martedì 29 gennaio 2008

Tre priorità

attendiamo tutti la decisione (già presa...) di Napolitano

vorrei sottolineare tre priorità assolute a cui qualsiasi governo e qualsiasi elezione dovranno volgere!

- legge elettorale

- sicurezza

- rifiuti ambiente ed energia

see u,
Giangiacomo

domenica 27 gennaio 2008

Achmed the Dead Terrorist

aspettando la fine delle consultazioni...
qualche risata!






see u,
michel

Prodi è caduto...

speriamo si sia fatto male!

scusate la freddura...

see u,
Giangiacomo

lunedì 21 gennaio 2008

Invettiva

un importante amico mi ha scritto...

Eleonora forse ha ragione.
“A Napoli siamo circondati da ciò che il mondo è e produce: munnezz’”.
La situazione di emergenza di questi giorni a Pianura è solo la punta di un iceberg. Meglio, è una metafora del nostro paese. Un paese costantemente in emergenza, che si trova ad affrontare il problema solo quando esplode sui media o solo quando c’è da inviare l’esercito. Accade sempre così: si inizia a parlare di riduzione degli stipendi dei parlamentari dopo che un libro punta l’indice. Si iniziano a prendere provvedimenti negli stadi quando ci scappa il morto. Si fa mea culpa, proprio quando la situazione diventa irrecuperabile.
Si, vi avverto, questa è una invettiva contro il mio paese. Contro il paese che amo e odio allo stesso tempo. Contro quel paese che ha una classe dirigente piccola piccola, che gli italiani continuano a votare nonostante siano sempre gli stessi da 20 anni. Contro quel paese che, a fronte di un dinamismo associativo incredibilmente eterogeneo ed efficiente, non riesce a organizzare un movimento di piazza per dire basta a tutto questo (fatta eccezione per quella cosa chiamata girotondi). I fatti di questi giorni che disturbano i nostri pranzi e le nostre cene sono nulla di fronte al sottosviluppo dell’America Latina e dell’Africa subsahariana, alle pulizie etniche in Kenya, ai massacri in Darfur bendetti dai cinesi. Ma in quanto italiani, non possiamo fare finta di niente. I fatti di Pianura sono la metafora di un paese che vive sull’emergenza, incapace di programmare sul lungo periodo. Vi prego smentitemi, ditemi che sto sbagliando. Ditemi che abbiamo una classe politica che guarda al domani, che non pensa solo a fare un grezzo inciucio elettorale. Vi prego, persuadetemi. Non farò molte obiezioni come il professor Antiseri mi ha insegnato. Mi lascerò convincere.
Si, lo ammetto, questa è un’invettiva contro il mio paese. Il paese che amo e che odio allo stesso tempo. Il paese che risponde a Grillo e se la prende con Ruini quando non c’è nessun altro da buttare nel calderone. Che bello vedere in questi giorni lo spirito italico esercitarsi in una di quelle cose che ci riesce meglio: il sempreverde scaricabarile. La regione se la prende con il comune, il comune si arrabbia con il governo, l’assessore all’ambiente della regione è serenamente e pacatamente in vacanza, i verdi non c’entrano nulla, l’opposizione è irresponsabile, i media esagerano il problema (non ci sono le lettere maiuscole perché non le meritano). Per non parlare di alcuni parlamentari dell’opposizione, che non sono capaci nemmeno di strumentalizzare la questione per quanto sono distanti, fisicamente e nei contenuti, da ciò che avviene (mi verrebbe da dire, quale opposizione?).
Però, fra le tante accuse e urla di piazza, qualcuno dimentica la CAMORRA. Capisco la gente che vive nel timore della ritorsione, che è costretta a pagare il pizzo se vuole aprire un esercizio commerciale. Ma perché nessuno, “in alto”, parla di camorra dio santo? Perché i media nazionali, a cui ho smesso di credere da tempo, non parlano di quella cosa chiamata camorra? Perché non si fa uno speciale del TG1 sulle implicazioni del crimine organizzato nella gestione dei rifiuti? Forse perché l’unico che lo ha fatto è sotto scorta e non partecipa nemmeno ai convegni organizzati nelle università? Aspettiamo che il dossier lo faccia The Economist per poi dire che gli inglesi ci vogliono male e parlano sempre male di noi? Forse perché fa paura. Forse perché, come Falcone e Borsellino, lo hanno sempre scritto nelle loro memorie che bisogna rischiare la vita se si vuole liberare il paese dalla schiavitù della menzogna. Forse perché “o’ sistema”, sempre più indebolito nelle guerre intestine, ancora è riuscito a mantenere il business. Perché l’idiota Emilio dice solo che Prodi deve dimettersi ? Forse il centro destra avrebbe gestito meglio la cosa?
Da italiano, da figlio di una famiglia campana, sono profondamente rattristato. L’irresponsabilità di alcuni esponenti dell’attuale opposizione è semplicemente imbarazzante. L’incapacità del centrosinistra che ha governato comune e regione è quasi alla pari. La classe politica italiana, che la si chiami casta o meno, non è capace di assumersi una responsabilità. Non ne è capace.
Si, lo confesso, questa è un’invettiva contro il mio paese. Il paese che amo e che odio allo stesso tempo. Il paese che è preso per culo da mezzo mondo con le immagini di CNN e BBC. Anche al-Jazeera ha sospeso per qualche giorno i contatti con il jihad per occuparsi del tema. L’Europa ci deride.
Non credo che servisse il caso di Pianura per fare capire che il nostro Paese sta subendo un declino palese. Ma Pianura è servita per aumentare l’indignazione di chi scrive, questo si. Se dalla merda nascono ancora i fiori, allora speriamo che Pianura torni a essere colorata di Bellezza. Per far andare i bambini a scuola senza che si trovino un ratto nei corridoi. Per farli studiare e per far crescere dentro loro una rabbia sana. Una rabbia che un domani li porti a non essere schiavi dell’emergenza.

Antonio De Napoli
http://dintornididna.desus.it/

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Giangiacomo

domenica 20 gennaio 2008

La persecuzione dei cattolici nella Spagna repubblicana

Alberto Rosselli

LA PERSECUZIONE DEI CATTOLICI NELLA SPAGNA REPUBBLICANA
(1931 – 1939)

Edizioni Solfanelli, 2008

Prefazione di Mario Bozzi Sentieri

«Mai nella storia d'Europa e forse in quella del mondo, si vide un odio così accanito per la religione e i suoi uomini.» Così scrisse uno dei più noti studiosi della guerra civile spagnola, il laburista inglese Hugh Thomas, a proposito della persecuzione anti-cattolica e anti-cristiana perpetrata dal governo repubblicano spagnolo tra il 1931 e il 1939. Con questo breve saggio Alberto Rosselli, senza nulla concedere al sensazionalismo, ma citando contesti, documenti e memorie, fa luce su quella stagione dell'orrore, indicando motivazioni pregresse, pretesti, incomprensioni, mandanti e responsabili materiali e morali di quella che si rivelò una vera e propria strage premeditata. Il libro di Rosselli non ha tuttavia la pretesa di riscrivere o reinterpretare una drammatica pagina di storia. L'obiettivo ultimo che si pone l'autore è infatti quello di contribuire a mantenere viva la memoria storica e di indurre una riflessione sul significato autentico dei termini, oggi abusati, di libertà e tolleranza. Quello di Rosselli è un pacato invito a ragionare e a non dimenticare in nome della verità, dell'obiettività e della giustizia affinché si possa acquisire una salda e coraggiosa coscienza capace di discernere il bene dal male indipendentemente dalle proprie convinzioni ideologiche.

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Giangiacomo

giovedì 17 gennaio 2008

Università La Scemenza di Roma

D'ora in poi sarà per sempre L'Università La Scemenza di Roma.

