di Mickey Mouse Chapter, realizzata a partire dal dicembre 1932 da un animatore e disegnatore della Walt Disney, Fred Spencer (1904-1938). La peculiarità di questa serie di Topolino è che è apparsa su una pubblicazione massonica, l’International DeMolay Cordon, e che in queste storie a fumetti il topo più famoso del mondo aderisce all’organizzazione giovanile della massoneria, anzi ne fonda una loggia.
Che cosa era successo? La massoneria degli Stati Uniti si è preoccupata per tempo del reclutamento delle nuove leve, fondando nel 1919 a Kansas City l’Ordine Internazionale di DeMolay, aperto ai ragazzi dai 12 ai 21 anni, cui sono insegnati i principi massonici e che li prepara a un’eventuale adesione alla massoneria. Se la simbologia è patriottica e vagamente cavalleresca, profondamente massonico è il riferimento ai templari e al loro Gran Maestro Jacques de Molay (ca. 1240-1250-1314). Molti storici pensano che de Molay fosse in realtà un buon cattolico, ingiustamente calunniato e mandato a morire sul rogo dal re di Francia Filippo il Bello (1268-1314), che – forse bello, ma certamente squattrinato – voleva impadronirsi delle favolose ricchezze dei templari. Ma nella simbologia massonica settecentesca e ottocentesca de Molay diventa – in modo piuttosto anacronistico – un campione del libero pensiero, vittima dell’alleanza della monarchia di Francia e della Chiesa Cattolica, e i massoni s’impegnano a vendicarlo combattendo i troni e gli altari. Questi riferimenti mostrano come l’organizzazione giovanile della massoneria – che conta ancora oggi diciottomila membri, in cui si è formato per esempio Bill Clinton, e che ha una sua piccola filiale anche in Italia – non sia completamente innocua.
È nota l’appartenenza massonica di Walt Disney (1901-1966). Meno noti sono l’entusiasmo con cui egli accompagnò le prime attività dell’Ordine DeMolay, e la sua amicizia con il fondatore di questa massoneria per ragazzi, l’imprenditore Frank Sherman Lang (1890-1959). Fino a quando compì quarant’anni, benché fosse ormai fuori età, Disney continuò a portare con orgoglio al dito l’anello dell’Ordine DeMolay. Assunse pure come animatore un altro ex-membro del DeMolay, appunto Fred Spencer, il quale – con l’approvazione dello stesso Disney – nel dicembre 1932 iniziò a disegnare tavole con Topolino, di specifico orientamento massonico, per l’International DeMolay Cordon il quale, nonostante il nome pomposo, era poco più che un bollettino dell’Ordine.
Qui comincia una sorta di mistero, perché – benché anche produzioni minori siano sempre state archiviate dalla Disney – di questa serie “segreta” non c’è traccia negli archivi della Walt Disney Company, e lo stesso Ordine DeMolay dichiara di non avere conservato la collezione del bollettino. Gli storici disneyani, che non sono pochi, sono stati in grado finora di recuperarne solo tre tavole. Nella prima Topolino con alcuni amici, fra cui Orazio, fonda un chapter (“capitolo”, l’equivalente di quella che per gli adulti è una loggia), del DeMolay. Nella seconda e nella terza Pluto fa irruzione in una riunione di loggia, creando notevole scompiglio. S’ignora perfino quando la serie sia finita, probabilmente già molto prima della tragica morte di Spencer in un incidente stradale nel 1938.
Sbaglierebbe chi da questo curioso episodio – e dalla dichiarata passione di Disney per la massoneria – volesse ricavare un giudizio su tutta la produzione disneyana come ispirata ai valori massonici. Da una parte, Disney si è limitato alla supervisione di prodotti confezionati da numerosi artisti, di diversissime sensibilità. Molti dei principali disegnatori e sceneggiatori disneyani non solo non erano massoni ma s’ispiravano a valori piuttosto conservatori e anche esplicitamente cristiani. Dall’altra, nella California dell’epoca in cui Disney diventa massone, negli anni 1920, i membri delle logge sfioravano i centomila. Questo significa che essere massoni – al di fuori dei cattolici, ben consapevoli della condanna della Chiesa – in California non era riservato a un’élite: era del tutto comune per i borghesi, e anche per i piccoli borghesi di successo. Una forma – lo hanno notato storici delle idee come Margaret Jacobs – di “sociabilità diffusa”, pur sempre massonica come dimostrano i simboli scelti ma lontana dalla forte caratterizzazione ideologica delle logge italiane o francesi dell’epoca. Tranne che nella serie “sparita” di Fred Spencer Topolino, dunque, non è massone, e l’affiliazione massonica del suo creatore non è penetrata nelle storie, specie quelle delle origini, scritte da non massoni e ricche di valori morali, oltre che di delicatezza e di poesia. La serie DeMolay resta dunque solo una curiosità.
see u,
Giangiacomo
giovedì 11 novembre 2010
Gordon Gekko, Wall Street
Una volta vinci e una volta perdi. Ma continui a combattere!
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Giangiacomo
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Giangiacomo
domenica 7 novembre 2010
Rom: sono un problema!
Colgo l'occasione di uno spunto datomi da una persona che NON stimo, per sottolineare quanta ipocrisia, demagogia e moralismo ci sia nelle persone che tentano di difendere i Rom senza se e senza ma.
I Rom non lavorano.
Quindi per continuare a vivere (e a procrearsi purtroppo) saccheggiano i cassoni dell'immondizia o rubano. La prima modalità è sotto gli occhi di tutti gli abitanti di San Salvario a Torino. Alle 7.30 am arrivano in squadre, aprono i cassoni, squarciano i sacchetti dell'immondizia alla ricerca di qualcosa utile per loro, lasciano aperti i cassettoni così che l'odore possa diffondersi per le strade e passano a quello successivo. La seconda modalità è sotto gli occhi di poliziotti e di alcuni amici politici che recentemente hanno fatto visita ai loro campi nelle periferie delle strade: rame, oro, tv, cellulari... tutti natualmente rubati!!
Sarkozy si è mosso in modo corretto: da un punto di vista nazionalistico e di bene comune, per sconfiggere il male (impossibile purtroppo), ha iniziato a combattere piccoli pezzi di quest'ultimo. Prima analizzando le banlieus, poi quest'estate con i Rom.
Quale altro strumento era possibile se continuano a non capire? quale altro strumento era possibile se continuano a voler vivere in un modo primitivo, neanche vicino a quella che è una situazione umana accettabile? Non ditemi che si è contenti in qualche modo a vivere in mezzo ai topi, a vedere i bambini con le orecchie morsicate nella notte da roditori, con bambini che non si lavano se non in fiumi già sporchi e inquinati, che non apprezzano l'educazione e non mandano i propri figli a scuola (gratis grazie al nostro welfare state assistenzialista!!)!!!!!!!!
NON SONO CONVENZIONI DELLA SOCIETA' ATTUALE, ma BUON COSTUME!
C'è ancora chi parla di popoli che devono andare rispettati, di finezza, profondità e sofferenza. Bene. Sono tutti elementi che hanno anche gli andalusiani, i napoletani, i baschi: qualsiasi popolo del mondo. Ma non mi sembra che questi non si siano integrati o rubino quotidianamente!
I soliti falsi e ipocriti...
see u,
Giangiacomo
C'è chi
I Rom non lavorano.
Quindi per continuare a vivere (e a procrearsi purtroppo) saccheggiano i cassoni dell'immondizia o rubano. La prima modalità è sotto gli occhi di tutti gli abitanti di San Salvario a Torino. Alle 7.30 am arrivano in squadre, aprono i cassoni, squarciano i sacchetti dell'immondizia alla ricerca di qualcosa utile per loro, lasciano aperti i cassettoni così che l'odore possa diffondersi per le strade e passano a quello successivo. La seconda modalità è sotto gli occhi di poliziotti e di alcuni amici politici che recentemente hanno fatto visita ai loro campi nelle periferie delle strade: rame, oro, tv, cellulari... tutti natualmente rubati!!
Sarkozy si è mosso in modo corretto: da un punto di vista nazionalistico e di bene comune, per sconfiggere il male (impossibile purtroppo), ha iniziato a combattere piccoli pezzi di quest'ultimo. Prima analizzando le banlieus, poi quest'estate con i Rom.
Quale altro strumento era possibile se continuano a non capire? quale altro strumento era possibile se continuano a voler vivere in un modo primitivo, neanche vicino a quella che è una situazione umana accettabile? Non ditemi che si è contenti in qualche modo a vivere in mezzo ai topi, a vedere i bambini con le orecchie morsicate nella notte da roditori, con bambini che non si lavano se non in fiumi già sporchi e inquinati, che non apprezzano l'educazione e non mandano i propri figli a scuola (gratis grazie al nostro welfare state assistenzialista!!)!!!!!!!!
NON SONO CONVENZIONI DELLA SOCIETA' ATTUALE, ma BUON COSTUME!
C'è ancora chi parla di popoli che devono andare rispettati, di finezza, profondità e sofferenza. Bene. Sono tutti elementi che hanno anche gli andalusiani, i napoletani, i baschi: qualsiasi popolo del mondo. Ma non mi sembra che questi non si siano integrati o rubino quotidianamente!
I soliti falsi e ipocriti...
see u,
Giangiacomo
C'è chi
lunedì 1 novembre 2010
Ti amo campionato...
Per chi non se lo ricordasse...
http://www.youtube.com/watch?v=UIy4PLw3bJw
ne vale la pena!
see u,
Giangiacomo
http://www.youtube.com/watch?v=UIy4PLw3bJw
ne vale la pena!
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Giangiacomo
domenica 10 ottobre 2010
La contraddizione non risolta tra autonomia e “personalismi”
Il vero nodo resta quello tra economia e politica. La contraddizione non risolta tra autonomia e “personalismi”
L’articolo è stato pubblicato sul “Liberal” del 30 settembre 2010
Le dimissioni al buio di Alessandro Profumo da AD di Unicredit sono oggetto di analisi da parte di economisti e di opinionisti di tutto il mondo. Il casus belli – quanto meno quello esplicito – è noto a tutti: il disaccordo sulla presenza dei libici nel comparto azionario del colosso bancario di Piazza Cordusio. A questo punto, coloro che hanno tentato di ricostruire la vicenda nei minimi particolari avanzano sospetti, individuano collegamenti politico-affaristi, disegnano scenari fantapolitici, fantafinanziari e comunque si adoperano nell’antica arte retroscenista, condita della migliore salsa al sapor di complotto.
Non che le ricostruzioni non ci interessino e che non presentino forti elementi di plausibilità, ma crediamo che si possa cogliere questa occasione per tentare una riflessione sui limiti e sui presupposti del mercato. In fondo, coloro che difendono la strategia di Profumo argomentano le loro ragioni sostenendo la superiorità del mercato rispetto agli interessi della politica; e, a maggior ragione, degli interessi di alcune roccaforti partitiche locali (vedi F. Giavazzi). D’altra parte, coloro che hanno denunciato i pericoli derivanti dalla strategia accentratrice perseguita da Profumo e dalla crescente presenza di fondi libici, non possono neppure essere liquidati sic et simpliciter come miopi profittatori di clientele locali; a conti fatti, il mercato è un intreccio di istituzioni che nascono dal basso, esso mal tollera soluzioni centralistiche, nonché l’inserimento di elementi che per ragioni di ordine politico e culturale si mostrano inesorabilmente ostili alla libertà e non conformi alla stessa struttura del mercato.
In definitiva, riteniamo che il mercato affinché possa svolgere la sua funzione di sistema ottimale delle risorse è necessario che riconosca alcuni limiti e presupposti. In questo caso, a partire dalla prospettiva dell’economia sociale di mercato che incontra la Dottrina sociale della Chiesa, la domanda che ci poniamo non è tanto se debba essere il mercato ovvero la politica ad orientare le scelte nel campo finanziario, invero – come ci ha ricordato Benedetto XVI – non spetterebbe né all’una né all’altra, in quanto tale compito spetterebbe all’etica. La domanda che ci poniamo è la seguente: quali istituzioni appaiono necessarie affinché il mercato possa continuare a svolgere il suo ruolo?
