domenica 10 ottobre 2010

Ripartire da Aldo Moro

L’articolo è apparso su “Liberal” del 5 ottobre 2010

Circa trentacinque anni fa, tra le elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976, Aldo Moro comprese che erano ormai maturate le condizioni per il passaggio alla «terza fase». Essa doveva vedere lo sviluppo di nuove relazioni tanto tra sistema politico e società quanto tra attori politici. In sintesi: meno pervasività della politica nel primo caso, più competizione politica e meno centralismo nel secondo.
Tutto ciò era possibile perché il Paese era cresciuto, del Paese era cresciuta la politica, ma anche l’economia e la cultura. I cattolici erano stati protagonisti tanto della prima dimensione quanto della seconda.
Rispetto a trentacinque anni fa, completare quella transizione ci appare oggi compito non solo politico, ma anche politico, poiché la politica deve ad un tempo ritrarsi e riformarsi.
Ciò che ostacola il formarsi di una nuova generazione di politici cattolici non è la scomparsa delle vecchie forme, ma il tardare dell’affermarsi di nuove forme, di forme nuove nella relazione tra politica e società, di forme nuove nella regolazione di una maggiore competizione politica, di forme nuove di organizzazione della partecipazione politica.

Senza alcuna pretesa di esaustività, da questa ultima affermazione possono essere enucleati quattro punti. Per un verso o per l’altro, mi pare che questi temi siano stati toccati in modo molto coraggioso da alcuni recenti interventi su questo giornale di Rocco Buttiglione, e che abbiano ricevuto attenzione da parte di De Rita, di Pezzotta, di Antiseri e del rettore Ornaghi.

1. In questi trentacinque anni le resistenze alla transizione hanno spesso avuto successo. Il debito pubblico sta lì a misurare (per difetto) il costo imposto al paese da chi ha ostacolato la transizione da una società “meno aperta” ad una società “più aperta”. Così ci troviamo oggi alle prese con la necessità di chiudere la transizione in pessime condizioni economiche e sociali, globali ma più e prima ancora locali.

2. Per giocare davvero la partita politica della transizione occorre liberarsi non già della polarità destra/sinistra ma da una sua visione assiomatica. Né destra né sinistra sono bene o male in sé. Sturzo ebbe a destra il suo principale avversario (il fascismo), De Gasperi a sinistra (il comunismo): possiamo da ciò forse dedurre che Sturzo era di sinistra e De Gasperi di destra? Essi con coraggio e libertà ingaggiarono la battaglia che c’era da combattere e la combatterono. È così sempre, ovunque, per tutti i veri riformisti, per chi intende il centro non come il luogo delle rendite politiche pronte per qualsiasi trasformismo, ma come il luogo da cui gli elettori decidono di una competizione democratica.

3. Dopo la fine della Dc il mondo cattolico italiano ha spesso confuso pluralismo politico e disattenzione alla insopprimibile dimensione organizzata della partecipazione politica. Che poi questo sia avvenuto nella forma della mera irrilevanza od in quella scaltra degli «indipendenti di …» è del tutto irrilevante. Non si fa politica se non attraverso organizzazioni politiche, se non attraverso partiti. La stagione del pluralismo ha semplicemente reso pubblico che mai la fede e la Chiesa possono essere racchiusi in un partito, anche se sarebbe utile ricordare sempre che la storia del pluralismo politico dei cattolici non nasce dopo la Dc, ma con la Dc e prima ancora con il Partito popolare che fecero della azione politica di cattolici qualcosa di diverso dalla per altro pienamente legittima politica estera vaticana: non c’è rilevanza politica senza organizzazione politica.

4. Per comprendere la portata della dimensione politica della sfida in atto, completare la transizione, per i cattolici è fondamentale distinguere due istanze, entrambe legittime, ma diverse: la rappresentanza degli interessi ecclesiastici ed il raggio completo della sfida politica. Almeno da Sturzo, sappiamo che la seconda è cosa diversa e più ampia della prima. Con altrettanta chiarezza sappiamo che i cattolici hanno non la facoltà, ma il dovere di battersi perché anche dalla politica non manchi il contributo al bene comune. Un approccio identitario e rivendicazionista risulta del tutto inadeguato alla azione politica, tanto perché tende a minacciare il respiro e la libertà dell’azione della Chiesa quanto perché impedisce di cogliere tutta la legittima complessità del dovere politico rispetto al bene comune. Potremmo ben dire che, ai cattolici che accettano la sfida politica, la responsabilità per il bene comune impone davvero una vocazione maggioritaria. Essi non possono e non debbono limitare la loro azione a pochi temi, né la propria attenzione a pochi individui od a poche formazioni sociali. Questo si esprime anche in una visione dei rapporti politica/società (sussidiarietà verticale ed orizzontale), in una visione delle regole politiche (poteri limitati, responsabili, contendibili), in una giusta tensione a correre per vincere (agonismo della libertà). Nella paura per il bipolarismo, per tanti politici cattolici di lungo o breve corso si mescola la nostalgia per rendite indiviuali con un senso ingiustificato di insuperabile marginalità. Al contrario, in un paese ormai fatto solo di infinite minoranze quasi nessuno si candida a correre per la sfida politica vera, quella grande. In questo paese di frammenti forse dalla tradizione del cattolicesimo può nascere chi raccolga la sfida grande.

Luca Diotallevi – Membro del Comitato scientifico del Centro Studi Tocqueville-Acton. Vice Presidente Comitato Scientifico delle Settimane Sociali

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Giangiacomo

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