C'è da dire che in un paese serio, con una classe politica con un briciolo di dignità, il governo sarebbe già caduto (opposizione, dove sei?).
Almeno Mussi avrebbe dovuto già dare le dimissioni, insieme al Rettore della Scemenza, e a 67 personaggi che non possono neanche dedicarsi ai lavori socialmente utili, come il recupero e la rieducazione di soggetti svantaggiati, per esempio i teppisti. Ne abbiamo visti tanti, in questi giorni, alla Scemenza. Non possono educare, quei 67, sono "educatori" tutti da rieducare, e d'altra parte, come fanno a non venir fuori teppisti, alla Scemenza, con cotanti educatori?
Cosa ha a che fare con l'università tutta questa gente?
E che ti dice invece, Mussi, il peggior ministro (ma perchè il meno contestato?) dell'Università che la storia italica ricordi? "Spero che questo errore l'Università italiana non lo commetta mai più". Cioè: la prossima volta che viene un Papa, speriamo vada meglio.
Strepitoso. Commovente. Profondo. Soprattutto, molto significativo.
Insomma, la monnezza da Napoli è salita a Roma, ed eccoci qua. E pensare che proprio sul viaggio del Papa avevamo intenzione di giudicare la Turchia. Dicevamo che se quel paese si fosse dimostrato intollerante in occasione della visita di Benedetto XVI, non se ne sarebbe dovuto accettare l'ingresso in Europa. E adesso, che si fa? Esportiamo La Scemenza in Turchia? Non la vogliono. Là sono più civili.

Due proposte:

Per capire l'antefatto, un pezzo di Renato Farina: www.clonline.org/articoli/ita/libero130108farina.pdf

La seconda. Visto che a Benedetto XVI è stato impedito di parlare, domenica prossima, tutti in Piazza San Pietro ad ascoltarlo! La piazza deve essere più piena del solito: tutti quanti là, dobbiamo trovarci, domenica mattina all'angelus.

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Giangiacomo

mercoledì 16 gennaio 2008

Articolo 21 della Costituzione Italiana

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”

Non è una dichiarazione di qualche personalità, bensì l'art. 21 della Costituzione repubblicana, che compie 60 anni in questi giorni e ieri è stata clamorosamente sbugiardata e vilipesa dai facinorosi che non hanno reso possibile la visita del Papa alla “Sapienza”.

Credo di interpretare il sentimento comune nel dire che oggi ci vergogniamo di essere italiani, di essere ostaggio di una minoranza di ignoranti e intolleranti, che stanno facendo perdere la dignità a questo paese.
Abbiamo sempre pensato che la Cuba di Fidel Castro fosse l'emblema moderno di un’ideologia totalitaria, sconfitta dalla storia. Ebbene, dieci anni fa la “comunista” Cuba e il suo “lider maximo” hanno ricevuto con tutti gli onori Papa Giovanni Paolo II. Oggi, l'Italia guidata da Prodi non è in grado di garantire l'ordine pubblico per una visita del Santo Padre all'Università più grande di Roma e (fino a ieri) tra le più prestigiose d'Europa.
La deriva che sta seguendo questo Paese è pericolosissima: dal crocifisso alle battaglie etiche, dalla moratoria sull'abortoalla difesa delle nostre tradizioni stiamo cedendo sui valori, ostaggi di una cultura laicista che rifiuta il confronto, che non accetta posizioni diverse dalle proprie. Si sta facendo strada un messaggio devastante: la cultura della tolleranza vale per fare parlare un imam musulmano che predica il fondamentalismo e la guerra santa contro l'occidente, non vale quando il capo della religione più radicata, da millenni in questo Paese, è invitato a esprimere i propri pensieri in un luogo che dovrebbe essere per antonomasia sede di confronto di idee.
La rabbia per quanto accaduto aumenta pensando in quali ambienti e di fronte a quali “cattivi maestri” i nostri figli rischiano di formarsi e venire magari emarginati perché portatori di valori e ideali che questi massimalisti e giacobini degli anni 2000 ritengono ormai retaggio della storia.

In pochi giorni questo Paese somma due vergogne planetarie (i rifiuti di Napoli e l'intolleranza laicista), che ci pongono nel ridicolo di fronte alla comunità internazionale.

Non può passare inosservata o sotto silenzio questa ennesima prova della peggior cultura liberticida di un “branco di asini” (libera citazione dall’intellettuale Giuliano Ferrara), che ha pure la pretesa di formare le nostre coscienze.

W la libera espressione (di tutti!)

see u,
Giangiacomo

martedì 15 gennaio 2008

Sapienza, un'altra vergogna per l'Italia

I Papi hanno potuto parlare ovunque nel mondo (Cuba, Nicaragua, Turchia, etc.).
L'unico posto dove il Papa non può parlare è La Sapienza, un'università fondata, tra l'altro, proprio da un pontefice.

Questo mette in evidenza due fatti gravissimi:

1) l'incapacità del governo italiano a garantire la possibilità di espressione sul territorio italiano di un Capo di Stato estero, nonché Vescovo di Roma e guida spirituale di un miliardo di persone. Piccoli gruppi trovano, di fatto, protezioni anche autorevoli nell'impedire ciò che la stragrande maggioranza della gente attende e desidera;

2) la fatiscenza culturale dell'università italiana, per cui un ateneo come La Sapienza rischia di trasformarsi in una "discarica" ideologica.

Come cittadini e come cattolici siamo indignati per quanto avvenuto e siamo addolorati per Benedetto XVI, a cui ci sentiamo ancora più legati, riconoscendo in lui il difensore - in forza della sua fede - della ragione e della libertà.

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Giangiacomo

lunedì 14 gennaio 2008

La sanità è in pensione

Il regno degli over sessanta dove la previdenza si mangia tutto. È l'Italia. Un paese per vecchi.