In altre parole, la presenza di un fondo sovrano (fuori dalla logica del mercato) libico (fuori dalla logica democratica e liberale) è conforme ai principi che stanno alla base del libero mercato ovvero lo minano alle fondamenta? Ed ancora, l’irritazione palese di alcuni ambienti politici del Nord è autenticamente giustificata sulla base del principio che le realtà locali detengono una quota naturale (stakeholder) nel novero degli interessi di un gruppo bancario come Unicredit? Ovvero si tratterebbe di un’indebita ingerenza della politica? In breve, tali domande evidenziano due ordini di problemi. In primo luogo, può il mercato sopravvivere in qualsiasi contesto etico, politico e culturale ovvero è funzione di determinate istituzioni che lo presuppongono e lo pongono in essere? Ed in secondo luogo, è corretto identificare il sistema partitico con la società civile ovvero si tratta di un processo attraverso il quale il centralismo del primo intende fagocitare il pluralismo della seconda? È nostra sommessa opinione che il mercato necessiti di istituzioni economiche, politiche e culturali che lo presuppongano e che la presenza di un fondo sovrano che non risponda alle logiche del mercato, per di più riferibile ad un’autorità politica dispotica come quella libica, rappresenti una grave minaccia al buon funzionamento del mercato. Così come la pretesa di rappresentare gli interessi locali non può essere appaltata in modo esclusivo ad alcun partito politico.
Le dimissioni di Profumo sono la dimostrazione di quanto gli operatori del sistema finanziario e del sistema politico nel nostro Paese siano preda di una pericolosa schizofrenia in forza della quale libertà, democrazia e partecipazione sono rivendicate in nome di un particolarismo settario e clientelare e, nel contempo, da altri, le ragioni del mercato vengono difese come elementi metafisici che si danno da sé e non come il prodotto di una complessa rete istituzionale i cui presupposti sono di ordine etico e cultuale.
Flavio Felice – Presidente Centro Studi Tocqueville-Acton e Adjunct Fellow Amercian Enterprise Institute
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Giangiacomo
L’articolo è stato pubblicato sul “Liberal” del 30 settembre 2010
Le dimissioni al buio di Alessandro Profumo da AD di Unicredit sono oggetto di analisi da parte di economisti e di opinionisti di tutto il mondo. Il casus belli – quanto meno quello esplicito – è noto a tutti: il disaccordo sulla presenza dei libici nel comparto azionario del colosso bancario di Piazza Cordusio. A questo punto, coloro che hanno tentato di ricostruire la vicenda nei minimi particolari avanzano sospetti, individuano collegamenti politico-affaristi, disegnano scenari fantapolitici, fantafinanziari e comunque si adoperano nell’antica arte retroscenista, condita della migliore salsa al sapor di complotto.
Non che le ricostruzioni non ci interessino e che non presentino forti elementi di plausibilità, ma crediamo che si possa cogliere questa occasione per tentare una riflessione sui limiti e sui presupposti del mercato. In fondo, coloro che difendono la strategia di Profumo argomentano le loro ragioni sostenendo la superiorità del mercato rispetto agli interessi della politica; e, a maggior ragione, degli interessi di alcune roccaforti partitiche locali (vedi F. Giavazzi). D’altra parte, coloro che hanno denunciato i pericoli derivanti dalla strategia accentratrice perseguita da Profumo e dalla crescente presenza di fondi libici, non possono neppure essere liquidati sic et simpliciter come miopi profittatori di clientele locali; a conti fatti, il mercato è un intreccio di istituzioni che nascono dal basso, esso mal tollera soluzioni centralistiche, nonché l’inserimento di elementi che per ragioni di ordine politico e culturale si mostrano inesorabilmente ostili alla libertà e non conformi alla stessa struttura del mercato.
In definitiva, riteniamo che il mercato affinché possa svolgere la sua funzione di sistema ottimale delle risorse è necessario che riconosca alcuni limiti e presupposti. In questo caso, a partire dalla prospettiva dell’economia sociale di mercato che incontra la Dottrina sociale della Chiesa, la domanda che ci poniamo non è tanto se debba essere il mercato ovvero la politica ad orientare le scelte nel campo finanziario, invero – come ci ha ricordato Benedetto XVI – non spetterebbe né all’una né all’altra, in quanto tale compito spetterebbe all’etica. La domanda che ci poniamo è la seguente: quali istituzioni appaiono necessarie affinché il mercato possa continuare a svolgere il suo ruolo?
In altre parole, la presenza di un fondo sovrano (fuori dalla logica del mercato) libico (fuori dalla logica democratica e liberale) è conforme ai principi che stanno alla base del libero mercato ovvero lo minano alle fondamenta? Ed ancora, l’irritazione palese di alcuni ambienti politici del Nord è autenticamente giustificata sulla base del principio che le realtà locali detengono una quota naturale (stakeholder) nel novero degli interessi di un gruppo bancario come Unicredit? Ovvero si tratterebbe di un’indebita ingerenza della politica? In breve, tali domande evidenziano due ordini di problemi. In primo luogo, può il mercato sopravvivere in qualsiasi contesto etico, politico e culturale ovvero è funzione di determinate istituzioni che lo presuppongono e lo pongono in essere? Ed in secondo luogo, è corretto identificare il sistema partitico con la società civile ovvero si tratta di un processo attraverso il quale il centralismo del primo intende fagocitare il pluralismo della seconda? È nostra sommessa opinione che il mercato necessiti di istituzioni economiche, politiche e culturali che lo presuppongano e che la presenza di un fondo sovrano che non risponda alle logiche del mercato, per di più riferibile ad un’autorità politica dispotica come quella libica, rappresenti una grave minaccia al buon funzionamento del mercato. Così come la pretesa di rappresentare gli interessi locali non può essere appaltata in modo esclusivo ad alcun partito politico.
Le dimissioni di Profumo sono la dimostrazione di quanto gli operatori del sistema finanziario e del sistema politico nel nostro Paese siano preda di una pericolosa schizofrenia in forza della quale libertà, democrazia e partecipazione sono rivendicate in nome di un particolarismo settario e clientelare e, nel contempo, da altri, le ragioni del mercato vengono difese come elementi metafisici che si danno da sé e non come il prodotto di una complessa rete istituzionale i cui presupposti sono di ordine etico e cultuale.
Flavio Felice – Presidente Centro Studi Tocqueville-Acton e Adjunct Fellow Amercian Enterprise Institute
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Giangiacomo
Ripartire da Aldo Moro
L’articolo è apparso su “Liberal” del 5 ottobre 2010
Circa trentacinque anni fa, tra le elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976, Aldo Moro comprese che erano ormai maturate le condizioni per il passaggio alla «terza fase». Essa doveva vedere lo sviluppo di nuove relazioni tanto tra sistema politico e società quanto tra attori politici. In sintesi: meno pervasività della politica nel primo caso, più competizione politica e meno centralismo nel secondo.
Tutto ciò era possibile perché il Paese era cresciuto, del Paese era cresciuta la politica, ma anche l’economia e la cultura. I cattolici erano stati protagonisti tanto della prima dimensione quanto della seconda.
Rispetto a trentacinque anni fa, completare quella transizione ci appare oggi compito non solo politico, ma anche politico, poiché la politica deve ad un tempo ritrarsi e riformarsi.
Ciò che ostacola il formarsi di una nuova generazione di politici cattolici non è la scomparsa delle vecchie forme, ma il tardare dell’affermarsi di nuove forme, di forme nuove nella relazione tra politica e società, di forme nuove nella regolazione di una maggiore competizione politica, di forme nuove di organizzazione della partecipazione politica.
Senza alcuna pretesa di esaustività, da questa ultima affermazione possono essere enucleati quattro punti. Per un verso o per l’altro, mi pare che questi temi siano stati toccati in modo molto coraggioso da alcuni recenti interventi su questo giornale di Rocco Buttiglione, e che abbiano ricevuto attenzione da parte di De Rita, di Pezzotta, di Antiseri e del rettore Ornaghi.
1. In questi trentacinque anni le resistenze alla transizione hanno spesso avuto successo. Il debito pubblico sta lì a misurare (per difetto) il costo imposto al paese da chi ha ostacolato la transizione da una società “meno aperta” ad una società “più aperta”. Così ci troviamo oggi alle prese con la necessità di chiudere la transizione in pessime condizioni economiche e sociali, globali ma più e prima ancora locali.
2. Per giocare davvero la partita politica della transizione occorre liberarsi non già della polarità destra/sinistra ma da una sua visione assiomatica. Né destra né sinistra sono bene o male in sé. Sturzo ebbe a destra il suo principale avversario (il fascismo), De Gasperi a sinistra (il comunismo): possiamo da ciò forse dedurre che Sturzo era di sinistra e De Gasperi di destra? Essi con coraggio e libertà ingaggiarono la battaglia che c’era da combattere e la combatterono. È così sempre, ovunque, per tutti i veri riformisti, per chi intende il centro non come il luogo delle rendite politiche pronte per qualsiasi trasformismo, ma come il luogo da cui gli elettori decidono di una competizione democratica.
3. Dopo la fine della Dc il mondo cattolico italiano ha spesso confuso pluralismo politico e disattenzione alla insopprimibile dimensione organizzata della partecipazione politica. Che poi questo sia avvenuto nella forma della mera irrilevanza od in quella scaltra degli «indipendenti di …» è del tutto irrilevante. Non si fa politica se non attraverso organizzazioni politiche, se non attraverso partiti. La stagione del pluralismo ha semplicemente reso pubblico che mai la fede e la Chiesa possono essere racchiusi in un partito, anche se sarebbe utile ricordare sempre che la storia del pluralismo politico dei cattolici non nasce dopo la Dc, ma con la Dc e prima ancora con il Partito popolare che fecero della azione politica di cattolici qualcosa di diverso dalla per altro pienamente legittima politica estera vaticana: non c’è rilevanza politica senza organizzazione politica.
4. Per comprendere la portata della dimensione politica della sfida in atto, completare la transizione, per i cattolici è fondamentale distinguere due istanze, entrambe legittime, ma diverse: la rappresentanza degli interessi ecclesiastici ed il raggio completo della sfida politica. Almeno da Sturzo, sappiamo che la seconda è cosa diversa e più ampia della prima. Con altrettanta chiarezza sappiamo che i cattolici hanno non la facoltà, ma il dovere di battersi perché anche dalla politica non manchi il contributo al bene comune. Un approccio identitario e rivendicazionista risulta del tutto inadeguato alla azione politica, tanto perché tende a minacciare il respiro e la libertà dell’azione della Chiesa quanto perché impedisce di cogliere tutta la legittima complessità del dovere politico rispetto al bene comune. Potremmo ben dire che, ai cattolici che accettano la sfida politica, la responsabilità per il bene comune impone davvero una vocazione maggioritaria. Essi non possono e non debbono limitare la loro azione a pochi temi, né la propria attenzione a pochi individui od a poche formazioni sociali. Questo si esprime anche in una visione dei rapporti politica/società (sussidiarietà verticale ed orizzontale), in una visione delle regole politiche (poteri limitati, responsabili, contendibili), in una giusta tensione a correre per vincere (agonismo della libertà). Nella paura per il bipolarismo, per tanti politici cattolici di lungo o breve corso si mescola la nostalgia per rendite indiviuali con un senso ingiustificato di insuperabile marginalità. Al contrario, in un paese ormai fatto solo di infinite minoranze quasi nessuno si candida a correre per la sfida politica vera, quella grande. In questo paese di frammenti forse dalla tradizione del cattolicesimo può nascere chi raccolga la sfida grande.
Luca Diotallevi – Membro del Comitato scientifico del Centro Studi Tocqueville-Acton. Vice Presidente Comitato Scientifico delle Settimane Sociali
see u,
Giangiacomo
Circa trentacinque anni fa, tra le elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976, Aldo Moro comprese che erano ormai maturate le condizioni per il passaggio alla «terza fase». Essa doveva vedere lo sviluppo di nuove relazioni tanto tra sistema politico e società quanto tra attori politici. In sintesi: meno pervasività della politica nel primo caso, più competizione politica e meno centralismo nel secondo.
Tutto ciò era possibile perché il Paese era cresciuto, del Paese era cresciuta la politica, ma anche l’economia e la cultura. I cattolici erano stati protagonisti tanto della prima dimensione quanto della seconda.
Rispetto a trentacinque anni fa, completare quella transizione ci appare oggi compito non solo politico, ma anche politico, poiché la politica deve ad un tempo ritrarsi e riformarsi.
Ciò che ostacola il formarsi di una nuova generazione di politici cattolici non è la scomparsa delle vecchie forme, ma il tardare dell’affermarsi di nuove forme, di forme nuove nella relazione tra politica e società, di forme nuove nella regolazione di una maggiore competizione politica, di forme nuove di organizzazione della partecipazione politica.
