martedì 15 maggio 2007

Desiderio, libertà e sussidiarietà

Ieri ho letto l'intervento di Giorgio Vittadini, attuale Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
un po' datato (Novembre 2005), ma fenomenale per quanto entri nei contenuti e li enunci con naturalezza, spettacolare per l'esaltazione del principio di sussidiarietà che tanto sostengo nel mio piccolo...

1. L’anomalia virtuosa italiana: nascita, sviluppo, crisi
Il nesso tra desiderio, fede, passione ideale e vita sociale ed economica è all’origine della virtuosa “anomalia italiana” e del suo enorme sviluppo economico e politico.
All’inizio del secolo XIX, dalla fede cristiana e da ideali socialisti e liberali, sono nate opere sociali e un sistema economico unico al mondo, caratterizzato dalla presenza diffusa di piccole e medie imprese che hanno elevato il grado di ricchezza un po’ ovunque. Il nostro è stato un Paese capace di darsi regole democratiche e una Costituzione che ha saputo valorizzare le diverse visioni ideali in funzione di una vita comune; ha saputo stabilire una convivenza che ha garantito rispetto profondo per l’uomo e volontà di offrire ad ognuno una condizione di vita decorosa.
Negli anni, tuttavia, questo sviluppo è stato limitato da concezioni estranee alla sua origine e nemiche dell’uomo, non riuscendo così ad affermarsi in modo definitivo e duraturo.
Ancora oggi la vita sociale e politica italiana è dominata da contrapposte ideologie, nate da idee sull’uomo e sulla realtà figlie di verità parziali e oggi assolutizzate a postulati generali che ne regolano ogni aspetto.
I teorici del liberismo e del privato puro si affidano in modo fideistico alle capacità salvifiche del mercato, che sarebbe capace meccanicamente e impersonalmente di risolvere ogni problema, senza chiedersi quale sia il costo umano e sociale di una selezione portata alle estreme conseguenze.
Invece, i teorici dello statalismo, nostalgici e non di una società marxista, considerano lo Stato l’unica risposta a tutti i mali.
Nel nostro Paese le partecipazioni statali sono arrivate a costituire più del 50% dell’economia e l’abnorme crescita della spesa pubblica viene finanziata favorendo sistemi di tassazione iniqui
(1), mentre rendite e sprechi sembrano senza limite (2).
Queste ideologie non si limitano però solo a interessare il sistema economico, ma tentano di definire, fin negli aspetti antropologici e morali, quale sia la posizione umana necessaria per sostenere il sistema in cui si vive. Il cattocomunismo, che del cattolicesimo conserva una generica spinta etica per poi assumere categorie culturali e interpretative veteromarxiste, fa proprie posizioni manichee, identificandosi così con la parte di società “naturalmente pura” da difendere contro la parte corrotta.
Queste posizioni sono analoghe a quelle teorizzate da chi vorrebbe l’avvento di un moralismo calvinista intransigente, capace di ostracizzare chi sbaglia, implacabile nel ridurre l’intera società ad uno strumento per il progresso economico e scientifico teso alla ricerca di un profitto fatto di selezione sociale ed economica.
D’altra parte, come ultima ed estrema versione della ricerca del divo di umanistica memoria, si invocano uomini della provvidenza capaci di risolvere “magicamente” i problemi per le loro capacità, moralità e competenza.
Chi invece si vuole rifare alla tradizione, spesso si fa portatore di un’ideologia neoconservatrice che, come nelle sette protestanti americane, crede nella capacità naturale dell’uomo di raggiungere la moralità e la verità anche nella vita sociale, grazie alla sua adesione a valori filosofici e religiosi.
In tutte queste posizioni prevale la certezza teorica e pratica che siano la politica, l’occupazione dello Stato, la promulgazione di leggi a sé favorevoli a determinare il progresso.
Si tratta in generale di una concezione che subordina l’esistenza dell’uomo a dinamiche sociali, politiche e d economiche costruite prescindendo dalla necessità di rispondere al desiderio di felicità dei singoli e soggetta al controllo del potere politico.
In realtà, la ragione dell’incapacità dello sviluppo ad affermarsi definitivamente e a modellare la società italiana, è ancora più profondo e risiede nella crisi di un Cattolicesimo ancora capace di incidere sotto il profilo sociale, ma sempre più debole a livello di esperienza personale.
