giovedì 21 agosto 2008

Gli atenei diventino fondazioni private

Nelle polemiche di questi giorni riguardanti i tagli di spesa all’università contenuti nel Dl n. 112 si dimentica un aspetto non secondario della recente vita dell’università italiana.
Negli ultimi anni Camere di commercio, associazioni ed enti locali, pubblici e privati, hanno promosso, anche in piccole località, dei comitati per dar vita a nuove università. Dopo un po’ di anni, queste università hanno richiesto di essere riconosciute e finanziate dallo Stato centrale, cosa che è puntualmente avvenuta nella quasi totalità dei casi. Invece di creare sedi staccate di grandi università, come è avvenuto in pochi casi virtuosi, si è voluto premiare interessi locali, che con la qualità della ricerca e della didattica non c’entrano nulla. Le spese per il sistema universitario sono così ora disperse in mille rivoli. Come uscire allora, da questa situazione?
Per rispondere si pensi agli Stati Uniti, dove ci sono miriadi di università e college, molti anche di valore discutibile. L’unica sostanziale differenza è che questi college non sono finanziati in maniera preponderante con trasferimenti statali, che invece sono erogati in gran parte come borse e prestiti agli studenti che scelgono dove spenderli. La qualità delle strutture universitarie diventa criterio determinante nella loro capacità di reperire risorse.
Per questo appare come potenzialmente “rivoluzionaria” la norma, finora ignorata nel dibattito, secondo cui le università si possono trasformare in fondazioni di diritto privato. Le università sarebbero autonome, giuridicamente e finanziariamente, libere di cercarsi partner privati, non appiattite sulle norme burocratiche di gestione delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle inerenti collaborazioni di ricerca con imprese ed altri enti pubblici e privati. Progressivamente si potrebbe favorire il fatto che, almeno in parte, le università si procurino da sole le risorse necessarie per vivere, come accade oggi negli Usa. E ciò prevedibilmente avverrebbe sulla base di qualità di didattica e ricerca, con un naturale riassestarsi in alto del sistema. Certo, c’è molto da lavorare perché questa idea sia perfezionata già a partire da questo decreto e risponda alle molteplici necessità, anche nella fase di transizione. Ma c’è qualcuno disposto veramente ad accettare la sfida della qualità?"

Giorgio Vittadini

Il Giornale, 30 Luglio 2008

see u,
Giangiacomo

2 commenti:

Anonimo ha detto...