Senza alcuna pretesa di esaustività, da questa ultima affermazione possono essere enucleati quattro punti. Per un verso o per l’altro, mi pare che questi temi siano stati toccati in modo molto coraggioso da alcuni recenti interventi su questo giornale di Rocco Buttiglione, e che abbiano ricevuto attenzione da parte di De Rita, di Pezzotta, di Antiseri e del rettore Ornaghi.
1. In questi trentacinque anni le resistenze alla transizione hanno spesso avuto successo. Il debito pubblico sta lì a misurare (per difetto) il costo imposto al paese da chi ha ostacolato la transizione da una società “meno aperta” ad una società “più aperta”. Così ci troviamo oggi alle prese con la necessità di chiudere la transizione in pessime condizioni economiche e sociali, globali ma più e prima ancora locali.
2. Per giocare davvero la partita politica della transizione occorre liberarsi non già della polarità destra/sinistra ma da una sua visione assiomatica. Né destra né sinistra sono bene o male in sé. Sturzo ebbe a destra il suo principale avversario (il fascismo), De Gasperi a sinistra (il comunismo): possiamo da ciò forse dedurre che Sturzo era di sinistra e De Gasperi di destra? Essi con coraggio e libertà ingaggiarono la battaglia che c’era da combattere e la combatterono. È così sempre, ovunque, per tutti i veri riformisti, per chi intende il centro non come il luogo delle rendite politiche pronte per qualsiasi trasformismo, ma come il luogo da cui gli elettori decidono di una competizione democratica.
3. Dopo la fine della Dc il mondo cattolico italiano ha spesso confuso pluralismo politico e disattenzione alla insopprimibile dimensione organizzata della partecipazione politica. Che poi questo sia avvenuto nella forma della mera irrilevanza od in quella scaltra degli «indipendenti di …» è del tutto irrilevante. Non si fa politica se non attraverso organizzazioni politiche, se non attraverso partiti. La stagione del pluralismo ha semplicemente reso pubblico che mai la fede e la Chiesa possono essere racchiusi in un partito, anche se sarebbe utile ricordare sempre che la storia del pluralismo politico dei cattolici non nasce dopo la Dc, ma con la Dc e prima ancora con il Partito popolare che fecero della azione politica di cattolici qualcosa di diverso dalla per altro pienamente legittima politica estera vaticana: non c’è rilevanza politica senza organizzazione politica.
4. Per comprendere la portata della dimensione politica della sfida in atto, completare la transizione, per i cattolici è fondamentale distinguere due istanze, entrambe legittime, ma diverse: la rappresentanza degli interessi ecclesiastici ed il raggio completo della sfida politica. Almeno da Sturzo, sappiamo che la seconda è cosa diversa e più ampia della prima. Con altrettanta chiarezza sappiamo che i cattolici hanno non la facoltà, ma il dovere di battersi perché anche dalla politica non manchi il contributo al bene comune. Un approccio identitario e rivendicazionista risulta del tutto inadeguato alla azione politica, tanto perché tende a minacciare il respiro e la libertà dell’azione della Chiesa quanto perché impedisce di cogliere tutta la legittima complessità del dovere politico rispetto al bene comune. Potremmo ben dire che, ai cattolici che accettano la sfida politica, la responsabilità per il bene comune impone davvero una vocazione maggioritaria. Essi non possono e non debbono limitare la loro azione a pochi temi, né la propria attenzione a pochi individui od a poche formazioni sociali. Questo si esprime anche in una visione dei rapporti politica/società (sussidiarietà verticale ed orizzontale), in una visione delle regole politiche (poteri limitati, responsabili, contendibili), in una giusta tensione a correre per vincere (agonismo della libertà). Nella paura per il bipolarismo, per tanti politici cattolici di lungo o breve corso si mescola la nostalgia per rendite indiviuali con un senso ingiustificato di insuperabile marginalità. Al contrario, in un paese ormai fatto solo di infinite minoranze quasi nessuno si candida a correre per la sfida politica vera, quella grande. In questo paese di frammenti forse dalla tradizione del cattolicesimo può nascere chi raccolga la sfida grande.
Luca Diotallevi – Membro del Comitato scientifico del Centro Studi Tocqueville-Acton. Vice Presidente Comitato Scientifico delle Settimane Sociali
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Giangiacomo
mercoledì 25 agosto 2010
Libro dell'estate
Lettere a un amico ebreo
Sergio Romano
Edizioni Longanesi & C.
Sergio Romano
Edizioni Longanesi & C.
Un diplomatico di alta capacità, un uomo sempre poco schierato, che, dopo dialoghi con amici ebrei, delinea storicamente sionismo e il genocidio degli ebrei.
E' un fatto storico, non una questione religiosa. E come tale deve essere ricordato, ma non può essere un masso enorme contro l'umanità e gli ebrei buoni dall'altra parte.
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Giangiacomo
mercoledì 16 giugno 2010
Donne vanno in pensione più tardi: è meglio per tutti (soprattutto per loro)
Tanto tuonò che piovve. Giovedì, la Commissione Ue ha trasmesso al Governo una nuova lettera di messa in mora sull’antica e sempre attuale questione delle pensioni di vecchiaia nel pubblico impiego (quelle pagate dall’Inpdap).
La riforma 2009 sull’età pensionabile delle donne del pubblico impiego – ammonisce l’Ue – non costituisce «esecuzione completa e adeguata della sentenza della corte di giustizia europea» (causa C-46/07), perché durante il periodo di transizione, da 60 (2009) a 65 anni (dal 2018) per equipararla a quella degli uomini, persiste il trattamento discriminatorio (penalizzati gli uomini). Cosa succederà adesso? La via obbligata sembra quella dell’accelerazione del processo d’innalzamento del requisito d’età di pensionamento alle donne (informalmente, pare che la Commissione sia d’accordo ad aspettare al massimo il 2012).
Un punto sul quale ha messo le mani avanti il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, spiegando che prima intende «discutere, perché è giusto dare alle donne il tempo di organizzare il proprio percorso di vita». Qualcosa di più si saprà lunedì prossimo, quando incontrerà il commissario Vivian Reding a cui chiederà «una preventiva consultazione di tutte le parti sociali».
Il ministro della funzione pubblica, Renato Brunetta, ha evidenziato come «si sapesse già che la nostra risposta non era stata considerata sufficiente» e non ha escluso, invece, interventi rapidi: «abbiamo il veicolo della manovra e vedremo come rispondere alla commissione e alla corte di giustizia Ue». Ha rassicurato tuttavia che «il governo risponderà in maniera collegiale» riservandosi prima di leggere le motivazioni.
Se è vero che l’esperienza insegna, questa lunga storia sul pensionamento delle donne del pubblico impiego è una lezione spicciola ma efficace: le “iniziative” di riforma non portano da nessuna parte. Cinque anni di discussioni tra Ue e Governi italiani per risvegliarci stamattina di nuovo al punto di partenza. Anzi, in una situazione peggiore perché la Commissione adesso ha fatto la voce grossa e, senza mezzi termini, ha chiesto l’eliminazione della differenza di trattamento. Ciò che occorre(va) è un “progetto” di riforma, non interventi “spot” come è stato l’anno scorso e come in un primo momento era previsto anche nella manovra correttiva appena entrata in vigore. Perché è soltanto con un “progetto” di riforma che si può evitare «di concedere alle persone della categoria sfavorita (gli uomini, ndr) gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata (le donne, ndr)» – cioè abbassare l’età di pensionamento agli uomini o calcolare le pensioni agli uomini in considerazione della stessa età pensionabile delle donne (gli anni in più saranno risarciti?), come è sottolineato nella nuova lettera di contestazione della Commissione.
La questione è relativa alla pensione di vecchiaia del solo settore pubblico, nonostante lo stesso regime pensionistico viga pure nel settore privato ritenuto però legittimo. Ma perché la differenza? Perché c’è una differenza nella “natura” delle due pensioni: quella pubblica è “retributiva”; quella privata “assicurativa” (tipica cioè del sistema previdenziale). Con quella natura, la pensione erogata dall’Inpdap rientra pienamente nel campo di applicazione dell’articolo 141 del trattato Ue, in base al quale ciascuno Stato membro è tenuto ad assicurare la parità di retribuzione, tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, per uno stesso lavoro o per lavori di pari valore.
Nel 2005, la Commissione rileva che in Italia tale parità non è garantita nel settore pubblico (Inpdap) dalla presenza di diverse età di accesso alla pensione nel settore pubblico (60 anni le donne e 65 gli uomini). Per questo il 13 novembre 2008 arriva la condanna ufficiale della corte di giustizia. La Commissione chiede chiarimenti il 23 dicembre dello stesso anno e il 26 giugno 2009 invia la prima lettera di costituzione in mora. Il Governo risponde il 7 luglio 2009 spiegando di avere elevato l’età di pensione alle donne con una legge che introduce gradualmente, fino al 2018, l’innalzamento a 65 anni come prevista per gli uomini.
Per la Commissione la soluzione è inadeguata: durante il periodo transitorio continua a persistere il trattamento discriminatorio. Il Governo già sapeva. Sarà forse anche per questo se, nella manovra correttiva di questi giorni, ha fatto capolino una norma di accelerazione (un anno ogni 18 mesi, in luogo di due anni come previsto oggi) dell’equiparazione a 65 anni (dal 2018 al 2016), che poi però non è entrata nel testo finale di legge. A marzo scorso, infatti, il Governo viene informato che l’Ue è orientata a non archiviare la procedura d’infrazione, sulla base del fatto che l’intervento legislativo del 2009, pur se apprezzato perché avente effetti migliori rispetto a quelli delle misure prese da altri paesi coinvolti nello stesso contenzioso (Francia e Grecia), lascia tuttavia persistere la disparità di trattamento. E viene avvertito che, per questa ragione, l’Ue invierà una nuova lettera di messa in mora complementare (quella arrivata giovedì), ultimo stadio della procedura d’infrazione prima del deferimento alla corte di giustizia per la richiesta di sanzioni pecuniarie. Adesso che la lettera è arrivata, rincuora sapere che la Commissione nulla ha contestato sulla rimozione retroattiva della discriminazione, aspetto che in un primo momento pure era stato preso in considerazione. Rincuora perché, se fosse stato contestato, adesso c’era da ragionare sugli effetti retroattivi a risalire dal mese di maggio del 1990.
La nuova contestazione non riguarda il principio di gradualità, o per lo meno non esso in via esclusiva. La questione è una: la discriminazione deve essere eliminata. Ed eccoci di nuovo al punto di partenza.
E qui, cinque anni (il tempo in cui la querelle va avanti), è un periodo sufficientemente lungo per permettersi di ipotizzare e mettere in atto un “progetto” di riforma, cosa che adesso il Governo dovrà mettere giù in un paio di mesi (guarda caso, è lo stesso tempo a disposizione per la conversione in legge della manovra correttiva).
La Commissione Ue ha fornito all’Italia l’indirizzo giurisprudenziale esistente in materia, quasi ad avvertire sul come muoversi.
La Corte Ue ha già detto, per esempio, che «(…) una volta che una discriminazione in materia di retribuzione sia stata accertata dalla Corte, e fintantoché non siano state adottate dal regime misure che ripristinano la parità di trattamento, l'osservanza dell'art. 119 può essere garantita solo concedendo alle persone della categoria sfavorita gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata». E anche che «(…) qualora, dopo aver constatato una discriminazione, un datore di lavoro ripristini la parità per il futuro, riducendo i vantaggi della categoria privilegiata, la parità da conseguire non può essere soggetta a condizioni di gradualità, che si risolverebbero, anche se solo temporaneamente, in una conservazione della discriminazione». Ed infine che «(…) l'elevazione dell'età pensionabile delle donne al livello di quella degli uomini, decisa da un datore di lavoro per eliminare una discriminazione in materia di pensioni aziendali, per quel che riguarda le prestazioni dovute per periodi lavorativi futuri, non può essere accompagnata da provvedimenti, sia pure transitori, destinati a limitare le conseguenze sfavorevoli che tale elevazione può avere per le donne».
