domenica 7 giugno 2009

La debolezza della Ragione

Il discorso del presidente Obama al Cairo

Il discorso del presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama pronunciato all’Università del Cairo il 4 giugno 2009 (che cito dal testo ufficiale diffuso dal sito della Casa Bianca: http://www.whitehouse.gov/the_press_office/Remarks-by-the-President-at-Cairo-University-6-04-09/ ) dimostra, anzitutto, che a differenza di buona parte della stampa europea gli speechwriter del presidente americano sono attenti lettori dei discorsi di Benedetto XVI. Senza mai citare il Pontefice, alcuni passaggi sono ripresi quasi letteralmente. E tuttavia, mentre ripete la lettera di Benedetto XVI, Obama si allontana dallo spirito dei testi pontifici: e sta qui la debolezza di fondo del suo discorso.
Per un confronto, sarà sufficiente riassumere l’essenziale del magistero di Benedetto XVI in tema di rapporti con l’islam. Il Papa riconosce che è difficile che cristiani e musulmani (e anche, naturalmente, cristiani e buddhisti, induisti o atei) raggiungano un consenso sulla base dei rispettivi testi sacri o credenze in materia di religione. Il confronto interreligioso di natura teologica offre materia per interessanti congressi internazionali, ma di rado porta a un vero consenso con serie conseguenze pratiche. Questo va cercato invece argomentando non dal Corano o dalla Bibbia ma dalla ragione, che è comune a tutti gli uomini e che di per sé non è né cristiana né musulmana, né buddhista né atea. Attraverso la ragione è possibile scoprire quella legge naturale che costituisce, secondo l’espressione di Benedetto XVI, “la grammatica della vita sociale” e che consente di fissare verità condivise e regole del gioco valide per tutti. Argomentando, appunto, anzitutto dalla ragione il Pontefice – parlando ai musulmani a Castel Gandolfo dopo il discorso di Ratisbona nel 2006, in Turchia nello stesso 2006 e in Terra Santa nel 2009 – non si limita a principi generali ma mostra in concreto su che cosa, sulla base della legge naturale, cristiani e musulmani possono convenire. Si tratta anzitutto dei principi non negoziabili in materia d’inizio e fine della vita (con il no all’aborto e all’eutanasia) – su cui un certo consenso già esiste –, quindi di temi delicati, che il Papa invita l’islam ad approfondire proprio sulla base della ragione, riassunti nei tre elementi del ripudio della violenza e del terrorismo, dei diritti fondamentali garantiti agli uomini così come alle donne e della libertà religiosa. Benedetto XVI non si nasconde che il filo del dialogo fra fede e ragione – che storicamente è dialogo fra cultura religiosa ed eredità della filosofia greca – nell’islam, come aveva rilevato a Ratisbona, a un certo punto si è interrotto, perché la linea maggioritaria del pensiero islamico si è ritratta di fronte al rischio che l’uso della ragione e della filosofia portasse da una parte all’ateismo e dall’altra al panteismo. Ma auspica che questo filo possa essere riannodato, e in ogni caso il comune riferimento alla ragione è l’unica via per evitare lo scontro e il conflitto permanenti.
Al Cairo Obama riprende l’idea di una “verità che trascende nazioni e popoli – è una verità che non è nuova, che non è né nera né bianca né marrone, che non è né cristiana né musulmana né ebrea”. Declinando le conseguenze di questa verità “che trascende nazioni e popoli”, Obama segue lo stesso schema di Benedetto XVI: condanna senza appello della violenza e del terrorismo, diritti delle donne, libertà di religione. Il tono è diverso – con qualche concessione retorica all’audience musulmana che diventa errore sociologico e storico, come quando i fondamentalisti sono definiti una minoranza “piccola ma potente” (potente certo, ma non poi tanto piccola: si tratta di almeno cento milioni di persone) o s’idealizza la tolleranza dei musulmani in Andalusia e a Cordoba, confrontandola con “l’Inquisizione” cattolica – ma l’architettura rimane molto simile a quella reiteratamente proposta dal Pontefice.
E tuttavia manca qualcosa che non è secondario ma essenziale. Quando Benedetto XVI fa appello alla verità, il fondamento filosofico proposto – che è al cuore della nozione stessa di Occidente, ma nello stesso tempo è universale – è che vi siano principi e leggi iscritte nella natura stessa delle cose, che la ragione (una ragione, dunque, “forte”) è in grado di conoscere. Nel discorso di Obama non c’è nessun riferimento a una legge naturale che la ragione può discernere. Né ci potrebbe essere: perché ogni teoria della legge naturale sarebbe in aperto contrasto – meglio, in clamorosa contraddizione – con tutto quanto Obama pensa e fa in materia, per esempio, di aborto e con un atteggiamento generale che privilegia i cosiddetti “nuovi diritti” rispetto a principi morali universali e non negoziabili, di cui anzi si nega l’esistenza, che è tipico del presidente americano e del suo partito e che determina i noti contrasti con i vescovi cattolici degli Stati Uniti e con altri ambienti religiosi.