«Se vuole mantenere una sanità di qualità l'Italia deve inevitabilmente riequilibrare la composizione della sua spesa per la protezione sociale: oggi la fetta dedicata alla spesa pensionistica è nettamente superiore alla media europea, mentre quella che riguarda la spesa sanitaria è leggermente inferiore. Quanto al disagio dei medici e del personale sanitario di fronte alla gestione iperamministrativa e ipercontabilistica della sanità, di cui è richiesto anche a loro di farsi carico, è giustificato. Ma non sempre e non del tutto: i casi di prescrizioni inappropriate e di sprechi negli interventi sono reali, e su questo anche i medici sono chiamati ad esercitare una responsabilità». Angelo Carenzi dosa le parole come chi sa quant'è sfaccettato il tema di cui si discute e quanto delicata la responsabilità che gli è stata affidata. Non per niente è direttore del Centro europeo di formazione per gli affari sociali e la sanità pubblica (Cefass) che rappresenta l'antenna italiana dell'Eipa (l'Istituto europeo di amministrazione pubblica) e che ha prodotto due preziosi rapporti, nel 2003 e nel 2005, sulla crisi del welfare in Europa. Ed è vicepresidente di Federsanità-Anci, la Federazione di Aziende Usl e ospedaliere e di Comuni creata nel 1995 con l'intento di contribuire al processo di aziendalizzazione e di integrazione dei servizi sanitari innescato a partire dall'inizio degli anni Novanta.Nel suo rapporto del 2005 dal titolo Il welfare in Europa: i principali fattori di una crisi, a cura dello stesso Angelo Carenzi, della compianta economista spagnola Maite Barea e di Giancarlo Cesana, il Cefass metteva in chiaro quali fossero i megatrend che rendevano la partita del welfare in Europa, soprattutto per quanto riguardava i bilanci della sanità, un match dal pronostico ampiamente sfavorevole: nel 1950 in Europa c'era un pensionato ogni 11 lavoratori; oggi ce n'è uno ogni 3; nel 2050 ce ne sarà uno ogni 1,5. Per quanto riguarda l'Italia, la spesa per pensioni risultava rappresentare il 41,6 per cento di tutta la spesa per protezione sociale nel 2002, il valore più alto nella Ue dei 15 e ben 8 punti più della media europea (33,6 per cento). «L'Europa sta cercando di affrontare questa sfida con linee guida concordate a Bruxelles, la cui adozione nei contesti nazionali viene poi caldamente raccomandata ai paesi membri. Fra esse l'allungamento della vita lavorativa e l'espansione del lavoro femminile sono di capitale importanza per la sostenibilità del welfare europeo. Già adesso in tutte le statistiche relative ai problemi pensionistici la Ue utilizza come indicatore l'età di 65 anni, perché prevede che prima o poi tutti i paesi la adotteranno come età pensionabile. Naturalmente è un discorso delicato, che non può essere portato avanti con applicazioni automatiche, ma tenendo conto di tutte le flessibilità che devono accompagnare l'allungamento dell'età lavorativa fino a 65 anni. Però la direzione, anche per l'Italia, è sicuramente quella».Lo spostamento in avanti dell'età pensionabile e l'incentivazione del lavoro femminile non sono gli unici strumenti per liberare un po' di risorse da destinare ai bilanci della sanità, ma sono indispensabili perché la sanità moderna è fatalmente destinata a costare sempre di più. L'aumento di domanda sanitaria, spiega Carenzi «è dovuto a tre fattori. Il primo è che la gente è sempre più consapevole delle possibilità di cura e le richiede. Il secondo è l'invecchiamento della popolazione: una persona che supera i 65 anni "consuma" 4-5 volte più sanità di una persona che non ha superato quella soglia. Sopra i 65 anni il costo sanitario esplode a causa delle esigenze diagnostiche e terapeutiche che generalmente si presentano a partire da quell'età. Ora, sappiamo tutti che in Europa sia il numero assoluto che la percentuale degli anziani ultrasessantacinquenni rispetto al totale della popolazione è in continuo aumento. Infine, il terzo fattore è dato dall'innovazione tecnologica e farmacologica: i nuovi ritrovati sanitari sono molto efficaci ma anche molto costosi».Effettivamente l'aumento della cifra assoluta degli ultrasessantacinquenni fra il 2000 e il 2050 oscillerà fra il 56 e il 76 per cento a seconda dei paesi. Quanto alla loro incidenza sulla popolazione Ue totale, si pensi che nel 1990 era pari al 14,6 per cento, ma nel 2005 era già salita al 17,2 per cento e si prevede che sarà del 18,1 nel 2010, del 19,4 nel 2015 e del 20,7 nel 2020. L'Italia, poi ha già oggi il record mondiale assoluto con un'incidenza del 19,4 per cento. Premesso giustamente tutto ciò, va detto che la ragione immediata della frustrazione e dello scontento degli operatori sanitari, medici soprattutto, sta in un altro strumento di razionalizzazione delle risorse, che è poi quello di cui lo stesso Carenzi è uno specialista: l'aziendalizzazione della sanità. I medici si lamentano di essere costretti ad adempimenti amministrativi, tutti finalizzati al contenimento dei costi, che snaturano la loro missione. Il sistema dei tetti di prestazione rimborsate per azienda ospedaliera o per Usl, poi, grida vendetta al cospetto del cielo: arrivata al tetto prefissato, l'azienda non rende più il servizio richiesto, normalmente rinviandolo all'anno di bilancio successivo. Certe liste di attesa si spiegano così. Carenzi la vede in questo modo: «La frustrazione dei medici è comprensibile in tutti quei casi in cui non è stato trovato il giusto equilibrio fra la visione clinica, che è tipica del medico, e le esigenze di razionalizzazione ed efficienza dell'azienda sanitaria. I medici hanno l'impressione di subire imposizioni dettate da una logica estranea alla professionalità del medico e all'interesse del paziente. La strada giusta è quella di considerare il controllo di gestione, che ha lo scopo di contenere i costi, come una parte del progetto complessivo di sviluppo della qualità del servizio e del valore dell'ospedale, non il tutto a cui va sacrificata ogni altra esigenza».La fiera del cesareoSpezzata una lancia a favore dei medici, ci sono però anche da mettere i puntini sulle "i" riguardo a una serie di fenomeni che implicano una responsabilità da parte dei camici bianchi. «Gli antibiotici somministrati per via orale sono efficaci come quelli iniettabili, ma in Italia c'è una Regione dove la somministrazione di antibiotici iniettabili era fino a poco tempo fa ben dieci volte superiore alla media nazionale! Guarda caso, quegli antibiotici sono molto più costosi, e dunque i rimborsi sono più cospicui, degli antibiotici per via orale. L'Oms considera "golden standard" che si verifichino 15 parti cesarei ogni 100 parti normali. Ma in Italia tutte le regioni si trovano sopra questo standard, e in una Regione addirittura abbiamo avuto 56 parti cesarei ogni 100 parti normali! Naturalmente i cesarei ricevono rimborsi più ricchi dei parti normali. I medici non possono chiamarsi fuori rispetto a queste realtà». Effettivamente, non tutto ciò che è controllo di gestione rappresenta un'ingerenza nell'autonomia del medico e un tentativo di negare cure a chi ne ha bisogno. Secondo uno studio di qualche anno fa dell'Agenzia sanitaria della Regione Emilia-Romagna, la prescrizione della mineralometria ossea computerizzata (moc) come primo esame risulta inappropriata nel 52,7 per cento dei casi, e come follow-up nel 24,2 per cento. C'è materia per riflettere. «I medici non devono essere ridotti a fare i contabili, ma è giusto che la loro azienda fornisca loro tutti i dati relativi al lavoro che svolgono, inclusi i costi che esso comporta, perché questo stimola il loro senso di responsabilità. Si sentiranno motivati a raggiungere i migliori risultati coi mezzi meno costosi, a perseguire una sempre maggiore appropriatezza delle prescrizioni». Detto così, suona molto bene. Poi agli onori delle cronache balzano i casi come quello del prof. Vitali che abbandona il Niguarda in polemica con l'eccessiva aziendalizzazione della sanità italiana. E i discorsi dominanti prendono tutta un'altra piega.


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Giangiacomo

domenica 13 gennaio 2008

Napoli: la serietà al governo

Come ha detto Berlusconi al Corriere della Sera, "Uno Stato che non garantisce la legalità e tollera, per di più così a lungo, una situazione come quella di Napoli, pericolosa per la salute dei cittadini e dannosa per il turismo, e quindi per l’economia dell’intero Paese, non è più degno di chiamarsi Stato, in quanto ha perso la sua legittimazione... In 15 anni questi signori che hanno amministrato Napoli e la Campania approfittando dell’emergenza hanno costruito, con migliaia di assunzioni e con enorme spreco di soldi pubblici, un colossale e inammissibile sistema di clientele. Se fossero stati di Forza Italia avremmo avuto già da tempo la preoccupazione di portargli le arance".
E pensare che "La serietà al governo" era lo slogan dei manifesti elettorali di Romano Prodi.
La stiamo vedendo da un anno e mezzo a questa parte, tutto il mondo la vede in diretta da giorni e giorni con la situazione in Campania.

In Italia però non ci sono solo i guasti provocati dal governo. Ci sono anche dibattiti e riflessioni importanti, come quella lanciata da Giuliano Ferrara, con la sua proposta di moratoria mondiale sull’aborto. Il direttore del Foglio ne discuterà lunedì prossimo, 14 gennaio, alle 18.30, al Teatro Dal Verme di Milano, in un incontro pubblico organizzato a cura di Sandro Bondi.
Un’occasione per approfondire una questione delicata e fondamentale per la civiltà umana.