Come dire: a buon intenditore poche parole. Con questi avvertimenti, in conclusione, è il caso di correre ai ripari della rapida equiparazione dell’età pensionabile: 65 anni, alle donne, già dal prossimo anno. Le donne capiranno; e poi, è risaputo, il settore del lavoro pubblico è un ottimo ammortizzatore sociale.
see u,
Giangiacomo
La riforma 2009 sull’età pensionabile delle donne del pubblico impiego – ammonisce l’Ue – non costituisce «esecuzione completa e adeguata della sentenza della corte di giustizia europea» (causa C-46/07), perché durante il periodo di transizione, da 60 (2009) a 65 anni (dal 2018) per equipararla a quella degli uomini, persiste il trattamento discriminatorio (penalizzati gli uomini). Cosa succederà adesso? La via obbligata sembra quella dell’accelerazione del processo d’innalzamento del requisito d’età di pensionamento alle donne (informalmente, pare che la Commissione sia d’accordo ad aspettare al massimo il 2012).
Un punto sul quale ha messo le mani avanti il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, spiegando che prima intende «discutere, perché è giusto dare alle donne il tempo di organizzare il proprio percorso di vita». Qualcosa di più si saprà lunedì prossimo, quando incontrerà il commissario Vivian Reding a cui chiederà «una preventiva consultazione di tutte le parti sociali».
Il ministro della funzione pubblica, Renato Brunetta, ha evidenziato come «si sapesse già che la nostra risposta non era stata considerata sufficiente» e non ha escluso, invece, interventi rapidi: «abbiamo il veicolo della manovra e vedremo come rispondere alla commissione e alla corte di giustizia Ue». Ha rassicurato tuttavia che «il governo risponderà in maniera collegiale» riservandosi prima di leggere le motivazioni.
Se è vero che l’esperienza insegna, questa lunga storia sul pensionamento delle donne del pubblico impiego è una lezione spicciola ma efficace: le “iniziative” di riforma non portano da nessuna parte. Cinque anni di discussioni tra Ue e Governi italiani per risvegliarci stamattina di nuovo al punto di partenza. Anzi, in una situazione peggiore perché la Commissione adesso ha fatto la voce grossa e, senza mezzi termini, ha chiesto l’eliminazione della differenza di trattamento. Ciò che occorre(va) è un “progetto” di riforma, non interventi “spot” come è stato l’anno scorso e come in un primo momento era previsto anche nella manovra correttiva appena entrata in vigore. Perché è soltanto con un “progetto” di riforma che si può evitare «di concedere alle persone della categoria sfavorita (gli uomini, ndr) gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata (le donne, ndr)» – cioè abbassare l’età di pensionamento agli uomini o calcolare le pensioni agli uomini in considerazione della stessa età pensionabile delle donne (gli anni in più saranno risarciti?), come è sottolineato nella nuova lettera di contestazione della Commissione.
La questione è relativa alla pensione di vecchiaia del solo settore pubblico, nonostante lo stesso regime pensionistico viga pure nel settore privato ritenuto però legittimo. Ma perché la differenza? Perché c’è una differenza nella “natura” delle due pensioni: quella pubblica è “retributiva”; quella privata “assicurativa” (tipica cioè del sistema previdenziale). Con quella natura, la pensione erogata dall’Inpdap rientra pienamente nel campo di applicazione dell’articolo 141 del trattato Ue, in base al quale ciascuno Stato membro è tenuto ad assicurare la parità di retribuzione, tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, per uno stesso lavoro o per lavori di pari valore.
Nel 2005, la Commissione rileva che in Italia tale parità non è garantita nel settore pubblico (Inpdap) dalla presenza di diverse età di accesso alla pensione nel settore pubblico (60 anni le donne e 65 gli uomini). Per questo il 13 novembre 2008 arriva la condanna ufficiale della corte di giustizia. La Commissione chiede chiarimenti il 23 dicembre dello stesso anno e il 26 giugno 2009 invia la prima lettera di costituzione in mora. Il Governo risponde il 7 luglio 2009 spiegando di avere elevato l’età di pensione alle donne con una legge che introduce gradualmente, fino al 2018, l’innalzamento a 65 anni come prevista per gli uomini.
Per la Commissione la soluzione è inadeguata: durante il periodo transitorio continua a persistere il trattamento discriminatorio. Il Governo già sapeva. Sarà forse anche per questo se, nella manovra correttiva di questi giorni, ha fatto capolino una norma di accelerazione (un anno ogni 18 mesi, in luogo di due anni come previsto oggi) dell’equiparazione a 65 anni (dal 2018 al 2016), che poi però non è entrata nel testo finale di legge. A marzo scorso, infatti, il Governo viene informato che l’Ue è orientata a non archiviare la procedura d’infrazione, sulla base del fatto che l’intervento legislativo del 2009, pur se apprezzato perché avente effetti migliori rispetto a quelli delle misure prese da altri paesi coinvolti nello stesso contenzioso (Francia e Grecia), lascia tuttavia persistere la disparità di trattamento. E viene avvertito che, per questa ragione, l’Ue invierà una nuova lettera di messa in mora complementare (quella arrivata giovedì), ultimo stadio della procedura d’infrazione prima del deferimento alla corte di giustizia per la richiesta di sanzioni pecuniarie. Adesso che la lettera è arrivata, rincuora sapere che la Commissione nulla ha contestato sulla rimozione retroattiva della discriminazione, aspetto che in un primo momento pure era stato preso in considerazione. Rincuora perché, se fosse stato contestato, adesso c’era da ragionare sugli effetti retroattivi a risalire dal mese di maggio del 1990.
La nuova contestazione non riguarda il principio di gradualità, o per lo meno non esso in via esclusiva. La questione è una: la discriminazione deve essere eliminata. Ed eccoci di nuovo al punto di partenza.
E qui, cinque anni (il tempo in cui la querelle va avanti), è un periodo sufficientemente lungo per permettersi di ipotizzare e mettere in atto un “progetto” di riforma, cosa che adesso il Governo dovrà mettere giù in un paio di mesi (guarda caso, è lo stesso tempo a disposizione per la conversione in legge della manovra correttiva).
La Commissione Ue ha fornito all’Italia l’indirizzo giurisprudenziale esistente in materia, quasi ad avvertire sul come muoversi.
La Corte Ue ha già detto, per esempio, che «(…) una volta che una discriminazione in materia di retribuzione sia stata accertata dalla Corte, e fintantoché non siano state adottate dal regime misure che ripristinano la parità di trattamento, l'osservanza dell'art. 119 può essere garantita solo concedendo alle persone della categoria sfavorita gli stessi vantaggi di cui fruiscono le persone della categoria privilegiata». E anche che «(…) qualora, dopo aver constatato una discriminazione, un datore di lavoro ripristini la parità per il futuro, riducendo i vantaggi della categoria privilegiata, la parità da conseguire non può essere soggetta a condizioni di gradualità, che si risolverebbero, anche se solo temporaneamente, in una conservazione della discriminazione». Ed infine che «(…) l'elevazione dell'età pensionabile delle donne al livello di quella degli uomini, decisa da un datore di lavoro per eliminare una discriminazione in materia di pensioni aziendali, per quel che riguarda le prestazioni dovute per periodi lavorativi futuri, non può essere accompagnata da provvedimenti, sia pure transitori, destinati a limitare le conseguenze sfavorevoli che tale elevazione può avere per le donne».
Come dire: a buon intenditore poche parole. Con questi avvertimenti, in conclusione, è il caso di correre ai ripari della rapida equiparazione dell’età pensionabile: 65 anni, alle donne, già dal prossimo anno. Le donne capiranno; e poi, è risaputo, il settore del lavoro pubblico è un ottimo ammortizzatore sociale.
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Giangiacomo
Stato e mercato, tandem virtuoso
(L’articolo è stato pubblicato dal quotidiano “Avvenire” del 16 giugno 2010)
Dario Antiseri
«Come è possibile che un ignorante come Hitler possa governare la Germania?», chiedeva esterrefatto Karl Jaspers a Martin Heidegger nel corso del loro ultimo incontro nel giugno del 1933. E Heidegger rispose: «La cultura è del tutto indifferente […] Basta guardare le sue meravigliose mani!». Qualche mese dopo, il 3 novembre dello stesso anno, in occasione del referendum popolare per l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni, Heidegger – rettore dell’Università di Friburgo – concludeva il suo Appello agli studenti tedeschi con queste parole: «Non teoremi e 'idee' siano le regole del vostro essere. Il Führer stesso, e solo lui, è la realtà tedesca dell’oggi e del domani, e la sua legge». Tredici anni più tardi, il 23 luglio del 1945, nella Friburgo occupata, Heidegger è chiamato a rispondere per la prima volta davanti alla Commissione di epurazione istituita dall’Autorità militare francese. E in questa Commissione l’impegno maggiore nell’accusa contro Heidegger venne sostenuto da pensatori come Constantin von Dietze, Walter Eucken, Adolf Lampe e Franz Böhm – rappresentanti di quell’economia sociale di mercato, che è stata a fondamento della rinascita della Germania e di cui oggi, da più parti, sempre più si scorge la portata etica, la validità teorica e la praticabilità politica. E proprio sulla genesi, sui principi e sull’eredità dell’economia sociale di mercato verte la serie di saggi inclusi nel volume Il liberalismo delle regole, appena edito da Rubbettino e arricchito da due preziose introduzioni dei due curatori, Francesco Forte e Flavio Felice. Delineano l’opera dei fondatori e gli sviluppi della tradizione friburghese dagli anni Trenta ai nostri giorni le istruttive pagine di Nils Goldschmidt e Michael Wohlgemuth. E ben scelti sono gli scritti teorici di Walter Eucken, Adolf Lampe, Constantin von Dietze e Wilhelm Röpke, come anche il saggio di Alfred Müller-Armack sulla politica economica realizzata, in base ai principi dell’economia sociale di mercato, da Ludwig Erhard. Il volume, che si chiude con una lunga recensione di Luigi Einaudi sul libro Civitas humana di Röpke, si apre con l’importante Manifesto dell’ordoliberalismo (1936) dal titolo Il nostro compito – scritto in collaborazione da Böhm, Eucken e Grossmann-Dörth. L’idea centrale sostenuta dai friburghesi è che il sistema economico deve funzionare in conformità con una 'costituzione economica' posta in essere dallo Stato. Scrive Eucken: «Il problema dell’economia non si risolve da se stesso, semplicemente lasciando che il sistema economico si sviluppi spontaneamente […]. Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito». Pensato e costruito nel senso di uno 'Stato forte' in grado di contrastare l’assalto contro il funzionamento del mercato da parte dei monopoli e dei cacciatori di rendite. Lo Stato, pertanto, viene ad assumere il compito di 'guardiano' dell’ordine concorrenziale che è un ordine costituzionale, «frutto di scelte tese a garantire al medesimo tempo il buon funzionamento del mercato e condizioni di vita decenti e umane». Dunque: uno 'Stato forte' che si situa all’opposto dello 'Stato totale'; un ordine economico costituzionale che è agli antipodi dell’ordine economico programmatico, cioè collettivistico.
La realtà è che statizzare l’uomo credendo di umanizzare lo Stato è un errore fatale. E se Viktor Vanberg – l’attuale direttore dell’Istituto Eucken – avvicina la tradizione di ricerca della Scuola di Friburgo al programma della Public Choice di James Buchanan, Flavio Felice fa notare come i tratti di fondo dell’economia sociale di mercato – soprattutto, ma non solo, con l’insistenza sul principio di sussidiarietà – rispondono alle istanze più classiche della Dottrina sociale della Chiesa. In effetti, «il liberalismo non è nella sua essenza un abbandono del Cristianesimo, bensì è il suo legittimo figlio spirituale». E ciò per la ragione che, «contrariamente alla concezione sociale dell’antichità pagana, il Cristianesimo pone al centro il singolo individuo […] Davanti allo Stato c’è ora la persona umana e sopra lo Stato il Dio universale, il suo amore e la sua giustizia».
Questo scrive Röpke, che, conseguentemente, si trova d’accordo con Guglielmo Ferrero allorché costui afferma che «l’azione rivoluzionaria del Cristianesimo fu di frantumare l’'esprit pharaonique de l’État'». Röpke, annota Francesco Forte, «aveva ricavato il principio di sussidiarietà dalla dottrina cattolica»; e aggiunge che questo principio, «che sfocia nell’intervento conforme al mercato», lega in modo strettissimo la teoria di Röpke a quella di Eucken, il quale nei suoi Grundsätze der irtschaftspolitik (Principi di politica economica) fa pure lui esplicito riferimento alla Rerum novarum di Leone XIII e alla Quadragesimo anno di Pio XI.