Su che cosa dunque Obama pretende di fondare una verità capace di “trascendere nazioni e popoli”? In verità tertium non datur: le due ali con cui l’uomo cerca di volare, come insegna Giovanni Paolo II più volte citato da Benedetto XVI, sono la ragione e la fede. Se non ci si vuole fondare su una nozione forte di ragione, una ragione debole finirà per fare appello alla fede, che però rischierà di essere assunta in modo confuso o di diventare fideismo. Al Cairo Obama invoca la “visione di Dio”: una visione, sembra di capire, che “conosciamo” attraverso un’analisi di quanto le scritture sacre delle grandi religioni hanno in comune. Da questo punto di vista, paradossalmente, Obama appare molto più fideista del Papa. Citando il Corano, il Talmud e la Bibbia Obama pensa di avere trovato “la singola regola che sta al cuore di ogni religione – facciamo agli altri quello che vorremmo che gli altri facessero a noi”. Questa credenza, dice Obama, “non è nuova”. In effetti non lo è. La cosiddetta “regola aurea” – non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te – è certamente, per alcuni versi, un antico principio di buon senso, che i cristiani condividono. Tuttavia – dal filosofo tedesco Immanuel Kant in poi – molti hanno messo in luce come si tratti di uno schema formale che dev’essere riempito: chi sono gli altri? Come facciamo a conoscerne la volontà? Questa volontà che attribuiamo agli altri è necessariamente conforme alla ragione e al bene? Se rimane uno schema vuoto, la “regola aurea” non ha conseguenze pratiche e resta solo una pia aspirazione, più o meno sentimentale, al buonismo universale.
Non potendo, per non smentire il suo relativismo in campo morale, fare appello alla legge naturale e a una ragione forte e fiduciosa di potere giungere a verità universali, Obama si trova costretto a proporre o una ragione debole – qualche cosa che ricorda i tentativi di costruire a tavolino etiche universali alla Hans Küng – o il faticoso e ultimamente sterile tentativo di partire dalle scritture sacre delle religioni per discernerne il presunto spirito comune che ci permetterebbe di conoscere la stessa “visione di Dio” per l’umanità (una prospettiva che, appunto, Benedetto XVI ha ampiamente abbandonato, sostituendola con l’appello alla ragione).
In questo fondamento debole della ricerca di consenso con l’islam – un fondamento che non persuaderà i musulmani che vogliono rimanere musulmani – sta il limite essenziale del discorso di Obama al Cairo. L’attenzione di molti si concentra, a proposito di questo discorso, su aspetti strettamente politici: la dichiarazione secondo cui l’Iran ha diritto a un “programma nucleare pacifico” (il cui trasferimento sul piano militare – che Obama condanna – potrebbe poi peraltro avvenire rapidamente e al di fuori di ogni possibile controllo, ammesso e non concesso che non sia già avvenuta), e l’appello alla soluzione dei due Stati per risolvere il conflitto israeliano-palestinese. Anche Benedetto XVI in Terra Santa ha ricordato la storica preferenza della Santa Sede per la “two-state solution” (forse anche perché opzioni diverse, al momento, appaiono politicamente ancora meno praticabili), ma non si è nascosto il rischio che, nell’attuale temperie medio-orientale, questa soluzione resti “un sogno”. Nel discorso di Obama, retorica a parte, non c’è molto di più perché, se è vero che si chiede a Israele un passo indietro sugl’insediamenti di coloni nei territori palestinesi, si esige pure da Hamas di “riconoscere il diritto d’Israele a esistere”. Dal momento che questo riconoscimento è vietato a Hamas dal suo stesso statuto, per passare dal sogno alla realtà c’è ancora molta strada da fare.
Su Afghanistan (dove dichiara di voler intensificare l’impegno) e Iraq (dove promette un cauto disimpegno, dicendosi comunque “convinto che gl’iracheni stiano meglio oggi che sotto la tirannia di Saddam Hussein”) Obama ribadisce posizioni note. La novità, semmai, sta nell’apertura di credito in bianco all’Iran e a Hamas, ingrediente obbligatorio di un messaggio che si vuole a tutti i costi nuovo, ma che non sembra per ora accompagnata da alcuna concessione da parte dei destinatari.
Tuttavia, non è per i riferimenti ai coloni israeliani e neppure al nucleare iraniano che Obama presenta il suo discorso come “storico” e occupa le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. È per la pretesa di fondare una nuova ricerca di consenso tra l’Occidente e l’islam sull’appello a verità comuni. Questo consenso – come insegna Benedetto XVI – è difficile ma non è impossibile, purché si tratti delle verità di una ragione forte che si oppone a ogni relativismo. Se la ragione è debole, o cerca precari appoggi in una pretesa e sincretistica “visione comune” delle religioni, tutto l’edificio, per quanto sembri svettare orgogliosamente verso il cielo, è in realtà costruito sulla sabbia. E non potrà che cadere.