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Giangiacomo

Rifiuti: vergogna per l'Italia?

Il premier Prodi: "Vergogna per l'Italia da risolvere insieme".

E una vergogna per l'Italia che tu devi risolvere!
è colpa tua
è colpa di Bassolino
è colpa di voi "rossi".

cara Mortadella, fai attenzione alle parole che usi: sei una persona squallida e, visto il tema, sudicia!

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Giangiacomo

Demagogia sui salari

Il governo Prodi continua a fare demagogia sui salari.
La promessa di una riduzione del peso fiscale è in totale contraddizione con quanto realizzato fino ad oggi.
Il Protocollo sul welfare e pensioni, infatti, ha rappresentato una stangata per le nuove generazioni. Le buste paga degli oltre 700 mila giovani under 35 con rapporti di lavoro flessibile (collaboratori a progetto, di giornali e occasionali) sono state ulteriormente alleggerite dagli aumenti delle aliquote contributive.

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Giangiacomo

giovedì 10 gennaio 2008

Risanare la sanità italiana: una visione obiettiva dall'interno

I media parlano di loro solo quando fumano nei corridoi o sbagliano un intervento, ma quali sono i problemi che i medici italiani vivono sul campo?

Che problemi si trova oggi ad affrontare un medico? «Non certamente quelli delle quote rosa o dei mozziconi di sigarette», sghignazza Cristiano Hüscher, cardiochirurgo celebre per la sua perizia tecnica e per il carattere focoso e diretto, che attualmente opera all'università del Molise di Isernia. Oggi di ospedali si parla sui giornali per denunciare casi di sporcizia nei corridoi (l'Espresso dopo il caso dell'Umberto I di Roma ha scelto settimana scorsa di raccontare le malefatte del Gaslini di Genova) o la mancanza di donne medico fra i reparti. «Uomo o donna, che importa? La questione è se è preparato o meno», taglia corto Hüscher. Non che l'igiene non sia importante, chiosa, «ma esistono problemi più urgenti e profondi da risolvere se vogliamo una sanità che funzioni». Quali? «La preparazione dei medici. Abbiamo un 10, 20 per cento di dottori preparati, il resto lo potremmo far rientrare nella categoria dei "sindacalizzati e inamovibili". Non disponiamo di incentivi economici per farli lavorare, non possiamo assumerli se non attraverso concorsi pilotati dalla politica». E poi «siamo troppi». Dal suo punto di vista, cioè dal punto di vista di uno che ha eseguito circa 25 mila interventi, Hüscher si domanda: «Come può essere esperto un medico che esegue solo tre, quattro interventi all'anno? Il numero eccessivo di dottori è il frutto amaro del '68, dell'università di massa, e lo sostengo io, che nel '68 ero in piazza a protestare contro i baroni». Oggi Hüscher ha cambiato idea: «Alla Sapienza di Roma avevamo cento primari per dieci malati, un assurdo. Come è un assurdo che in ogni ospedale d'Italia la spesa sia così suddivisa: il 90 per cento per il salario dei dipendenti, il 10 per cento per il materiale e gli strumenti. E quando ci sono problemi di budget che si fa? Si va a tagliare sul 10 per cento». È vero che esistono gli sprechi, «ma con percentuali così diverse è inutile continuare a intervenire solo sulla spesa per gli strumenti, o si mette mano anche ai salari o non c'è futuro». L'avvenire nero prospettato da Hüscher necessita di una rivoluzione. «Ma attenzione, non solo su un piano di gestione o di educazione tecnica: il disastro maggiore che vedo è sul piano morale. C'è una grave carenza di attenzione da parte dei medici alla persona. Quando parlo ai miei studenti di quella "tenerezza" che Giuseppe Moscati diceva essere il primo compito del medico, loro sbadigliano, come se parlassi di questioni d'altri tempi. Vogliono imparare il "come", la tecnica operatoria, ma non ascoltano quando spiego loro il "perché", il motivo e l'atteggiamento da avere di fronte al malato». Demetrio Vidili, primario della Rianimazione all'ospedale Santissima Annunziata di Sassari, la vede così: «L'aspetto più difficoltoso è riuscire a "quantificare" la salute. Esiste la malasanità ed esistono gli sprechi, però mettere sempre al centro come missione dell'ospedale non la salute dei pazienti ma il risparmio comporta una ricaduta negativa sui malati stessi. Se non hai gli strumenti adatti come puoi curare adeguatamente?». Non è l'unica cosa che non va, secondo Vidili: «Una certa burocratizzazione della figura del medico ha avuto come risultato che il dottore oggi passa più tempo a compilare fogli che ad assistere i malati». «Il paradosso è che c'è più gratificazione a operare gratuitamente in Bangladesh che, retribuiti, in Italia». La provocazione è usata da Andrea Di Francesco, chirurgo maxillofacciale all'ospedale Sant'Anna di Como, per spiegare che «purtroppo in Italia l'organizzazione degli ospedali è poco funzionale alla missione del medico». Di Francesco è fondatore e presidente di "Progetto sorriso nel mondo", associazione che da dieci anni opera nei paesi del Terzo Mondo. «Milleottocento interventi e 5 mila prestazioni mi hanno illuminato: in Italia esiste ormai una sovrastruttura burocratica che ostacola il medico, che lo mette in difficoltà nello svolgere il suo lavoro. Non voglio apparire presuntuoso né ho ricette magiche per cambiare la situazione, ma è un fatto che ho trovato più semplice - e operando secondo norme internazionali ben definite e in situazioni spesso molto pericolose - lavorare in Bangladesh che in Italia».
Il presente non è così nero
Per Alberto Dragonetti, otorinolaringoiatra e direttore dell'unità operativa all'ospedale San Giuseppe di Milano, «esistono senz'altro sprechi di risorse ed eccessi di burocratizzazione del sistema, ma il panorama attuale non è così nero. Certo che c'è una sovrastruttura elefantiaca e costosa che deprime la professionalità, ma non ci si può focalizzare solo su ciò che non va. è vero che spesso le risorse sono utilizzate più per sostenere la burocrazia che non la ricerca o l'innovazione ed è vero che oggi il medico è sempre meno "protagonista" all'interno del mondo sanitario, ma dal mio punto di vista non credo sia questo il problema. Esiste un fatto che è insopprimibile e che è il rapporto medico-paziente. Nessuna aziendalizzazione può influire su questo perché chi cura sarà sempre il medico e mai il manager». Quindi, le rogne ci sono «ma, soprattutto in certe realtà, il medico può lavorare e lavorare bene».
Eppure qualcosa da fare ci sarebbe
Pasquale Cannatelli è il direttore generale dell'ospedale Niguarda di Milano. Recentemente, una delle punte di diamante del suo ospedale, il cardiochirurgo Ettore Vitali, ha annunciato che lui, da sempre un "pasdaran del pubblico", lascerà per andare a lavorare nel privato, stanco delle rigidità che il sistema impone. Tuttavia, lo stesso Vitali ha avuto parole di grande elogio per Cannatelli, cui ha riconosciuto intelligenza e abilità nell'amministrare l'ospedale. Cannatelli ringrazia e commenta: «Auguro a Vitali ogni fortuna per la sua sfida professionale. Sicuramente esistono delle rigidità nel sistema pubblico rispetto al privato, ma è anche vero che non tutto il pubblico - soprattutto in Lombardia - è così inefficiente. Quando partecipo a convegni con altri direttori generali di altre regioni e spiego come operiamo in Lombardia mi dicono che io "vengo dalla luna"». Per Cannatelli va ripensato l'ospedale secondo una nuova prospettiva: «Deve diventare il luogo della cura della fase acuta. Le tecnologie attuali ci permettono di intervenire prima sul malato e di seguirlo poi lasciandolo a casa e non dovendolo per forza tenere in un letto dell'ospedale. Viviamo una fase molto delicata: l'innalzamento dell'età media ha portato all'esplosione della spesa sanitaria. In più abbiamo a disposizione certe cure che sono efficaci (penso a certi cicli oncologici), ma anche molto costose». Come tenere in equilibrio costi e prestazioni? «Un modo c'è - dice Cannatelli - ed è la costruzione di una rete che, con altri soggetti, permetta la prevenzione prima e la cura domiciliare poi». è l'uovo di Colombo per quanto riguarda i costi. «Un ospedale in rete fa risparmiare». E anche per quel che riguarda la qualità della cura: «Si va verso un modello più personalizzato, più adeguato alle esigenze del malato».