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Giangiacomo
Dario Antiseri
«Come è possibile che un ignorante come Hitler possa governare la Germania?», chiedeva esterrefatto Karl Jaspers a Martin Heidegger nel corso del loro ultimo incontro nel giugno del 1933. E Heidegger rispose: «La cultura è del tutto indifferente […] Basta guardare le sue meravigliose mani!». Qualche mese dopo, il 3 novembre dello stesso anno, in occasione del referendum popolare per l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni, Heidegger – rettore dell’Università di Friburgo – concludeva il suo Appello agli studenti tedeschi con queste parole: «Non teoremi e 'idee' siano le regole del vostro essere. Il Führer stesso, e solo lui, è la realtà tedesca dell’oggi e del domani, e la sua legge». Tredici anni più tardi, il 23 luglio del 1945, nella Friburgo occupata, Heidegger è chiamato a rispondere per la prima volta davanti alla Commissione di epurazione istituita dall’Autorità militare francese. E in questa Commissione l’impegno maggiore nell’accusa contro Heidegger venne sostenuto da pensatori come Constantin von Dietze, Walter Eucken, Adolf Lampe e Franz Böhm – rappresentanti di quell’economia sociale di mercato, che è stata a fondamento della rinascita della Germania e di cui oggi, da più parti, sempre più si scorge la portata etica, la validità teorica e la praticabilità politica. E proprio sulla genesi, sui principi e sull’eredità dell’economia sociale di mercato verte la serie di saggi inclusi nel volume Il liberalismo delle regole, appena edito da Rubbettino e arricchito da due preziose introduzioni dei due curatori, Francesco Forte e Flavio Felice. Delineano l’opera dei fondatori e gli sviluppi della tradizione friburghese dagli anni Trenta ai nostri giorni le istruttive pagine di Nils Goldschmidt e Michael Wohlgemuth. E ben scelti sono gli scritti teorici di Walter Eucken, Adolf Lampe, Constantin von Dietze e Wilhelm Röpke, come anche il saggio di Alfred Müller-Armack sulla politica economica realizzata, in base ai principi dell’economia sociale di mercato, da Ludwig Erhard. Il volume, che si chiude con una lunga recensione di Luigi Einaudi sul libro Civitas humana di Röpke, si apre con l’importante Manifesto dell’ordoliberalismo (1936) dal titolo Il nostro compito – scritto in collaborazione da Böhm, Eucken e Grossmann-Dörth. L’idea centrale sostenuta dai friburghesi è che il sistema economico deve funzionare in conformità con una 'costituzione economica' posta in essere dallo Stato. Scrive Eucken: «Il problema dell’economia non si risolve da se stesso, semplicemente lasciando che il sistema economico si sviluppi spontaneamente […]. Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito». Pensato e costruito nel senso di uno 'Stato forte' in grado di contrastare l’assalto contro il funzionamento del mercato da parte dei monopoli e dei cacciatori di rendite. Lo Stato, pertanto, viene ad assumere il compito di 'guardiano' dell’ordine concorrenziale che è un ordine costituzionale, «frutto di scelte tese a garantire al medesimo tempo il buon funzionamento del mercato e condizioni di vita decenti e umane». Dunque: uno 'Stato forte' che si situa all’opposto dello 'Stato totale'; un ordine economico costituzionale che è agli antipodi dell’ordine economico programmatico, cioè collettivistico.
La realtà è che statizzare l’uomo credendo di umanizzare lo Stato è un errore fatale. E se Viktor Vanberg – l’attuale direttore dell’Istituto Eucken – avvicina la tradizione di ricerca della Scuola di Friburgo al programma della Public Choice di James Buchanan, Flavio Felice fa notare come i tratti di fondo dell’economia sociale di mercato – soprattutto, ma non solo, con l’insistenza sul principio di sussidiarietà – rispondono alle istanze più classiche della Dottrina sociale della Chiesa. In effetti, «il liberalismo non è nella sua essenza un abbandono del Cristianesimo, bensì è il suo legittimo figlio spirituale». E ciò per la ragione che, «contrariamente alla concezione sociale dell’antichità pagana, il Cristianesimo pone al centro il singolo individuo […] Davanti allo Stato c’è ora la persona umana e sopra lo Stato il Dio universale, il suo amore e la sua giustizia».
Questo scrive Röpke, che, conseguentemente, si trova d’accordo con Guglielmo Ferrero allorché costui afferma che «l’azione rivoluzionaria del Cristianesimo fu di frantumare l’'esprit pharaonique de l’État'». Röpke, annota Francesco Forte, «aveva ricavato il principio di sussidiarietà dalla dottrina cattolica»; e aggiunge che questo principio, «che sfocia nell’intervento conforme al mercato», lega in modo strettissimo la teoria di Röpke a quella di Eucken, il quale nei suoi Grundsätze der irtschaftspolitik (Principi di politica economica) fa pure lui esplicito riferimento alla Rerum novarum di Leone XIII e alla Quadragesimo anno di Pio XI.
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Giangiacomo
venerdì 28 maggio 2010
Libero mercato: Crisi Grecia 2010
Sprechi pubblici, assunzioni di Stato, conti in dissesto: questo è il welfare state che la Grecia ha realizzato con la demagogia del Partito Socialista al governo. Ovviamente si dà la colpa al libero mercato e si pretende che l’Unione Europea intervenga con gli aiuti (di chi, invece, lavora). Negare questi sussidi è insensibilità al bene comune, come in troppi ripetono, o evitare di far pagare a tutti le colpe dei responsabili?
see u,
Giangiacomo
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Giangiacomo
domenica 16 maggio 2010
Modernità e tradizione
Modernità e tradizione. Una grande lezione di Benedetto XVI dal Portogallo
di Massimo Introvigne
Mentre – in modo peraltro comprensibile – l’attenzione sul viaggio del Papa in Portogallo si concentra sull’interpretazione del messaggio di Fatima e sulle sue relazioni con la crisi nella Chiesa che nasce dagli episodi dei preti pedofili, per molti rischia di andare perduta la straordinaria lezione della modernità impartita da Benedetto XVI nel Paese iberico, che ci riporta al cuore stesso del magistero di Papa Ratzinger. Nel discorso del 2006 a Ratisbona e nell’enciclica Spe salvi del 2007 il Pontefice aveva già proposto un giudizio sui momenti centrali della modernità: Lutero, l’illuminismo, le ideologie del XX secolo. In ciascuno di questi momenti aveva distinto un aspetto esigenziale dove c’è qualche cosa di condivisibile – la reazione al razionalismo rinascimentale per Lutero, la critica del fideismo e la rivalutazione della ragione nell’illuminismo, il desiderio di affrontare i problemi e le ingiustizie causate dalle trascrizioni sociali e politiche dell’illuminismo per le ideologie novecentesche – e un esito finale catastrofico dove, ogni volta, si butta via il bambino con l’acqua sporca e si propongono rimedi peggiori dei mali che si dichiara di voler curare. Così Lutero insieme al razionalismo butta via la ragione, smantellando la sintesi di fede e di ragione che aveva dato vita alla cristianità medievale; l’illuminismo per rivalutare la ragione la separa radicalmente dalla fede, diventa laicismo e finisce per compromettere l’integrità stessa di quella ragione che voleva salvare; le ideologie del Novecento criticando l’idea astratta di libertà dell’illuminismo finisco per mettere in discussione l’essenza stessa della libertà, trasformandosi in macchine sanguinarie di tirannia e di oppressione. Nella modernità dunque a esigenze o istanze dove non tutto è sbagliato corrispondono esiti o risposte che partono da gravi errori e si risolvono in drammatici orrori.
Il tema ha anche una sua attualità all’interno della Chiesa, dove il magistero di Benedetto XVI si è concentrato sulla corretta interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Si dice, senza sbagliare, che il Concilio si fece carico della modernità. Ma questo significa che il Concilio accolse le istanze del moderno oppure che condivise anche le risposte dell’ideologia della modernità a queste istanze? Nel primo caso il Concilio può essere letto alla luce della Tradizione della Chiesa, che – dal Concilio di Trento, il quale si confrontò con le domande poste da Lutero dando però risposte totalmente diverse, fino a Leone XIII, di cui ricorre quest’anno il secondo centenario della nascita, di fronte alle ideologie nascenti – ha sempre accolto le istanze proposte dalla storia trovando nel suo patrimonio gli elementi per farvi fronte. Nel secondo caso il Vaticano II sarebbe invece un’innovazione radicale, un cedimento della Chiesa all’ideologia della modernità, una rivolta contro la Tradizione da leggere secondo quella che Benedetto XVI chiama “ermeneutica della discontinuità e della rottura” rispetto a tutto quanto è venuto prima.
In Portogallo il Papa torna su questi temi: e il discorso del 12 maggio a Lisbona rivolto al mondo della cultura è destinato a prendere posto fra i discorsi principali del suo pontificato. Qui, come di consueto, il punto di partenza è il Vaticano II, “nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita”. Benedetto XVI invita dunque a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le “istanze”, di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma “superandole” –, e gli “errori e vicoli senza uscita” in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile.
Per il Papa la modernità come plesso di esigenze può e deve essere presa sul serio e diventare oggetto di discernimento. La modernità come ideologia dev’essere invece oggetto di una rigorosa critica. Questa ideologia comporta il rifiuto della tradizione – quella con la “t” minuscola, come patrimonio culturale trasmesso dalle generazioni passate, e quella con la “T” maiuscola come verità conservata e veicolata dalla Chiesa – e l’idolatria del presente. In Portogallo il Papa denuncia un’ideologia che “assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato” e quindi fatalmente finisce per presentarsi “senza l’intenzione di delineare un futuro”. Considerare il presente la sola “fonte ispiratrice del senso della vita” porta a svalutare e attaccare la tradizione, che in Portogallo – e non solo – “ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una ‘sapienza’, cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un ‘ideale’ da adempiere”, strettamente legati all’idea di verità e all’identificazione di questa verità con Gesù Cristo. Dunque “si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo”. Il “‘conflitto’ fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita”. In questo conflitto la Chiesa non ha dubbi su da che parte stare. “La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione”: parole di Benedetto XVI che richiamano – certo con uno stile e un linguaggio diverso – quelle del suo predecessore san Pio X nella lettera apostolica del 1910 Notre charge apostolique secondo cui “i veri operai della restaurazione sociale, i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti”.
La difesa della verità contro il culto relativistico e anti-tradizionale del presente è una missione “per la Chiesa irrinunciabile”, ripete Benedetto XVI. “Infatti il popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia”. Chi rinuncia alla tradizione e taglia il suo legame con il passato in nome di un culto modernistico del presente si priva al tempo stesso di ogni vera possibilità di “delineare un futuro”.
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Giangiacomo
di Massimo Introvigne
Mentre – in modo peraltro comprensibile – l’attenzione sul viaggio del Papa in Portogallo si concentra sull’interpretazione del messaggio di Fatima e sulle sue relazioni con la crisi nella Chiesa che nasce dagli episodi dei preti pedofili, per molti rischia di andare perduta la straordinaria lezione della modernità impartita da Benedetto XVI nel Paese iberico, che ci riporta al cuore stesso del magistero di Papa Ratzinger. Nel discorso del 2006 a Ratisbona e nell’enciclica Spe salvi del 2007 il Pontefice aveva già proposto un giudizio sui momenti centrali della modernità: Lutero, l’illuminismo, le ideologie del XX secolo. In ciascuno di questi momenti aveva distinto un aspetto esigenziale dove c’è qualche cosa di condivisibile – la reazione al razionalismo rinascimentale per Lutero, la critica del fideismo e la rivalutazione della ragione nell’illuminismo, il desiderio di affrontare i problemi e le ingiustizie causate dalle trascrizioni sociali e politiche dell’illuminismo per le ideologie novecentesche – e un esito finale catastrofico dove, ogni volta, si butta via il bambino con l’acqua sporca e si propongono rimedi peggiori dei mali che si dichiara di voler curare. Così Lutero insieme al razionalismo butta via la ragione, smantellando la sintesi di fede e di ragione che aveva dato vita alla cristianità medievale; l’illuminismo per rivalutare la ragione la separa radicalmente dalla fede, diventa laicismo e finisce per compromettere l’integrità stessa di quella ragione che voleva salvare; le ideologie del Novecento criticando l’idea astratta di libertà dell’illuminismo finisco per mettere in discussione l’essenza stessa della libertà, trasformandosi in macchine sanguinarie di tirannia e di oppressione. Nella modernità dunque a esigenze o istanze dove non tutto è sbagliato corrispondono esiti o risposte che partono da gravi errori e si risolvono in drammatici orrori.