see u,
Giangiacomo

4 commenti:

G. ha detto...

di Massimo Introvigne

Centro Toqueville ha detto...

Nei primi sei mesi di governo di Barack Obama, “apertura” è sicuramente il termine al quale più spesso si è ricorso per descrivere la politica estera del quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti. Il vocabolo in sé resta tuttavia un mero simulacro, che la stampa all’occorrenza si è affretta a riempire di contenuti variegati. Secondo molti, Obama avrebbe sinora abbracciato una linea di distensione (il ritiro dall’Iraq, l’impegno a risolvere la questione palestinese, la volontà di chiudere la prigione speciale di Guantànamo, la disponibilità ad un dialogo con l’Iran) che avrebbe radicalmente invertito la rotta tracciata dall’America nell’era Bush nell’ambito delle relazioni internazionali. Secondo altri, Obama ha usato piuttosto le proprie prodigiose capacità oratorie per promettere ogni cosa ed il suo contrario, alimentando speranze di molti, ma portando all’elettorato statunitense ancora pochi risultati concreti.

In realtà, andando oltre i proclami degli entusiasti e degli scettici ed osservando meglio quelli che nel concreto sono stati i passi effettivamente mossi dall’Amministrazione Obama negli scorsi mesi, la grande stella del Presidente sembra più che altro brillare di una luce nuova per quanto riguarda lo stile, piuttosto che i contenuti, della politica estera statunitense. In tal senso, le “aperture” di Barack Obama in ambito internazionale sembrano ancor più riconfermarsi come -seppur lodevoli- buone intenzioni, piuttosto che svolte radicali nell’azione politica americana.

In tale contesto si inserisce il discorso di Barack Obama tenutosi all’Università del Cairo lo scorso 5 giugno 2009; ancor più del Discorso Inaugurale con cui ebbe ufficialmente inizio il suo mandato, il discorso del Cairo rappresenta il fulcro di quella che sarebbe corretto definire la Dottrina Obama. Si tratta della ferma volontà del Presidente di promuovere il dialogo, la distensione -in altri termini, l’“apertura”, per ricorrere ad un termine alquanto appropriato- degli USA nei confronti di realtà talvolta molto diverse da quella statunitense, in totale controtendenza con l’era di Gorge W. Bush, che invece privilegiava la collaborazione con gli alleati democratici appartenenti al mondo occidentale. Tramite l’indubbia capacità oratoria che lo ha da subito contraddistinto, Obama ha di fatto teso -e seguita a tendere- la mano ad alcuni dei nemici storici dell’America. Ciò nonostante, sarebbe errato attribuire ad una mano tesa all’avversario la volontà di piegarsi o soccombere ad esso.

Associando l’osservazione del cammino intrapreso in politica estera nei primi mesi dell’Amministrazione Obama ad una lettura attenta del discorso del Presidente all’Università del Cairo, si nota come le “aperture” di Obama verso la complessa realtà internazionale odierna dimostrino una volontà di intento che il Presidente è pronto a rivedere all’occorrenza: una disponibilità manifesta ad intraprendere alcune vie piuttosto che altre, eventualmente un calcolo politico che mira alla mediazione come mezzo (e non fine) per conquistare consenso politico. Dunque, non certo una determinazione inappellabile ad acconsentire ad ogni richiesta avanzata agli USA, bensì una tensione a guardare alla realtà in modo ottimista e benaugurale, contrariamente alle Amministrazioni Repubblicane precedenti che solevano rimarcare puntualmente le differenze tra l’America ed i regimi autoritari e illiberali nel mondo.

continua sul sito...

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)