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Giangiacomo

lunedì 7 gennaio 2008

I numeri che sbugiardano il moralizzatore di Sicko

Uno dei numeri che più spesso vengono lanciati in faccia all'interlocutore nei dibattiti sul sistema sanitario americano è quello relativo ai "non assicurati", ossia coloro che non usufruiscono dei rimborsi delle principali assicurazioni sanitarie: in tutto 45 milioni di persone. La cifra incarnerebbe l'incapacità degli Stati Uniti di provvedere i servizi sanitari a una vasta platea di suoi cittadini. Basandosi su dati del Census bureau e del dipartimento della Sanità lo scrittore e polemista Mark Steyn ha cercato di demitizzare l'argomento. «Il 37 per cento di coloro che non sono assicurati, cioè 17 milioni di persone, appartiene a nuclei familiari con un reddito superiore ai 50 mila dollari annui, e di questi 8,7 milioni guadagnano più di 75 mila dollari all'anno», ha scritto per spiegare che c'è una fetta di americani che restano fuori dal sistema delle assicurazioni perché abbastanza ricchi da permetterselo e non il contrario. Lo dimostrerebbe ancora meglio il fatto che nel decennio 1995-2005 il numero dei non assicurati con un reddito annuo inferiore a 25 mila dollari è diminuito del 20 per cento, mentre quello dei non assicurati con reddito superiore ai 75 mila è aumentato del 155 per cento.
La cifra non ha il significato che le viene spesso attribuito anche perché, scrive ancora Mark Steyn, «nove milioni di persone non assicurate godono della copertura sanitaria di Medicare. Altri 9 milioni sono stranieri residenti negli Usa», molti dei quali in caso di malattie serie tornano al paese d'origine per godere di cure pubbliche gratuite, come fanno normalmente i canadesi e come fa il giovane francese presentato nel recentissimo film di Michael Moore Sicko. Inoltre dai dati del Census bureau si rileva che 18 milioni di non assicurati hanno un'età compresa fra i 18 e i 34 anni: ossia si tratta di persone che in buona parte ritengono che non sia conveniente assicurarsi. Infine, Jim Kenefick scrive che «solo la metà dei non assicurati resta senza assicurazione per più di sei mesi di seguito».

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Giangiacomo

domenica 6 gennaio 2008

E ora non lasciamo morire la democrazia pakistana

Una strage annunciata. Benazir Bhutto era stata condannata a morte da Ayman al Zawahiri, lo stratega di Al Qaida, insieme ai dirigenti sunniti dell'Irak che collaborano con il governo democratico, ai politici libanesi che vogliono disarmare le milizie fondamentaliste, ai dirigenti palestinesi che rifiutano la dittatura di Hamas. Ma attenzione: Benazir è stata assassinata a pochi giorni dalle elezioni non per il suo passato socialista e laico ma perché si avviava a vincere dopo avere aperto un dialogo con l'islam non fondamentalista. Nell'ultima intervista rilasciata prima di morire Benazir proclamava la sua fede islamica, su cui annunciava un prossimo libro dove avrebbe proposto un'alternativa al fondamentalismo, esprimendo perfino apprezzamento per Benedetto XVI e per il suo appello a un islam che sappia riannodare le fila di un dialogo fra fede e ragione. Non è neppure troppo importante se fosse sincera o se l'apertura alla religione le fosse stata suggerita da abili consiglieri, pakistani o statunitensi. In politica contano i programmi pubblici, non i dubbi privati. E su un programma che coniugava modernità, alleanza con l'Occidente e identità islamica la Bhutto stava raccogliendo i consensi della maggioranza dei pakistani.Che cosa succederà, ora, in Pakistan? Come reagirà l'Occidente? La tentazione è quella di annunciare brutalmente ai pakistani che il loro sogno di democrazia è finito, e che per contrastare i terroristi occorre tornare a una dittatura militare, non importa se incarnata da Musharraf o da qualcun altro. È una posizione che non è completamente irragionevole, che ha sostenitori all'interno dell'amministrazione Bush e in due partner economico-politici di cui il Pakistan non può fare a meno, la Cina e la Russia. Ma è una posizione sbagliata. Non solo - secondo l'intuizione fondamentale di Condi Rice, che rimane valida - le dittature creano terrorismo, ma in Pakistan i dittatori hanno sempre trattato sottobanco con i terroristi. Il ritorno alla dittatura militare non fa paura ai terroristi, anzi è quello che vogliono. E non devono averla vinta.Dal Libano all'Irak al Pakistan il terrorismo colpisce perché non sta vincendo, ma perdendo. Sul terreno militare principale, l'Irak, ha subito durissimi colpi. Ma anche altrove - in Libano, in Algeria, nello stesso Pakistan - la gente ne ha abbastanza delle bombe, e la popolarità degli ultra-fondamentalisti è ai minimi storici. Resistendo alla tentazione di appoggiare un golpe, l'Occidente deve insistere perché in Pakistan si voti, magari perché dopo le elezioni nasca un governo di grande coalizione che metta insieme gli eredi di Benazir, le due anime della storica Lega Islamica che fanno capo a Musharraf e a Sharif (depurate dai corrotti e da chi traffica con i terroristi) e anche quella parte dell'islam politico che ripudia senza condizioni la violenza. Benazir è morta, ma la democrazia nel mondo islamico non può e non deve morire.