Il tema ha anche una sua attualità all’interno della Chiesa, dove il magistero di Benedetto XVI si è concentrato sulla corretta interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Si dice, senza sbagliare, che il Concilio si fece carico della modernità. Ma questo significa che il Concilio accolse le istanze del moderno oppure che condivise anche le risposte dell’ideologia della modernità a queste istanze? Nel primo caso il Concilio può essere letto alla luce della Tradizione della Chiesa, che – dal Concilio di Trento, il quale si confrontò con le domande poste da Lutero dando però risposte totalmente diverse, fino a Leone XIII, di cui ricorre quest’anno il secondo centenario della nascita, di fronte alle ideologie nascenti – ha sempre accolto le istanze proposte dalla storia trovando nel suo patrimonio gli elementi per farvi fronte. Nel secondo caso il Vaticano II sarebbe invece un’innovazione radicale, un cedimento della Chiesa all’ideologia della modernità, una rivolta contro la Tradizione da leggere secondo quella che Benedetto XVI chiama “ermeneutica della discontinuità e della rottura” rispetto a tutto quanto è venuto prima.
In Portogallo il Papa torna su questi temi: e il discorso del 12 maggio a Lisbona rivolto al mondo della cultura è destinato a prendere posto fra i discorsi principali del suo pontificato. Qui, come di consueto, il punto di partenza è il Vaticano II, “nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita”. Benedetto XVI invita dunque a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le “istanze”, di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma “superandole” –, e gli “errori e vicoli senza uscita” in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile.
Per il Papa la modernità come plesso di esigenze può e deve essere presa sul serio e diventare oggetto di discernimento. La modernità come ideologia dev’essere invece oggetto di una rigorosa critica. Questa ideologia comporta il rifiuto della tradizione – quella con la “t” minuscola, come patrimonio culturale trasmesso dalle generazioni passate, e quella con la “T” maiuscola come verità conservata e veicolata dalla Chiesa – e l’idolatria del presente. In Portogallo il Papa denuncia un’ideologia che “assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato” e quindi fatalmente finisce per presentarsi “senza l’intenzione di delineare un futuro”. Considerare il presente la sola “fonte ispiratrice del senso della vita” porta a svalutare e attaccare la tradizione, che in Portogallo – e non solo – “ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una ‘sapienza’, cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un ‘ideale’ da adempiere”, strettamente legati all’idea di verità e all’identificazione di questa verità con Gesù Cristo. Dunque “si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo”. Il “‘conflitto’ fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita”. In questo conflitto la Chiesa non ha dubbi su da che parte stare. “La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione”: parole di Benedetto XVI che richiamano – certo con uno stile e un linguaggio diverso – quelle del suo predecessore san Pio X nella lettera apostolica del 1910 Notre charge apostolique secondo cui “i veri operai della restaurazione sociale, i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti”.
La difesa della verità contro il culto relativistico e anti-tradizionale del presente è una missione “per la Chiesa irrinunciabile”, ripete Benedetto XVI. “Infatti il popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia”. Chi rinuncia alla tradizione e taglia il suo legame con il passato in nome di un culto modernistico del presente si priva al tempo stesso di ogni vera possibilità di “delineare un futuro”.
see u,
Giangiacomo
sabato 24 aprile 2010
Bonus, e il merito è premiato
Legare la retribuzione ai risultati aumenta la soddisfazione nei dipendenti
Produttività e meritocrazia sono facce della stessa medaglia. I manager del settore privato lo hanno capito molto tempo prima di politici e amministratori pubblici. Il dipendente aziendale che rende più del suo vicino di scrivania deve essere premiato. Oramai appare fin troppo chiaro che il livellamento generale tra tutti i collaboratori non porta da nessuna parte: non dà alcun valore aggiunto al sistema-impresa, non sprona al miglioramento perché non tende verso traguardi ambiziosi, e soprattutto è causa principale della grave stagnazione sui luoghi di lavoro.
Prima di ogni cosa, comunque, andrebbe precisato che cosa deve intendersi per premio di produttività e quando è opportuno che tale ‘riconoscimento’ venga corrisposto, almeno in via astratta. Non va dimenticato, infatti, che ogni caso è a sé e che le aziende, in fondo, sono un po’ come dei microcosmi, ciascuna dotata di sue particolari regole. Una definizione da manuale inizierebbe col dire che si tratta per lo più di benefits monetari, intascati dal dipendente al momento del raggiungimento di un certo obiettivo economico (fermo restando che ne esistono anche di non monetari). La cosa può sollevare alcune obiezioni. Va infatti detto che non si può giustificare il riconoscimento economico secondo l’assunto che il lavoratore ha svolto bene il proprio lavoro. Si dà per scontato che una persona assunta da un’azienda debba essere in grado di svolgere al meglio il compito che le è stato affidato, altrimenti perché tenerla? E’ evidente, allora, che l’assegnazione del bonus va a premiare dei risultati che, in qualche modo, sono andati oltre le normali aspettative. Tali riconoscimenti sono senz’altro motivo di orgoglio per chi li riceve.
I risvolti negativi
Ma cosa succede a chi ne è rimasto escluso? Quali le dinamiche all’interno del gruppo di lavoro? Se l’incremento reddituale è poca cosa, allora si può immaginare che quello stesso lavoratore possa non sentirsi affatto incoraggiato dall’assegnazione del premio. Se invece il premio è consistente, sono ipotizzabili forme di attrito tra i membri di uno stesso team di lavoro. Lo stato psicologico con cui un lavoratore affronta questo genere di situazioni è molto importante. Quando lo strumento del bonus, infatti, viene percepito dal lavoratore come una minaccia, o nel minore dei casi semplicemente come un esame, è evidente che l’obiettivo della sana competizione viene vanificato, col risultato di provocare delle vere e proprie ansie da prestazione. Il senso di frustrazione è destinato ad aumentare nel caso in cui si decida di stilare addirittura una classifica per rendere visibile il posizionamento di ciascun dipendente sulla base delle sue performance. La sensibilità di chi guida il team, in questi momenti, è fondamentale. Il pericolo può essere quello di far perdere affiatamento alla squadra. Il clima sereno, cordiale, collaborativo che sempre deve essere presente in azienda, potrebbe lasciare il posto ad invidia, pessimismo e scarsa autostima.
In generale, comunque, gli effetti positivi derivanti dall’assegnazione dei bonus superano di gran lunga gli “effetti collaterali”. Si pensi soltanto a quanti talenti potranno emergere, a quante preziose risorse si potranno incanalare nelle attività di ogni giorno. E ancora a quanti sforzi, attitudini, originalità vedranno finalmente la luce. E questo solo perché al dipendente è stata data certezza che il suo impegno non sarà vano ma riconosciuto e gratificato, non solo a parole.
I premi di produttività
Appurato dunque che il meccanismo incentivante delle imprese (oltre che di riconoscimento del merito) si fonda sull’assegnazione dei cosiddetti premi di produttività, occorre precisare che gli specialisti di settore (economisti ma anche gestori e valutatori delle risorse umane) sono soliti fare delle distinzioni. Ci si imbatte così in tutta una terminologia di difficile comprensione per i non addetti ai lavori: Profit Sharing, Gain Sharing, cottimo, una tantum, ecc. L’obiettivo, in questi casi, è duplice: si punta ad ottimizzare i livelli di prestazione e ad assicurarsi contemporaneamente la fidelizzazione del dipendente all’azienda. Va considerato, tuttavia, che rispetto ai bonus individuali, il rischio qui è di premiare anche chi all’interno del team di lavoro si è reso meno efficiente rispetto al collega. Nel gruppo è più facile ‘nascondersi’.
see u,
Giangiacomo
Produttività e meritocrazia sono facce della stessa medaglia. I manager del settore privato lo hanno capito molto tempo prima di politici e amministratori pubblici. Il dipendente aziendale che rende più del suo vicino di scrivania deve essere premiato. Oramai appare fin troppo chiaro che il livellamento generale tra tutti i collaboratori non porta da nessuna parte: non dà alcun valore aggiunto al sistema-impresa, non sprona al miglioramento perché non tende verso traguardi ambiziosi, e soprattutto è causa principale della grave stagnazione sui luoghi di lavoro.
Prima di ogni cosa, comunque, andrebbe precisato che cosa deve intendersi per premio di produttività e quando è opportuno che tale ‘riconoscimento’ venga corrisposto, almeno in via astratta. Non va dimenticato, infatti, che ogni caso è a sé e che le aziende, in fondo, sono un po’ come dei microcosmi, ciascuna dotata di sue particolari regole. Una definizione da manuale inizierebbe col dire che si tratta per lo più di benefits monetari, intascati dal dipendente al momento del raggiungimento di un certo obiettivo economico (fermo restando che ne esistono anche di non monetari). La cosa può sollevare alcune obiezioni. Va infatti detto che non si può giustificare il riconoscimento economico secondo l’assunto che il lavoratore ha svolto bene il proprio lavoro. Si dà per scontato che una persona assunta da un’azienda debba essere in grado di svolgere al meglio il compito che le è stato affidato, altrimenti perché tenerla? E’ evidente, allora, che l’assegnazione del bonus va a premiare dei risultati che, in qualche modo, sono andati oltre le normali aspettative. Tali riconoscimenti sono senz’altro motivo di orgoglio per chi li riceve.
I risvolti negativi
Ma cosa succede a chi ne è rimasto escluso? Quali le dinamiche all’interno del gruppo di lavoro? Se l’incremento reddituale è poca cosa, allora si può immaginare che quello stesso lavoratore possa non sentirsi affatto incoraggiato dall’assegnazione del premio. Se invece il premio è consistente, sono ipotizzabili forme di attrito tra i membri di uno stesso team di lavoro. Lo stato psicologico con cui un lavoratore affronta questo genere di situazioni è molto importante. Quando lo strumento del bonus, infatti, viene percepito dal lavoratore come una minaccia, o nel minore dei casi semplicemente come un esame, è evidente che l’obiettivo della sana competizione viene vanificato, col risultato di provocare delle vere e proprie ansie da prestazione. Il senso di frustrazione è destinato ad aumentare nel caso in cui si decida di stilare addirittura una classifica per rendere visibile il posizionamento di ciascun dipendente sulla base delle sue performance. La sensibilità di chi guida il team, in questi momenti, è fondamentale. Il pericolo può essere quello di far perdere affiatamento alla squadra. Il clima sereno, cordiale, collaborativo che sempre deve essere presente in azienda, potrebbe lasciare il posto ad invidia, pessimismo e scarsa autostima.
In generale, comunque, gli effetti positivi derivanti dall’assegnazione dei bonus superano di gran lunga gli “effetti collaterali”. Si pensi soltanto a quanti talenti potranno emergere, a quante preziose risorse si potranno incanalare nelle attività di ogni giorno. E ancora a quanti sforzi, attitudini, originalità vedranno finalmente la luce. E questo solo perché al dipendente è stata data certezza che il suo impegno non sarà vano ma riconosciuto e gratificato, non solo a parole.
I premi di produttività
Appurato dunque che il meccanismo incentivante delle imprese (oltre che di riconoscimento del merito) si fonda sull’assegnazione dei cosiddetti premi di produttività, occorre precisare che gli specialisti di settore (economisti ma anche gestori e valutatori delle risorse umane) sono soliti fare delle distinzioni. Ci si imbatte così in tutta una terminologia di difficile comprensione per i non addetti ai lavori: Profit Sharing, Gain Sharing, cottimo, una tantum, ecc. L’obiettivo, in questi casi, è duplice: si punta ad ottimizzare i livelli di prestazione e ad assicurarsi contemporaneamente la fidelizzazione del dipendente all’azienda. Va considerato, tuttavia, che rispetto ai bonus individuali, il rischio qui è di premiare anche chi all’interno del team di lavoro si è reso meno efficiente rispetto al collega. Nel gruppo è più facile ‘nascondersi’.
see u,
Giangiacomo
sabato 3 aprile 2010
Programmi estivi Phoenix Institute
carissimi lettori,
Vi prego di dedicare 2 minuti a questa mia comunicazione.
Vi segnalo i corsi estivi che si svolgeranno a Notre Dame e a Vienna, organizzati dal Phoenix Institute.
Il Phoenix Institute è un'accademia internazionale che intende formare giovani da tutte le parti del mondo sulla base dei principi di leadership, education, friendship.
Ho amici che hanno fatto questa esperienza per diverse estati e mi assicurano che è una esperienza autentica, sotto molti punti di vista.