Dal punto di vista politico, la Democrazia Cristiana, che ha enormi meriti per ciò che è riuscita a fare per lo sviluppo della vita democratica del Paese, è implosa a poco a poco scivolando nella sola preoccupazione di una gestione del potere e imboccando la via dello statalismo, perdendo così coscienza della sua diversità culturale. Addirittura è arrivata ad accettare un regime consociativo in cui «nella concreta vita parlamentare si realizzava una strategia di compromesso»
(3), mentre «nel presupposto che la società civile del dopoguerra fosse impreparata, venne colonizzata politicamente e si favorì una concezione “paternalistica” dei diritti sociali. Nella vita concreta della nuova Repubblica italiana i soggetti attivi del pluralismo sociale vennero identificati e sostanzialmente esauriti nei partiti e nei sindacati, destinando le altre formazioni sociali ad un ruolo marginale e secondario» (4).
Afferma, infatti, Augusto Del Noce: «La storia d’Italia, dal 1945 in poi, è la storia del progressivo affermarsi del Partito d’Azione, del partito al servizio dei ceti emergenti, del capitale finanziario, degli speculatori, della mobilità sociale. Il partito dissolutore della tradizione»
(5). «L’esito fu un nuovo edonismo indotto dallo sviluppo economico, l’incapacità di vivere e trasmettere i valori della tradizione, una classe politica sempre più chiusa in se stessa, finirono per spegnere le tensioni ideali del momento costituente» (6).
Sinteticamente, la situazione può essere descritta con le parole di don Giussani «… l’Italia, mi sembra un sommovimento terrestre, un terremoto. Dove chi spinge di più riesce a buttare via più pietre che gli ingombrano il terreno. E’ una situazione civile dove non c’è un ideale adeguato, dove non c’è nulla che ecceda l’aspetto utilitaristico. Un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga ideale. Il timore è che si scatenino conflitti senza fine»
(7).
2. Il riflesso economico e sociale della crisi
Il successo dell’economia italiana dell’ultimo dopoguerra era stato reso possibile da tre “miracoli” economici successivi: la ricostruzione postbellica; la crescita esponenziale delle piccole e medie imprese che, «nel momento di crisi delle grandi imprese negli anni Settanta e Ottanta, hanno sviluppato nei fatti i distretti industriali»
(8) elaborando «un proprio modello di sviluppo settoriale italiano, incentrandolo sul cosiddetto Made in Italy» (9); il risanamento macrofinanziario degli anni Novanta, che ha portato all’ingresso nell’euro (10).
Tuttavia, come è già stato precedentemente sottolineato, proprio negli anni di maggior sviluppo, con il mancato compimento delle premesse e degli ideali che avevano originato il miracolo economico, non si è colta l’occasione per affrontare e risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana, problemi che continuano a determinare il momento presente: «La mancanza di una solida e riproducibile classe dirigente; scarsissima istituzionalizzazione dei mercati; bassa divisione funzionale tra famiglia e impresa e scarsissima differenziazione sociale tra proprietà e controllo delle stesse imprese»
(11).
E ancora: il sottosviluppo del mezzogiorno, la mancanza di infrastrutture (a cui si è aggiunta la scomparsa delle grandi imprese), il declino dell’industria di Stato con i suoi alti tassi di clientelismo e inefficienza, le privatizzazioni che hanno dato vita ad oligopoli e a svendite anche di imprese sane e competitive, il venir meno di un adeguato insegnamento tecnico e professionale, il mancato investimento in istruzione superiore e ricerca, l’incremento vertiginoso della spesa pubblica improduttiva e causa di rendite parassitarie.
Come sostiene l’economista Luigi Campiglio, negli ultimi anni tali fattori negativi sono diventati prevalenti: «Nell’ultimo decennio l’Italia è diventata una società lenta: è lenta l’economia, con un tasso di crescita inferiore alla media europea, e quindi ancora di più rispetto agli Stati Uniti, così come è lenta la società dei cittadini, perché delusa dall’insuccesso dei sussulti di cambiamento nei confronti del sistema politico. Negli anni più recenti il rallentamento è diventato declino assoluto, in particolare nell’industria manifatturiera in cui si registra un declino della produttività del lavoro, che non casualmente si accompagna a una diminuzione degli investimenti e della quota di mercato nel commercio mondiale»
(12).