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Giangiacomo

venerdì 4 gennaio 2008

Il relativismo dominante

Il New York Times, in un articolo di prima pagina del 13 dicembre, ha affermato che l'Italia è a rischio di un generale e inarrestabile declino. Gli aspetti della crisi valutati nell'indagine sono molti, ma, in realtà, tutti riconducibili a un'unica grande causa: il venire meno di spirito ideale che si manifesta in alcuni aspetti rilevanti della vita sociale, economica e istituzionale. Il problema della violenza e della sicurezza, scoppiato clamorosamente nell'ultimo periodo, è solo il segnale più vistoso dell'incertezza nella vita delle persone: basta andare a vedere cosa accade nei luoghi di incontro e svago dei giovani (e non solo) per capire che il livello di vuoto di senso è spaventoso. "Senza significato - diceva Julian Carrón, leader di Comunione e Liberazione - viene meno l'interesse". La stessa mancanza di significato si vede nella linea di certi opinionisti e commentatori per i quali il vero e il falso non sono criteri discriminanti per leggere la realtà. Domina infatti la logica del relativismo e dello scoop che propone quadri più confusi e inquietanti della realtà che vorrebbero descrivere. Questo si riflette nei costumi della gente al punto da far tornare alla mente lo spettro dell'omologazione di cui parlava Pasolini. Tale situazione di perdita di tensione ideale è particolarmente visibile nell'inedita miscela culturale soggiacente all'attuale coalizione di governo. E' il primo avverarsi della "profezia" formulata qualche decennio fa da Augusto Del Noce: la convergenza tra un socialismo figlio dell'Illuminismo radicale e dei suoi esiti relativisti e nichilisti e un "cattolicesimo adulto" che, privo di contenuto e di riferimento oggettivo, si limita a giustificare moralmente i contenuti posti da un nuovo radical-marxismo. La mancanza di vera idealità fa sì che in questa coalizione, capace di comprimere le non poche positive spinte riformiste presenti al suo interno, ognuno cerchi di strappare per sé il massimo di utilità "particolare" possibile. Non è strano, perciò, che lo Stato sia concepito, hobbesianamente, come l'ultimo tribunale abilitato a dirimere i continui feroci contrasti. Come sintetizzava don Giussani ad Assago nel 1987 al Congresso della DC lombarda, ne deriva "un moralismo d'appoggio allo Stato, inteso come ultima fonte di consistenza per il flusso umano". D'altra parte il centro-destra ha dimostrato una mancanza di coesione culturale che ha compromesso, ieri, l'efficacia dei suoi governi e, oggi, la sua azione di opposizione. Ne nasce un caos che spinge gli italiani ad affermare di non aver fiducia nella loro classe politica.Il regime di statalismo imperante, d'altra parte, non riesce però neanche ad affermare l'autorevolezza dello Stato, ed è totalmente indifferente ai moltissimi segnali di ripresa della piccola, media e grande impresa e mondo del non profit. Inoltre, la tassazione eccessiva e indiscriminata comprime i salari e deprime gli investimenti; le infrastrutture sono insufficienti; il welfare state che viene rilanciato è clientelare e inefficiente; è difeso il disastroso monopolio statale dell'istruzione; in numerosi settori è permesso un potere di veto pressoché totale ai sindacati. Il conseguente rischio di un declino economico è reale. Ce n'è per non sottovalutare l'appello del NY Times.

Il presidente Napolitano in visita a New York ha risposto invitando a scommettere di nuovo sull'Italia capace di reagire grazie ai suoi "animal spirits" di keynesiana memoria. Basterà? E' la giusta direzione?

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Giangiacomo

giovedì 3 gennaio 2008

Ruini: attaccano la Chiesa perché adesso sta vincendo

Un'intervista datata di Aldo Cazzullo a Ruini. lunga, ma in questo periodo in cui VOI sicuramente sarete in ferie, potete leggerlo tranquillamente.

L’ex presidente della Cei: non si può guidare un Paese guardando solo all’immediato, è indispensabile affrontare i temi epocali