Nel link che vi riporto la brochure completa di tutte le informazioni e la descrizione dei corsi.
http://www.thephoenixinstitute.org/seminars/reports/Phoenix_Institute_2010.pdf
Rimango a disposizione per ulteriori informazioni.
see u,
Giangiacomo
Vi prego di dedicare 2 minuti a questa mia comunicazione.
Vi segnalo i corsi estivi che si svolgeranno a Notre Dame e a Vienna, organizzati dal Phoenix Institute.
Il Phoenix Institute è un'accademia internazionale che intende formare giovani da tutte le parti del mondo sulla base dei principi di leadership, education, friendship.
Ho amici che hanno fatto questa esperienza per diverse estati e mi assicurano che è una esperienza autentica, sotto molti punti di vista.
Nel link che vi riporto la brochure completa di tutte le informazioni e la descrizione dei corsi.
http://www.thephoenixinstitute.org/seminars/reports/Phoenix_Institute_2010.pdf
Rimango a disposizione per ulteriori informazioni.
see u,
Giangiacomo
sabato 27 marzo 2010
Mi fido di Cota, non della Bresso nè dell'Udc!
CI FIDIAMO DI COTA, NON DELL’UDC
Rafforzati da un contatto quotidiano con i candidati e con i piemontesi che hanno seguito con passione la campagna “Alleanza per Cota” di Alleanza Cattolica, ribadiamo con ancora maggiore convinzione l’invito ai cattolici a votare Roberto Cota:
– perché sui valori non negoziabili della vita, della famiglia, della scuola il suo programma è in sintonia con quanto ci sta a cuore come cattolici, mentre la Bresso è per la banalizzazione dell'aborto, per il matrimonio omosessuale, per tagliare i sostegni alle scuole non statali;
– perché il programma di Cota sull'immigrazione è moderato e ragionevole, mentre il Piano Bresso sugli immigrati non protegge dai clandestini, non tutela i piemontesi e prende dalle tasche dei contribuenti quattro milioni di euro all’anno per ambigui carrozzoni regionali;
– perché Cota ha costantemente dimostrato il suo sostegno ai valori non negoziabili in Regione, in Parlamento e in campagna elettorale, mentre la Bresso ancora nelle ultime settimane ha firmato per la vendita in farmacia della pillola del giorno dopo senza ricetta e si è dichiarata “assolutamente d’accordo” con il matrimonio fra due lesbiche “celebrato” a Torino dal sindaco Chiamparino.
Alcuni ci chiedono che cosa pensiamo della posizione dell’UDC.
Per quanto nell'UDC ci siano certamente brave persone, pensiamo come cattolici di non potere in alcun modo sostenere l’UDC:
– perché chi fa la croce sull’UDC vota automaticamente il listino della Bresso, che comprende personaggi come Vincenzo Chieppa, segretario dei Comunisti Italiani che inneggia a Cuba e alla Corea del Nord, offre assistenza a chi stacca i crocefissi dalle aule scolastiche e sul suo sito offende il Papa e la Chiesa;
– perché chi fa la croce sull’UDC vota automaticamente la Bresso, le cui posizioni in materia di aborto, eutanasia, unioni omosessuali sono inaccettabili e sono al centro del suo programma;
– perché chi fa la croce sull’UDC sostiene una dirigenza dell’UDC che in Piemonte diffama il cattolico Cota accusandolo in modo assurdo di essere un adepto di “riti celtici del dio Po” e presentando in modo distorto le posizioni di Cota sull’immigrazione, che sono invece rispettose sia dei veri diritti degli immigrati regolari sia dell’identità cristiana delle nostre terre.
Questa dirigenza afferma che la Bresso ha sottoscritto con l’UDC un impegno a difendere “la vita e la salute”, ma non spiega che per la Bresso quella dell’embrione o dei disabili come Eluana Englaro non è vita, e che la salute per lei comprende l’aborto. Racconta pure che grazie all’UDC la Bresso ha escluso dalla sua coalizione Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani, che invece gli elettori troveranno regolarmente sulla scheda tra le liste coalizzate con la Bresso con tanto di falce e martello, in strana compagnia con lo scudo crociato dell’UDC, e del resto insieme anche alla lista Bonino-Pannella. L’invito dunque non cambia: resistendo alle sirene dell’astensione, del voto alle “brave persone” che ignora i principi e i programmi, e ai falsi “patti” con la Bresso che hanno il solo scopo di creare confusione, per la vita, per la famiglia, per la libertà di educazione, per una politica realistica dell’immigrazione votiamo Roberto Cota.
Torino, 18 marzo 2009
Alleanza Cattolica
Rafforzati da un contatto quotidiano con i candidati e con i piemontesi che hanno seguito con passione la campagna “Alleanza per Cota” di Alleanza Cattolica, ribadiamo con ancora maggiore convinzione l’invito ai cattolici a votare Roberto Cota:
– perché sui valori non negoziabili della vita, della famiglia, della scuola il suo programma è in sintonia con quanto ci sta a cuore come cattolici, mentre la Bresso è per la banalizzazione dell'aborto, per il matrimonio omosessuale, per tagliare i sostegni alle scuole non statali;
– perché il programma di Cota sull'immigrazione è moderato e ragionevole, mentre il Piano Bresso sugli immigrati non protegge dai clandestini, non tutela i piemontesi e prende dalle tasche dei contribuenti quattro milioni di euro all’anno per ambigui carrozzoni regionali;
– perché Cota ha costantemente dimostrato il suo sostegno ai valori non negoziabili in Regione, in Parlamento e in campagna elettorale, mentre la Bresso ancora nelle ultime settimane ha firmato per la vendita in farmacia della pillola del giorno dopo senza ricetta e si è dichiarata “assolutamente d’accordo” con il matrimonio fra due lesbiche “celebrato” a Torino dal sindaco Chiamparino.
Alcuni ci chiedono che cosa pensiamo della posizione dell’UDC.
Per quanto nell'UDC ci siano certamente brave persone, pensiamo come cattolici di non potere in alcun modo sostenere l’UDC:
– perché chi fa la croce sull’UDC vota automaticamente il listino della Bresso, che comprende personaggi come Vincenzo Chieppa, segretario dei Comunisti Italiani che inneggia a Cuba e alla Corea del Nord, offre assistenza a chi stacca i crocefissi dalle aule scolastiche e sul suo sito offende il Papa e la Chiesa;
– perché chi fa la croce sull’UDC vota automaticamente la Bresso, le cui posizioni in materia di aborto, eutanasia, unioni omosessuali sono inaccettabili e sono al centro del suo programma;
– perché chi fa la croce sull’UDC sostiene una dirigenza dell’UDC che in Piemonte diffama il cattolico Cota accusandolo in modo assurdo di essere un adepto di “riti celtici del dio Po” e presentando in modo distorto le posizioni di Cota sull’immigrazione, che sono invece rispettose sia dei veri diritti degli immigrati regolari sia dell’identità cristiana delle nostre terre.
Questa dirigenza afferma che la Bresso ha sottoscritto con l’UDC un impegno a difendere “la vita e la salute”, ma non spiega che per la Bresso quella dell’embrione o dei disabili come Eluana Englaro non è vita, e che la salute per lei comprende l’aborto. Racconta pure che grazie all’UDC la Bresso ha escluso dalla sua coalizione Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani, che invece gli elettori troveranno regolarmente sulla scheda tra le liste coalizzate con la Bresso con tanto di falce e martello, in strana compagnia con lo scudo crociato dell’UDC, e del resto insieme anche alla lista Bonino-Pannella. L’invito dunque non cambia: resistendo alle sirene dell’astensione, del voto alle “brave persone” che ignora i principi e i programmi, e ai falsi “patti” con la Bresso che hanno il solo scopo di creare confusione, per la vita, per la famiglia, per la libertà di educazione, per una politica realistica dell’immigrazione votiamo Roberto Cota.
Torino, 18 marzo 2009
Alleanza Cattolica
mercoledì 10 marzo 2010
sabato 9 gennaio 2010
Piemonte: i cattolici non salgono in Mercedes
Piemonte: i cattolici non salgono in Mercedes
La Bresso: una vita per la Rivoluzione
di Massimo Introvigne
Nota: Una versione lievemente diversa di questo articolo appare su "Libero" del l'8 gennaio. Raccomando la lettura anche per chi non è piemontese: l'attuale presidentessa della Regione Piemonte, candidata alla riconferma, offre il raro esempio di una vita tutta consacrata al servizio di quel processo di negazione teorica e pratica delle verità naturali e cristiane che la scuola cattolica contro-rivoluzionaria chiama Rivoluzione. Da questo punto di vista, l'esempio è da manuale e il rilievo del personaggio è nazionale.
La Bresso: una vita per la Rivoluzione
di Massimo Introvigne
Nota: Una versione lievemente diversa di questo articolo appare su "Libero" del l'8 gennaio. Raccomando la lettura anche per chi non è piemontese: l'attuale presidentessa della Regione Piemonte, candidata alla riconferma, offre il raro esempio di una vita tutta consacrata al servizio di quel processo di negazione teorica e pratica delle verità naturali e cristiane che la scuola cattolica contro-rivoluzionaria chiama Rivoluzione. Da questo punto di vista, l'esempio è da manuale e il rilievo del personaggio è nazionale.
“Non sono interessata a partecipare a questa corsa per accreditarsi verso il mondo cattolico. Non sono credente e non ho cambiato idea. Se mai decidessi di convertirmi, ma lo escludo, non abbraccerei certo la religione cattolica. Diventerei valdese, Perché i Valdesi hanno il senso della differenza tra fede e morale religiosa e il ruolo dello Stato. Fede e morale religiosa sono un fatto privato”. Sono affermazioni di Mercedes Bresso, candidata alla riconferma alla presidenza della Regione Piemonte, in una famosa intervista a La Stampa del 30 settembre 2005. “Ero seria, non era una provocazione”, ha confermato la Bresso – con riferimento alla battuta sui Valdesi – confessandosi al Corriere della Sera del 24 febbraio 2009.
L’anticlericalismo della “zarina”, come la chiamano a Torino per il piglio autoritario, viene da lontano. Da un’antica militanza radicale e dalla collaborazione con Emma Bonino quando quest’ultima – racconta la Bresso – “era vicepresidente del CISA, l’associazione che assicurava alle donne diritto all’aborto”: “con Franca Rame facemmo una dichiarazione di aborto. Fummo incriminate per autocalunnia” (intervista a Gay TV, 5.6.2009). Scelte confermate da una vita privata francamente rivelata nelle interviste: “Mi sono sposata due volte. Entrambe con rito civile” (ibid.). “Non ho figli perché non ne ho voluti. Sensi di colpa? Pas du tout” (Corriere della Sera, 16.4.2008).
Nonostante gli sforzi dell’UDC, il prodotto Bresso risulta invendibile a una Chiesa piemontese che non sembra davvero intenzionata a salire sulla Mercedes. Su tutti i temi che il Papa indica come “non negoziabili” – e che invita a far prevalere nelle scelte politiche su ogni altro argomento – le posizioni della Bresso sono antitetiche a quelle cattoliche. Radici cristiane, identità? No: “Stato laico come garanzia di una società sempre più multiculturale e multireligiosa. Su questo non sono disposta a transigere” (La Stampa, 30.9.2005). Come logica conseguenza, abolizione del Concordato: “I Patti Lateranensi?... Sì, sarebbe il momento di abolirli” (Corriere della Sera, 24.2.2009).
Aborto? Dalla vecchia militanza con Emma Bonino e Franca Rame, la Bresso è passata alla battaglia per la RU486. “La scelta della pillola abortiva rientra fra le opzioni previste da una legge dello Stato, la 194. Una soluzione dal punto di vista medico che permette alle donne di soffrire di meno” (La Stampa, 30.9.2005), dichiara la zarina, benché giuristi e medici smentiscano tutte e due queste affermazioni. E la Bresso non bada a spese (dei contribuenti) pur di promuovere la pillola che uccide, senza ricovero ospedaliero: “Sono contraria all’obbligo di ospedalizzazione, una volta assunta la pillola abortiva Ru486, per le donne che decidono di interrompere la gravidanza. Sono convinta che, sotto il profilo etico, non ci siano differenze tra l’interruzione di gravidanza terapeutica e quella farmacologica. Da questo punto di vista, un eventuale aggravio di costi per la Regione è del tutto indifferente” (dichiarazione del 6.8.2009, sul suo sito).