Tra le conseguenze di questo declino c’è anche la crisi sociale. Sono vittime della crisi, innanzitutto, i ceti medi che «si sentono improvvisamente vulnerabili. L’impoverimento dei ceti medi, dunque, sembra assomigliare ai processi sperequativi “all’americana”: nel grande segmento di famiglie italiane poste dall’Istat sopra la soglia di povertà stanno aumentano le disuguaglianze tra le classi. Si sta allargando, cioè, la distanza tra i ceti medio-bassi e quelli medio-alti, sia in termini di potere d’acquisto che di condizioni di vita»
(13).
La seconda grande crisi sociale è quella della famiglia. Dice Di Vico: «Un ulteriore fenomeno che sta pesando sullo status dei ceti medi è il boom delle separazioni e dei divorzi. Se fino a qualche lustro addietro la rottura del matrimonio era un privilegio delle classi più ricche, ora è diventata una prerogativa appannaggio di tutti. […] Risulta che sono proprio le classi medie a far saltare con maggiore frequenza il ménage coniugale. se una famiglia si divide moltiplica automaticamente spese e costi». Intimamente legato alla crisi della famiglia e degli ideali è l’invecchiamento della popolazione: « Gli anziani non autosufficienti sono raddoppiati. Due milioni di persone vivono assistiti dalla famiglia, ancora oggi la rete informale prioritaria per l’assistenza. Oltre 900.000 anziani sono costretti in un letto o non possono uscire dalla propria abitazione […]»
(14).
Siamo ormai a un bivio, come afferma ancora Campiglio: «Lo sviluppo economico del secondo dopoguerra, con il suo incontenibile travaso unitario, ha fatto gli italiani uniti molto più di un secolo di guerre e divisioni amministrative, e per una breve stagione ha dato loro un interesse permanente e un ruolo internazionale che oggi pare invece indebolito»
(15). Al posto di questa consapevolezza comune prevale lo statalismo, come conferma Giulio Sapelli: «L o Stato è troppo lontano dai sistemi di senso e di significato che le persone elaborano per raggiungere i loro fini e per rendere meno indecente la loro vita» (16).
E’ opinione diffusa che la situazione descritta nei precedenti paragrafi sia irreversibile. Autorevoli pensatori, invece, ritengono che esistano ancora elementi di speranza. Tra questi Quadrio Curzio e Marco Fortis affermano: «Noi crediamo, in base all’analisi della storia dello sviluppo economico italiano, che il nostro Paese abbia le capacità per affrontare le nuove sfide purché da un lato riesamini con obiettività la propria vicenda della seconda parte del xx secolo e dall’altro faccia una scelta coraggiosa, rispondente per altro alle proprie migliori caratteristiche economiche, sociali»
(17).
3. La situazione europea
Anche grazie all’onda emotiva della Tangentopoli internazionale e alla strumentalizzazione delle questioni legate alla guerra in Iraq - l’identità di un’Europa, che tutti sembrano così pronti a difendere, è stata completamente stravolta da come era stata delineata nel documento programmatico di Lisbona 2000.
L’Europa degli Andreotti, dei Delors, dei Kohl, l’Europa che aveva varato la moneta unica, aveva ben altri scopi e intendimenti: diventare - entro il 2010 - il luogo dove più che in ogni altro posto nel mondo il capitale umano fosse valorizzato e sostenuto, trasformando la propria economia in un’economia della conoscenza, un sistema nel quale le capacità dell’ingegno europeo fossero valorizzate al massimo. Quell’Europa voleva aprirsi al Mediterraneo, superando definitivamente i nazionalismi; voleva dare impulso ad un’economia e ad una società in cui ci fossero spazi di libertà per le molte iniziative nate dal basso e non legata unicamente a pochi centri di potere. Tutto questo è stato stravolto.
Quella guidata da Schröeder, da Chirac e da Zapatero, infatti, è l’Europa dei nazionalismi che, mentre non perde occasione per richiamarsi all’unità (purtroppo solo di facciata), vede crearsi un asse tra due dei suoi massimi esponenti (Schröeder e Chirac), per un seggio tedesco all’ONU, riproponendo così, dove le scelte contano, scene ottocentesche di distinzioni tra Paesi di serie A e di serie B.
Sul piano dell’economia internazionale, questa Europa si mostra sempre più una realtà chiusa, abbandonando qualsiasi tentativo di integrazione mediterranea e praticando un protezionismo agricolo verso l’America Latina, per citare solo due esempi. Non ha investito in istruzione e, con la sua politica volta unicamente all’equilibrio di bilancio, ha soffocato lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Del resto, questo non è strano se pensiamo che la politica economica è dominata da commissari – in alcuni casi quasi diretta espressione delle grandi lobby - che parlano di competitività, ma la usano a senso unico, difendendo i monopoli francesi e tedeschi in palese contrasto con antitrust nazionali e internazionali.