Vicario di due Papi, dal ’91 al marzo scorso capo dei vescovi italiani, il cardinale Camillo Ruini ha sul tavolo i due libri appena usciti da Piemme che riassumono la sua vicenda: Chiesa contestata e Chiesa del nostro tempo (domani la presentazione a Milano alla Cattolica, con Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Angelo Scola). È la prima intervista da quando ha lasciato la presidenza della Cei. Sono giorni di riflessioni e di bilanci, che il cardinale prepara tra le carte del suo studio, dove neppure la bomba del ’93 è riuscita a seminare il disordine. «Esplose proprio qui sotto. Io ero in Francia, rientrai subito, arrivai in Laterano mentre ne usciva il Papa. I danni erano seri,ma nello studio tutto era rimasto intatto».
I suoi primi anni alla guida della Conferenza episcopale videro il crollo della Dc. Come li ricorda?«Tutto accadde in fretta. Nei cinque anni passati alla Cei come segretario, tra l’86 e il gennaio del ’91, non intravidi gli sviluppi successivi. Ma già a settembre era cominciato il travaglio, accelerato dalle elezioni del ’92, che in breve avrebbe portato alla fine dell’unità politica dei cattolici. Ma anche la nostra risposta fu abbastanza rapida. Nel novembre del ’95, al convegno ecclesiastico di Palermo, Giovanni Paolo II approvò la nuova impostazione, il diverso rapporto tra Chiesa e mondo politico: anziché ricercare l’unità perduta, privilegiare i contenuti essenziali, la questione antropolica, sociale, morale».
Quello che appariva un problema si rivelò un’opportunità. Alla Chiesa di Ruini si attribuisce la riconquista quasi gramsciana dell’egemonia cattolica sulla società. E anche, talora, un’ingerenza eccessiva. «Non abbiamo mai puntato a un’egemonia. Sarebbe stata un’ingenuità. Nel discorso pubblico condotto dai mezzi di comunicazione, in Italia o in qualsiasi altro Paese, la Chiesa non potrebbe trovarsi in posizione egemonica. La Chiesa è una voce in un contesto pluralistico; per quanto cerchi di essere una voce non meno decisa, non meno forte di altre».
Da qui forse l’accusa di ingerenza, di interventismo. «L’accusa di interventismo è legata all’idea di un confronto tra potere civile e potere ecclesiastico, ognuno con una sua legittimità. Ma viviamo oggi qualcosa di nuovo, che non si può rinchiudere nella dialettica tra Stato e Chiesa. Lo sviluppo scientifico e biotecnologico da una parte, e l’evoluzione del costume dall’altra fanno sì che le questioni etiche, che il pensiero liberale e altre moderne correnti di pensiero riconducevano alla sfera del privato, diventino questioni pubbliche. Ciò ha richiesto alla Chiesa di dare maggior rilievo pubblico alla missione che le è propria, occuparsi dell’ethos; che è inscindibile dalla fede. Non ne rappresenta il centro, il centro della fede è il rapporto con Dio e Gesù; ma il cristianesimo ha a che fare con la vita ».
Il momento più teso è stato il referendum sulla procreazione assistita. Vi è stato rimproverato un atteggiamento politicista: non solo la Chiesa si schierava, ma sceglieva lo strumento dell’astensione. «Non eravamo di fronte a una questione astratta ma concreta, che riguardava la vita, e richiedeva un intervento efficace. Si trattava di un referendum non proposto e non voluto da noi, per cancellare una legge non certo "cattolica" ma che conteneva aspetti positivi. In passato, nel ’74 e nell’81, erano stati proposti referendum da parte dei cattolici, sia pure non da soli. Stavolta il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto. Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo».
Intende dire che la Chiesa piace ai laici quando perde, come su divorzio e aborto, e disturba quando vince?«Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" come dice lei, tutto fila liscio. Nel caso contrario, la reazione è molto diversa, e riprendono vigore le croniche accuse di interventismo. Ciò che ha specificamente colpito e disturbato è che le nostre proposte abbiano avuto un notevole consenso nell’opinione pubblica».
Esiste in Italia un sentimento anticattolico, una sensibilità ipercritica verso la Chiesa? «Purtroppo sì. Esiste. È legittimo, perché siamo un Paese libero. Non bisogna maggiorarne l’efficacia; ma non si può negarne l’esistenza. C’è una pubblicistica specifica, non ineditamasempre più intensa, che si concentra in particolare sul vissuto della Chiesa».
È proprio la coerenza della Chiesa con i suoi insegnamenti a essere in questione. Le si rimprovera di essere tutt’altro che povera. «Non credo affatto che la Chiesa sia ricca. Potrà esserlo il singolo ecclesiastico, ma non lo è certo la Chiesa come istituzione. Contrariamente a quel che viene proposto, il rapporto tra i mezzi di cui la Chiesa dispone e le opere che riesce a compiere è incredibilmente favorevole. E questo lo si deve al volontariato. La gran parte delle risorse della Chiesa non vengono dallo Stato ma dai fedeli, sia in forma di offerte sia in forma di militanza. Questo la gente lo percepisce; e vedere una campagna in senso contrario, che proietta un’immagine rovesciata e presenta la Chiesa come un’istituzione che prende anziché dare, suscita interrogativi, diffidenze, timori».
Vi si accusa anche di nascondere le violazioni della morale sessuale, in particolare la pedofilia. «La fragilità umana esiste nella Chiesa come nel mondo intero. Neppure la Chiesa è fuori da un contesto socioculturale in cui la sessualità è concepita ed esaltata come fine a se stessa. Il contraccolpo è inevitabile, pure tra i credenti. Ci sono state, e temo continuino a esserci, realtà molto dolorose, che colpiscono profondamente quanti amano la Chiesa e in particolare coloro che hanno la responsabilità di governarla. Va anche detto che si può e si deve, sempre rispettando la dignità delle persone, essere attenti e vigili. Non è vero che queste realtà vengano coperte. Sia nella mia esperienza diretta, sia nell’esperienza di tanti altri, la vigilanza c’è sempre stata; anche se è difficile, poiché chi si rende responsabile di tali comportamenti tende a nasconderli.Ma la contestazione verso la Chiesa non si muove solo sul versante del vissuto».
A cosa si riferisce? «La contestazione attacca il centro della fede, il suo cuore. La persona di Gesù Cristo, la sua credibilità storica, il farsi carne del Verbo di Dio. Del resto, una cultura in cui il dolore non ha senso, la sofferenza viene negata, la morte emarginata, non può comprendere il cristianesimo. Che resta pur sempre la religione della croce».
Questa contestazione c’è sempre stata, non crede? «Certo. Ma oggi la sua violenza polemica è in crescita. E penso sia collegata all’impressione, fondata o infondata che sia, di una maggiore vitalità del cristianesimo».
Fondata, o infondata? «Quest’estate ho letto un libro di fine anni ‘60, che raccoglie una serie di conferenze radiofoniche nella Germania dell’epoca, con l’intervento di vari credenti — teologi, filosofi, psicologi—e di un intellettuale ateo. Che diceva più o meno questo: "Mi trovo in difficoltà, perché sono abituato a discutere con credenti ben decisi ad affermare che Dio esiste; ma qui mi pare che Dio sparisca dall’orizzonte, che il cristianesimo sia solo un modo di intendere la vita; a queste condizioni, non ho più nulla da obiettare". Parole dal tono involontariamente canzonatorio. Maanch’io, leggendo quel libro, ho pensato che allora ci fosse la paura di mettere la fede cristiana al centro, con un atteggiamento tanto guardingo da configurare una specie di ritirata. Oggi non è più così. E questo dà nuovo vigore a certe polemiche classiche, che si riaccendono ora che Benedetto XVI sostiene la plausibilità razionale della fede, e dopo che Giovanni Paolo II ha impresso la grande svolta con il suo grido: "Non abbiate paura". Non era uno slogan,mal’indirizzo di un pontificato. Ricordo che fu accolto con perplessità anche dentro la Chiesa: pareva un motto velleitario. Invece una partita che pareva conclusa, con esito a noi sfavorevole, ora è riaperta. Non tutto il clero l’ha colto; il popolo, forse di più. Mi è capitato di ritrovare un gruppo di miei coetanei, non tutti cattolici praticanti, e di essere da loro non soltanto incoraggiato ma spronato. Quando un’identità forte viene colpita allo scopo di distruggerla, essa reagisce, eccome ».
Alcuni intellettuali, che uno di loro ha definito autoironicamente «atei devoti», guardano alla Chiesa come al caposaldo dei valori che definiscono l’identità occidentale. Come valuta questo fenomeno? «Nella Chiesa si è discusso molto sui non credenti, o non pienamente credenti, che vedono con favore la sua presenza in campo culturale e civile. Dalla Chiesa sono venute risposte varie. Io credo che a Verona Benedetto XVI abbia dato un’indicazione precisa, in termini quanto mai positivi, favorevoli, disponibili. Certo, è impossibile ridurre il cristianesimo a un’eredità culturale; ma è vero che il cristianesimo ha sempre avuto la propensione a farsi generatore di cultura. In una situazione come quella di oggi, in cui vengono messi in discussione i fondamentali antropologici, è più che mai importante la convergenza tra tutti coloro che i fondamentali difendono e valorizzano».
Questo fa sì che la Chiesa sia vista come forza dichiaratamente conservatrice. Al punto da chiedersi se un cattolico possa ancora votare a sinistra. «Ma queste preoccupazioni per i fondamentali non sono limitate ad alcuni settori dell’arco culturale e politico. Sono condivise da molte parti. Non credo all’equazione tra difesa dei valori e conservatorismo, almeno non nell’accezione negativa del termine, come freno allo sviluppo; perché esiste anche un’accezione positiva. È cosa buona conservare i fondamentali, appunto».
Qual è l’attitudine verso l’Italia dei due Papi di cui lei è stato vicario? «C’è una differenza, non solo di stile: Benedetto XVI viveva già in Italia da oltre vent’anni; Giovanni Paolo II era sconosciuto a molti, me compreso. Ma c’è una grande somiglianza: entrambi partecipano della profonda convinzione che l’Italia e la Chiesa italiana abbiano un ruolo centrale nel contesto europeo e mondiale. Io stesso, nei due decenni trascorsi nel Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, ho notato che dall’estero si guarda all’Italia come a un’esperienza che ha qualcosa da dire anche a loro».
La Chiesa italiana è un modello per gli altri episcopati? «La situazione reale è rovesciata rispetto a quella talora raffigurata in Italia: non c’è qui da noi una Chiesa di retroguardia rispetto ad altri Paesi più illuminati, più aperti al futuro; è vero semmai il contrario, sono gli altri a rivolgersi a noi con grande interesse».
Qual è la sua opinione su Padre Pio? «Posso raccontarle qualcosa di personale. Mi sono imbattuto in lui in modo involontario, ma ripetuto. Mio padre era un medico ospedaliero, che fondamentalmente credeva, ma escludeva i miracoli. Una notte di oltre cinquant’anni fa — io ero già seminarista a Roma —, assistette alla guarigione subitanea di un ammalato che giudicava terminale, cui era apparso in sogno il frate. Mio padre fu molto traumatizzato da quell’esperienza. E conosco due suore che ebbero da lui un segno tangibile, una fotografia, che le lasciò attonite. Né mio padre né le suore ne hanno mai parlato, questi due fatti sono rimasti sconosciuti fino a oggi, e chissà quanti altri testimoniano la dimensione umanamente inspiegabile di Padre Pio, che buona parte della cultura contemporanea vorrebbe censurare come magica e non autentica».
Posso farle una domanda sulla sua successione? «Quella lasciamola al Santo Padre...».
...Intendevo la successione alla guida della Cei. Il cardinal Bagnasco ha ricevuto minacce. «Il mio successore sta facendo un ottimo lavoro. Ci sono stati segnali preoccupanti, che però non vanno sopravvalutati. In un clima polemico, uno sprovveduto può essere tentato da un gesto scorretto. Ma la possibilità è la stessa di finire travolti da un’auto per strada...».
Lei è stato il primo presidente della Cei a diventare una figura mediatica, oggetto di entusiasmi e invettive. Questo l’ha infastidita? «No. Non mi ha galvanizzato, non mi ha depresso; non gli ho mai dato molta importanza. È stato un processo graduale, iniziato tardi: sono arrivato a Roma a 55 anni... Per natura tendo a relativizzare. Del resto, la decisione implica l’accettazione del rischio. Anche se non ho purtroppo la meravigliosa capacità, che ho visto in Giovanni Paolo II, di affidarsi totalmente al Signore».
Quale le sembra la temperatura morale dell’Italia? Si è approdati all’alternanza politica, ma la sfiducia è tale che ogni volta il governo viene congedato... «È difficile trovare una sintesi della temperatura morale di un Paese. Ci sono segni positivi e altri negativi. Non nego che la situazione sia difficile, e che la temperatura possa apparire troppo fredda, segno di scarso entusiasmo, o troppo calda, segno di una malattia. L’Italia ha grandi potenzialità e una sostanziale robustezza; ma varie questioni non trovano uno sbocco convincente e duraturo nel tempo. È necessario che la dirigenza politica, come quella economica, sindacale, giornalistica, ecclesiale, guardino di più al medio e al lungo periodo, e non solo all’immediato. È indispensabile affrontare i temi epocali, dalla questione demografica indicata nel 2004 anche da Ciampi all’emergenza educativa di cui parla Benedetto XVI. Non si può guidare un aese guardando solo all’immediato. Chi metterà questi grandi problemi al centro dell’agenda politica, farà il bene dell’Italia, e sarà capito dalla gente».