L'UNIVERSITÀ? NON È SOLO QUESTIONE DI SOLDI

La manovra finanziaria estiva chiede alle Università di restituire allo Stato quasi un miliardo di euro tra il 2009 e il 2012 (e quasi mezzo miliardo all’anno dal 2013 in poi), risparmiati rimpiazzando solo un quinto dei molti docenti che, assunti in massa negli Anni Settanta, andranno presto in pensione. Per chi non va in pensione, la carriera d’ora in poi progredirebbe con scatti triennali (e non più biennali) dello stipendio pubblico, ancora legato a quello degli alti magistrati. Se questo non andasse bene, il decreto consentirebbe alle Università statali di trasformarsi in fondazioni, e gestire con contratti privatistici i diminuiti trasferimenti statali, il patrimonio immobiliare di cui diventerebbero proprietarie, e auspicabili finanziamenti non statali. È lodevole che il governo sia a caccia di risparmi di spesa, e non sorprende né che li cerchi nelle Università, né che punti a tagliare il numero e lo stipendio dei professori. In Italia le Università hanno fama di produrre poco, e i professori sono ben pagati per quel che sono e quel che fanno. Tra i docenti universitari molti sono capaci e attivi, altri sono incapaci e svogliati, e tutti sono padroni di se stessi. Ma tagliare gli stipendi e i posti non è né necessario, né sufficiente a far funzionare bene l’Università. Se c’è un problema, è nell’organizzazione del lavoro. Riducendo lo stipendio a tutti si rischia di giustificare e incoraggiare il comportamento di chi lavora prevalentemente altrove e mantiene con l’Università quasi solo rapporti bancari per l’accredito dello stipendio. Chi propone i tagli conosce bene questa realtà, ma non è chiaro se e come intenda riportarla sotto controllo. Chiariamo innanzitutto quali possano essere gli obiettivi del legislatore. Le Università dovrebbero produrre conoscenza e trasmetterla, per formare cittadini e lavoratori capaci di collaborare e produrre efficientemente. Si può discutere se sia più importante fornire strumenti culturali e di lavoro alle masse o selezionare e preparare specialisti e dirigenti, ma è chiaro che sono entrambi compiti utili, e ciascuno va perseguito nei tempi e nei modi appropriati. Gli strumenti utili a tal fine sono la ricerca e la didattica, complementari tra loro ed entrambi difficili da misurare e valutare. La ricerca tende inevitabilmente ad essere autoreferenziale: la qualità del prodotto è valutata dai produttori. Anche l’impatto della didattica non è facile da valutare: bisognerebbe misurarlo nell’arco della vita lavorativa, ma gli studenti rischiano di prestare più attenzione ad aspetti di immagine che di sostanza, e un professore che insegna solo cose facili da capire e promuove tutti è tanto popolare quanto inutile. Un giusto misto di regole e stimoli individuali può riuscire a valutare e garantire ricerca e didattica. Per valutare e indirizzare i risultati e gli sforzi di docenti e ricercatori si possono adottare meccanismi di stampo anglosassone, di controllo tra pari e di risposta a stimoli di mercato, oppure strutture di responsabilità gerarchica, tipiche del sistema germanico. Invece funziona male un misto di regole non rispettate e incentivi basati solo sul rendiconto personale, di autogestione individuale in carenza di controlli da parte della clientela o del finanziatore pubblico. Chi lavora per un’istituzione male organizzata inevitabilmente tenderà a cercare di migliorare il proprio benessere non perseguendo uno scopo collettivo, ma scambiandosi il favore di rinunciare reciprocamente a controllarsi. In un sistema immune da pressioni di mercato e privo di strutture di controllo gerarchico, una mano potrà lavare l’altra, ma nulla garantirà che qualcosa lavi il viso. Vediamo come le misure della manovra estiva possano pensare di affrontare questi problemi. Insieme al costo, forse si prevede di ridurre la qualità dell’istruzione universitaria pubblica, spingendola tutta verso il livello delle università telematiche. In effetti non è prevista la rimozione del divieto per le università pubbliche di ottenere più del 20% di quei fondi statali (che ora si vogliono ridimensionare) da tasse universitarie a carico degli studenti. Quando finiranno i soldi, per corsi di laurea che adesso fanno finta di essere quasi gratis sarà inevitabile far solo finta di essere utili. Gli studenti e le loro famiglie possono cercare di controllare la qualità della didattica se si sentono cofinanziatori dell’Università e possono scegliere dove studiare. Forse il legislatore pensa che chi volesse imparare qualcosa dovrà iscriversi a Università private, che tra quelle si potranno trovare Università ex pubbliche trasformate in fondazioni, e che in quel segmento del sistema formativo si trovino ricche fonti non solo di finanziamento ma anche, visto che i fondi sono necessari ma tutt’altro che sufficienti a fare una Università di qualità, di stimoli e controlli che inducano docenti e studenti ad organizzarsi come si deve. Ma già adesso l’attività dei docenti universitari si svolge in un groviglio di dipartimenti, facoltà, fondazioni, centri di ricerca pubblici e privati, se non in sedi provinciali semideserte. Le Università sono brave a procacciarsi i fondi, meno brave ad utilizzarli per fini collettivi chiari e condivisi. L’adozione di più agili regolamenti potrebbe benissimo far calare ancora il livello di controllo che è ora quello, teoricamente alto, dei dipendenti pubblici. Sarebbe ingenuo sperare che le imprese private finanzino le Università come organizzazione utile, piuttosto che singoli ricercatori come fattori produttivi. Ed è tutto da dimostrare che siano preferibili a quelli ministeriali i sistemi di controllo politico e burocratico delle fondazioni, come quelle bancarie che forse il legislatore immagina si potrebbero sostituire allo Stato nel finanziare le Università.
Non è riducendo i fondi (e neanche aumentandoli) che si risolveranno i problemi dell’Università italiana. Occorre riflettere sui suoi scopi e dotarla di mezzi di valutazione e gestione adeguati. In assenza di ciò, non pare giusto lamentarsi troppo del blocco del turnover previsto dal decreto. L’Università non può in realtà attirare personale serio e motivato se ai nuovi colleghi non si possono promettere guadagni adeguati, un ambiente di lavoro ben organizzato, e procedure selettive più trasparenti di quelle dei non pochi concorsi attualmente gestiti localmente in assenza di stimoli e controlli.
giuseppe.bertola@unito.it

Anonimo ha detto...

Perche non:)