Ulteriore elemento negativo sono le posizioni criminali sulla vita, in realtà utili soltanto per accontentare elettorati radicali e coprire la radice reazionaria di questi tre esponenti.
Lo stop alla Costituzione europea è una sintesi di questa mancanza di identità.
In questo quadro italiano ed europeo, senza pretendere di giungere a conclusioni definitive, occorre affidare alla nazione intera e al singolo le chiavi del proprio destino e dello sviluppo. Ma qual è, allora, la strada da percorrere per un nuovo sviluppo?
4. Desiderio, opere, politica
Due testi molto diversi tra di loro, ci aiuteranno ad individuare una ipotesi di risposta: l’intervento di don Giussani all’assemblea della Democrazia Cristiana lombarda svoltosi ad Assago nel 1987 dal titolo “Desiderio, opere e politica” e l’opera fondamentale di K. J. Arrow, premio Nobel per l’economia e teorico dell’economia del benessere, intitolata “Scelte sociali e valori individuali”.
Don Giussani affermò che il desiderio di felicità, di verità, di giustizia, di bellezza costituisce la scintilla che accende il “motore”, per cui l’uomo “si mette a cercare il pane e l’acqua, si mette a cercare il lavoro, a cercare la donna, si mette a cercare una poltrona più comoda e un alloggio più decente, si interessa a come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell’ingrandirsi, del dilatarsi e del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente cuore”.
Come afferma l’autore, tuttavia, la mentalità dominante tende a ridurre sistematicamente i desideri dell’uomo, cercando di governarli, di appiattirli, fino a creare “smarrimento dei giovani e cinismo degli adulti”. Per questo occorrono movimenti che educano il desiderio, fino a permettere quell’esperienza di libertà che è soddisfazione del desiderio, e “incapaci di rimanere nell’astratto […], tendono a mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei bisogni in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture capillari e tempestive che chiamiamo «opere»”, cioè “forme di vita nuova per l’uomo”, come le chiamò Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982.
Da qui nasce l’appello finale alla politica perché rispetti e valorizzi questo dinamismo virtuoso: “Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno Stato prepotente sulla società”.
Alla luce del discorso di Assago è interessante rileggere l’opera fondamentale di Arrow.
L’economista americano dimostra che l’unico caso in cui un ordinamento sociale può essere costruito come semplice funzione delle preferenze personali è quando si attui, nei mercati e nella vita politica, una dittatura. C’è una sola possibilità in cui questa eventualità può essere evitata: quando, rinunciando all’utopia neoclassica dell’intangibilità delle preferenze individuali, più persone riconoscano valori comuni che rispecchiano i loro “desideri socializzati”. Così, Arrow conclude: “L’ordinamento rilevante per il raggiungimento di un massimo sociale è quello basato sui valori che rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi gli importanti desideri socializzanti”.
Cosa può accomunare i principi della Dottrina Sociale della Chiesa rivisitati da don Giussani e la trattazione di Arrow? Il fatto che, per aiutare gli uomini a fare un’esperienza di libertà, ad esprimere la propria capacità di costruzione, di risposta ai suoi bisogni, è necessario un assetto sociale caratterizzato dalla sussidiarietà, intesa come ordinamento che valorizzi i desideri degli io e le libere aggregazioni in cui questi desideri si sviluppano e si esprimono.
Si è detto che occorre educare gli uomini perché i loro desideri non siano ridotti e divengano effettiva libertà, intesa come responsabilità e capacità di costruzione. Tuttavia, uomini così educati hanno bisogno di strumenti per poter essere più efficaci nell’agire sociale, economico e politico. Da qui si deduce che per attuare la sussidiarietà il primo strumento è l’investimento in capitale umano, inteso come una sistematica formazione e istruzione di coloro che, mossi da un ideale e dal loro desiderio, vogliono dar vita ad opere e partecipare al cambiamento e al miglioramento di sé e dei propri simili.
La trattazione di Arrow, articolandosi in due aspetti fondamentali, il governo della società e il mercato, permette di enucleare anche gli altri fondamentali aspetti per l’attuarsi di una vera sussidiarietà. Essi sono: competitività, welfare mix e politica non invasiva.