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Giangiacomo

mercoledì 2 gennaio 2008

La forza che viene dall'Interno

Quando Nicolas Sarkozy ha pensato di avere un progetto riformatore per il suo paese, e ha deciso la “rupture”, si è installato al ministero dell’Interno e non ne è più uscito fino a un mese prima delle elezioni presidenziali. Sarkozy ha fatto un uso apertamente politico, senza che alcuno se ne scandalizzasse, della decisiva funzione che svolgeva nel governo, anche in autonomia dall’Eliseo e da Matignon, la sede del debole primo ministro. Da place Beauvau ha parlato ai francesi, li ha guidati nella rivolta delle banlieue, li ha rassicurati, ha fissato i criteri che contano nella politica dell’immigrazione e del confronto con culture e religioni organizzate in comunità che assommano al 15 per cento dei cittadini della République, ha rischiato e ha vinto. Da noi il ministero dell’Interno è la casa di riposo degli anziani autorevoli della Repubblica, in Francia è l’incubatrice delle grandi carriere repubblicane. La differenza c’è e si vede.È inutile stare a precisare che Giuliano Amato è degno di rispetto e fa il suo lavoro con scrupolo, anche quando sbaglia. Inutile confermare che i suoi lontani predecessori come Giorgio Napolitano o Rosa Russo Iervolino, e anche quelli più recenti come Beppe Pisanu, hanno avuto il talento dell’impeccabilità. Niente di personale, quindi. Ma in Europa e in Italia il ministero dell’Interno, che in Spagna si chiama o si chiamava addirittura ministero della Gubernación, è cruciale, strategico.Una volta a Roma era il capo dell’esecutivo a essere ospite del Viminale, prima che la scrivania del presidente del Consiglio fosse traslocata a Palazzo Chigi. E ci sono stati casi celebri in cui la figura del capo dell’esecutivo coincise con quella del capo della sicurezza e dei prefetti. Dal Viminale si guida da sempre un apparato decisivo, l’essenza dello stato centrale, un apparato composto di prefetti, di dipartimento della pubblica sicurezza, di funzioni di coordinamento e controllo del territorio e di intelligence che sono di primaria importanza in tutti gli aspetti della vita pubblica, e di tanto in tanto perfino privata, dei cittadini. Il Viminale è il luogo dove le cose si sanno, dove si decide se farle circolare e come e quando farle circolare, è il luogo delle decisioni a tambur battente, della massima responsabilità verso le istituzioni e il patto di convivenza che le legittima, dalle operazioni di voto alla gestione degli enti locali, fino appunto alla tutela della vita civile di ogni giorno.Il modello europeo è centralista e ha negli affari interni il suo punto di virtù o di debolezza, anche a seconda di chi sia incaricato di esercitare quella delicatissima funzione.La vecchia, cara abitudine di mandare il politico esperto e anziano ma laterale, defilato rispetto alla battaglia del consenso, ha ovviamente una sua spiegazione. Vogliamo essere garantiti che non ci sarà un uso partigiano della forza, un abuso personale delle politiche pubbliche più importanti e delicate. Vogliamo che gli apparati vivano in relativa autonomia, che non diventino luogo di conflitto fazioso, che il processo decisionale elettorale sia messo in salvo rispetto a ogni possibile tentazione. Comprensibile. Ma si paga un prezzo. Un prezzo che sta diventando sempre meno sopportabile, soprattutto in una repubblica che ha dato ai sindaci e ai governatori di regione mandati esecutivi sempre più impegnativi, direttamente legittimati dal voto popolare.Un ministro dell’Interno dotato di energia e carisma politico, che abbia un progetto per il futuro del Paese e sia disposto a condividerlo in forme democratiche con la comunità nazionale, agendo con forza e lungimiranza sul terreno minato della sicurezza e del governo del territorio: ecco la soluzione dei problemi che angosciano tanti italiani, a cui (non per caso) nessuno ha ancora mai osato pensare.

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Giangiacomo

martedì 1 gennaio 2008

Gran Bretagna e Usa difendono il Natale per legge

A volte ritornano. A ogni dicembre riecco quelli che non vogliono che si festeggi il Natale per non offendere minoranze islamiche e non credenti. In questa corsa all'assurdo, che coinvolge principalmente certi presidi, ci sono i cattivi e i diversamente buoni. I cattivoni vietano semplicemente di parlare del Natale a scuola: zitti e Mosca, nel senso della città dove è ospitata la salma di Lenin, che nel caso fosse davvero espulsa dalla Piazza Rossa questi presidi sarebbero lieti di esporre nella loro scuola al posto del vituperato presepe. Altri non hanno cuore di vietare ai bambini le festicciole, e allora s'ingegnano per non parlare di Natale e soprattutto di Gesù. La stagione fredda aguzza l'ingegno: si va dalla Festa dell'Umanità alla Festa della Pace, dalla Festa della Luce (già vista: aveva cercato di sostituirla al Natale un certo Hitler) al Solstizio d'Inverno. A conferma che aveva ragione Barnum, quello del circo, quando diceva che più un'idea è stupida, più si diffonde, quest'anno fa tendenza celebrare nelle aule la «Festa delle vacanze», dove il preside mette in difficoltà il professore di matematica dimostrandogli che cambiando l'ordine dei fattori cambia anche il prodotto. Non si fa vacanza per celebrare la festa, ma si fa festa per celebrare la vacanza. Consoliamoci: i giacobini anti-natalizi ci sono anche in altri Paesi, dalla Francia - ma Sarkozy ha invitato a rivedere le leggi laiciste che vietano la presenza religiosa nelle scuole - alla Gran Bretagna. A Londra però c'è anche la Commissione per l'Eguaglianza e i Diritti Umani, altre volte discutibile, che stavolta ne fa una giusta: invita a «celebrare il Natale come festa cristiana» e a non usare «la preoccupazione di non offendere i non cristiani» come pretesto per divieti assurdi. Puntuale, è arrivato il plauso delle maggiori organizzazioni musulmane, le quali ricordano che il Natale per l'islam (che riconosce Gesù come profeta) non ha nulla di offensivo.Anche negli Usa qualcuno che vuole vietare i presepi è saltato fuori. E lì si è mossa la Camera, che ha approvato con 372 sì e 9 no una risoluzione dove, premesso che «gli Stati Uniti hanno radici cristiane» e che anche «i non cristiani possono celebrare il Natale come un'occasione per mettersi al servizio degli altri», invita gli uffici pubblici e le scuole a celebrare «il Natale della fede cristiana» ed estende al «pregiudizio anticristiano» le condanne previste per altre forme di discriminazione. Sarebbe bello che questa cartolina dagli Stati Uniti fosse recapitata al ministro Fioroni. Sarebbe bastata una circolare ministeriale per fermare i nemici del Natale, e magari invitarli, se proprio vogliono protestare, a passare il 25 dicembre in ufficio a sbrigare il lavoro arretrato.

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Giangiacomo