Caso Eluana? A suo tempo la Bresso si è offerta per farle sospendere l’alimentazione e l’idratazione in Piemonte: “Ovviamente saranno utilizzate strutture pubbliche perché quelle private sono sotto scacco del ministro [Sacconi]” (La Stampa, 20.1.2009). “Tutti sappiamo che la vita di Eluana è artificiale. Si sostiene che alimentazione e idratazione non sono trattamenti medici e questo è un falso” (L’Unità, 23.1.2009). E alle critiche del cardinale arcivescovo di Torino Severino Poletto ha risposto: “A Poletto, che richiama i medici cattolici alla obiezione di coscienza, chiedo: quale è la differenza tra l'Italia di oggi e gli stati clericali, come quello degli Ayatollah?” (Repubblica, 22.1.2009).
“Il disporre della propria vita e della propria morte rappresenta un diritto di libertà assoluto per l’individuo” (appello della sorella della zarina, Paola Bresso, condiviso e diffuso sul proprio sito dalla presidente il 4.3.2009). Le posizioni del centro-destra e della Chiesa sono liquidate come “assurdità e “sciocchezze” perché Eluana fa parte di una “coorte crescente di persone che non sono più né vive né morte e che in qualche modo trascinano i vivi con sé verso la morte, verso la disperazione” (video diffuso sul sito, 22.4.2009).
Famiglia? “Era seria quando ha detto che il gay pride vale una processione religiosa?
«Possono essere entrambe manifestazioni di orgoglio identitario»” (Corriere della Sera, 24.2.2009). A La Stampa la Bresso dichiara che per le coppie omosessuali “per quanto riguarda la Regione ci muoveremo per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e per combattere ogni discriminazione” (30.9.2005). Che cosa questo significhi davvero lo rivela al canale omosessuale Gay TV: “Per il momento [corsivo mio] credo si debba introdurre un provvedimento simile al Pacs che garantisca diritti veri. In prospettiva, compatibilmente con il necessario cambiamento culturale, credo che si debba pensare ad un riconoscimento vero e proprio come il matrimonio” (5.6.2009).
No, la Chiesa non salirà sulla Mercedes. Del resto, la Mercedes non la vuole. La Chiesa – si legge nell’appello redatto dalla sorellina Paola, sottoscritto e diffuso dalla Bresso il 4 marzo 2009 – è un’istituzione che vuole “imporre agli altri il proprio punto di vista, chiamato anche «verità»”. La zarina lancia il suo appello contro la presunta “trasformazione del ruolo pubblico della religione in offensiva politica da parte delle gerarchie ecclesiastiche” (ibid.). Cattolici: comprereste una Mercedes usata da questa signora?
Postilla: Qualche amico politicamente perplesso cui ho anticipato il testo mi ha risposto: “D'accordo. Ma il centro-destra non candida forse in Piemonte un esponente della Lega? E la Lega non è in contrasto con la Chiesa sull'immigrazione?”. A questa domanda sul piano dei principi per fortuna non devo rispondere io. Ha già risposto la Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, in una lettera ai vescovi degli Stati Uniti in occasione della campagna elettorale del 2004 (http://www.cesnur.org/2004/04_ratzinger.htm). Qui si contrapponevano democratici – quasi tutti abortisti, molti favorevoli all'eutanasia e molti contrari alla guerra in Iraq e alla pena di morte – e repubblicani, il cui partito era a maggioranza contro l'aborto e l'eutanasia ed era anche tutto favorevole alla guerra in Iraq e alla pena di morte. Superficialmente si sarebbero potute considerare le due posizioni dal punto di vista dei cattolici sullo stesso piano: il Papa (allora Giovanni Paolo II) era naturalmente contrario all'aborto e all'eutanasia ma era contrario anche alla guerra in Iraq e alla pena di morte. Ma sarebbe stato un errore, spiegava la Congregazione per la Dottrina della Fede, senza fare nomi di partiti ma enunciando i principi. Infatti “ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia”. Quelli in materia di vita e di famiglia sono “principi non negoziabili” e obbligatori in modo assoluto per tutti i cattolici. Il resto – che comprende questioni gravissime come la guerra e la pena di morte e dunque senz’altro l'atteggiamento sull'immigrazione – è materia “negoziabile” su cui “ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici”.
Questo per quanto riguarda il principio. Quanto al fatto, occorrerebbe studiare meglio il complessivo magistero della Chiesa in tema d’immigrazione, che non coincide con le dichiarazioni del tale o talaltro monsignore. Si dirà che il centro-destra avanza talora tesi scandalose come quella secondo cui sarebbe meglio aiutare gli immigrati a casa loro anziché farli venire in così gran numero da noi. Tesi come questa, forse? “La soluzione fondamentale [al problema dell'immigrazione] è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine”, anziché nella terra d’immigrazione. Solo che queste parole non sono di un esponente del centro-destra italiano. Sono di Benedetto XVI, 15 aprile 2008, sull'aereo che lo portava negli Stati Uniti.
see u,
Giangiacomo
domenica 3 gennaio 2010
Macché ecologista, Ratzinger rifugge dalle tesi sullo sviluppo sostenibile
“…la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! […] Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”. In molti hanno commentato il XLIII Messaggio per la giornata mondiale della pace di Benedetto XVI come una svolta ecologista del Magistero pontificio. Si tratta di una evidente forzatura, sebbene comprensibile, in quanto è innegabile che l’attuale Pontefice abbia offerto una coerente riflessione sociale nella quale in modo opportuno le questioni ambientali rivestono un ruolo di primissimo piano.
Dovendo selezionare alcuni elementi tra una miriade di sollecitazioni che suscita la lettura del Messaggio, riteniamo che un aspetto meriti di essere particolarmente sottolineato. Si tratta del nesso che Benedetto XVI stabilisce tra le questioni ecologiche, propriamente dette, e la cosiddetta “ecologia umana”: “I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri”. Ne consegue che Benedetto XVI acutamente incoraggia l’educazione ad una peculiare responsabilità ecologica, che, tuttavia, non cede mai alla retorica dello “sviluppo sostenibile” (dove la denatalità è la cifra della sostenibilità), ma che di contro si ponga come obiettivo principale la salvaguardia di un’autentica “ecologia umana”.
Il nesso di Benedetto XVI rinvia alla questione antropologica e non ad una, pur nobile, per quanto ancora cristianamente inadeguata, sociologia dell’“egualitarismo” di tutti gli esseri viventi. Con tale nesso, Benedetto XVI rinnova l’appello centrale della Dottrina sociale della Chiesa in ordine “all’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione”, oltre alla rivendicazione della “dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura”.
Gli argomenti del Pontefice sono quelli tradizionali della “teologia della Creazione”, argomenti che hanno contraddistinto in modo peculiare il Magistero sociale di Giovanni Paolo II: si considerino i temi del lavoro, del capitale, dell’impresa e del profitto analizzati nelle encicliche Laborem exercens (1981); Sollicitudo rei socialis (1987); Centesimus annus (1991). Benedetto XVI evidenzia la cifra autenticamente umana dello sviluppo, riprendendo quanto sostenuto nella recente enciclica Caritas in veritate (2009), nella quale scrive: “Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad ‘essere di più’. L'uomo non è un atomo sperduto in un universo casuale, ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto donare un'anima immortale e che ha da sempre amato”.
Il Messaggio di Benedetto XVI fa propria la cifra autenticamente umana dello sviluppo, una cifra che appare in stretta relazione con la dimensione antropologica dell’uomo, del suo essere creato ad immagine e somiglianza di Dio e di partecipare con il Creatore dell’Amore del Padre, un amore che, rendendoci figli, ci rivela la fratellanza con tutti gli uomini della terra e la vocazione ad amare il prossimo come Dio ci ama. La cifra è evidentemente rintracciabile nel mistero-scandalo della Croce, è quella la misura con la quale Dio ci ha amati e ci ama.
Tale prospettiva antropologica appare ancora più evidente quando il Pontefice afferma che “Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della ‘dignità’ di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo”. Al contrario, ci dice il Papa che la Chiesa invita ad aggredire le questioni ecologiche “in modo equilibrato”, rispettando in primis la “‘grammatica’ che il Creatore ha inscritto nella sua opera”. Tale grammatica affida all’uomo un ruolo di custode attivo e non di sciocco guardiano che abdica al suo ruolo di co-creatore; un ruolo che gli deriva dall’essere stato creato ad immagine e somiglianza del Creatore.
Il rispetto, la salvaguardia del mondo, non sono che il versante minimale di uno spazio di attivazione che è aperto all’uomo perché egli vi esplichi la propria creatività. La creazione non è solo ex nihilo, dal nulla, ma anche contra nihilum, cioè contro il nulla e l’inconsistenza delle cose. Benedetto XVI ci dice che la negazione ecologica non è soltanto un deturpare antiestetico le bellezze del creato, un rendere meno ridente o attraente il cosmo: è anche sottrarre all’uomo la possibilità di un incontro sereno e comunicativo con il reale; è sottrarre al reale stesso la propria possibilità di continuo perfezionamento.
di Flavio Felice (www.tocqueville-acton.org)
see u,
Giangiacomo
Dovendo selezionare alcuni elementi tra una miriade di sollecitazioni che suscita la lettura del Messaggio, riteniamo che un aspetto meriti di essere particolarmente sottolineato. Si tratta del nesso che Benedetto XVI stabilisce tra le questioni ecologiche, propriamente dette, e la cosiddetta “ecologia umana”: “I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri”. Ne consegue che Benedetto XVI acutamente incoraggia l’educazione ad una peculiare responsabilità ecologica, che, tuttavia, non cede mai alla retorica dello “sviluppo sostenibile” (dove la denatalità è la cifra della sostenibilità), ma che di contro si ponga come obiettivo principale la salvaguardia di un’autentica “ecologia umana”.
Il nesso di Benedetto XVI rinvia alla questione antropologica e non ad una, pur nobile, per quanto ancora cristianamente inadeguata, sociologia dell’“egualitarismo” di tutti gli esseri viventi. Con tale nesso, Benedetto XVI rinnova l’appello centrale della Dottrina sociale della Chiesa in ordine “all’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione”, oltre alla rivendicazione della “dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura”.
Gli argomenti del Pontefice sono quelli tradizionali della “teologia della Creazione”, argomenti che hanno contraddistinto in modo peculiare il Magistero sociale di Giovanni Paolo II: si considerino i temi del lavoro, del capitale, dell’impresa e del profitto analizzati nelle encicliche Laborem exercens (1981); Sollicitudo rei socialis (1987); Centesimus annus (1991). Benedetto XVI evidenzia la cifra autenticamente umana dello sviluppo, riprendendo quanto sostenuto nella recente enciclica Caritas in veritate (2009), nella quale scrive: “Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad ‘essere di più’. L'uomo non è un atomo sperduto in un universo casuale, ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto donare un'anima immortale e che ha da sempre amato”.
Il Messaggio di Benedetto XVI fa propria la cifra autenticamente umana dello sviluppo, una cifra che appare in stretta relazione con la dimensione antropologica dell’uomo, del suo essere creato ad immagine e somiglianza di Dio e di partecipare con il Creatore dell’Amore del Padre, un amore che, rendendoci figli, ci rivela la fratellanza con tutti gli uomini della terra e la vocazione ad amare il prossimo come Dio ci ama. La cifra è evidentemente rintracciabile nel mistero-scandalo della Croce, è quella la misura con la quale Dio ci ha amati e ci ama.
Tale prospettiva antropologica appare ancora più evidente quando il Pontefice afferma che “Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della ‘dignità’ di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo”. Al contrario, ci dice il Papa che la Chiesa invita ad aggredire le questioni ecologiche “in modo equilibrato”, rispettando in primis la “‘grammatica’ che il Creatore ha inscritto nella sua opera”. Tale grammatica affida all’uomo un ruolo di custode attivo e non di sciocco guardiano che abdica al suo ruolo di co-creatore; un ruolo che gli deriva dall’essere stato creato ad immagine e somiglianza del Creatore.
Il rispetto, la salvaguardia del mondo, non sono che il versante minimale di uno spazio di attivazione che è aperto all’uomo perché egli vi esplichi la propria creatività. La creazione non è solo ex nihilo, dal nulla, ma anche contra nihilum, cioè contro il nulla e l’inconsistenza delle cose. Benedetto XVI ci dice che la negazione ecologica non è soltanto un deturpare antiestetico le bellezze del creato, un rendere meno ridente o attraente il cosmo: è anche sottrarre all’uomo la possibilità di un incontro sereno e comunicativo con il reale; è sottrarre al reale stesso la propria possibilità di continuo perfezionamento.
di Flavio Felice (www.tocqueville-acton.org)
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