Vediamo tutti questi aspetti in modo più approfondito a partire dall’investimento in capitale umano.
a. Investimento in capitale umano
Circa i due terzi dello sviluppo di un’attività economica dipendono dalle abilità dei lavoratori: nel breve periodo quale fattore della produzione e, nel lungo periodo, come parte del capitale.
Ecco perché l’Europa, con il Trattato di Lisbona, si era data come obiettivo per il 2010 quello di diventare il luogo dell’eccellenza nella conoscenza.
Dal punto di vista dell’investimento in istruzione, l’Europa è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti che hanno visto nella prima parte del ventesimo secolo il periodo di maggior diffusione dell’istruzione secondaria: la percentuale di americani con un diploma è cresciuta dal 9% del 1910 all’oltre 50% del 1940. Gli ultimi trent’anni hanno visto il diffondersi l’istruzione superiore (college e università). Oggi i due terzi circa dei diplomati americani proseguono in qualche modo la loro carriera scolastica.
In Europa invece la diffusione dell’istruzione secondaria è cominciata solo dopo la prima guerra mondiale e quella dell’istruzione superiore, solo in tempi recenti. Inoltre, ancora oggi i Paesi europei hanno un approccio più elitario di quello americano nei confronti della formazione universitaria.
In Italia, nonostante il fatto che lo sforzo per il cambiamento negli ultimi quarant’anni in Italia sia stato enorme, il gap rispetto agli altri Paesi sviluppati è tuttavia ancora grande. In Italia nel 2002 solo il 71% dei giovani compresi tra i 15 e i 19 anni è iscritto a scuola, contro una media dell’81% in Europa; solo il 42% delle persone tra i 25 e i 34 anni ha un diploma, contro il 60% nel resto dell’Unione Europea. Il dato non è omogeneo, sia in termini territoriali che per tipologia di scuola. Dall’indagine campionaria del Ministero della Pubblica Istruzione del 1999 si evince, in particolare, che la dispersione scolastica (data dagli alunni non frequentanti e dai ritirati senza motivazione) è molto più elevata nella scuola media inferiore e negli istituti tecnici e professionali del Sud e delle Isole rispetto al Nord. Inoltre la dispersione è molto più forte nel complesso degli istituti tecnici e professionali che nei licei, a segnalare come il disagio scolastico si concentri soprattutto in alcuni tipi di scuola. Il quadro complessivo è quello di un Paese che ha compiuto un enorme sforzo verso l’alfabetizzazione e l’istruzione di base di massa, ma non è riuscito completamente a compiere il secondo balzo: si evincono forti differenze, territoriali e per tipologia di scuola, in termini di dispersione scolastica.
La scuola italiana è stata tradizionalmente molto valida fino al primo livello di università. La non rinuncia a un affronto teorico delle materie ha permesso l’aumento dello spirito critico in tutti; il realismo e la concretezza hanno garantito la formazione di tecnici di alto livello. L’università fino al primo livello ha offerto una buona preparazione di base, tanto che molti italiani, specializzati all’estero, hanno raggiunto i vertici nel campo della ricerca scientifica. Adeguati investimenti in istruzione e ricerca sarebbero stati moltiplicatori di tali doti naturali. Invece lo sforzo di alfabetizzazione di massa ha coinciso con una caduta del livello qualitativo dell’istruzione correlato con un centralismo pubblico deleterio.
Fondamentale a questo livello è l’esistenza di scuole libere quali fattori di progresso umano e sociale.
Infatti, come afferma Glenn confrontando differenti sistemi scolastici secondo il grado di libertà di insegnamento, «i genitori che professano fedi o aderiscono a forme di appartenenza che divergono o vanno al di là di quelle autorizzate dalla cultura prevalente e che sono fermamente decisi a impostare l’educazione dei loro figli sulla base di esse, sono percepiti, dall’establishment dell’istruzione, come una minaccia molto più grande del loro reale potere. Nel momento in cui manifestano le loro preoccupazioni, essi mettono in discussione il mito stesso della “scuola unica”, e cioè, che i valori sostenuti e propagati dall’élite culturale mediante la pubblica istruzione siano neutrali, non settari e anzi assolutamente ovvi per ogni persona ragionevole»
(18).
Un sistema paritario tra scuole libere e scuole gestite dallo Stato è stato determinato dal ministro Berlinguer e la modifica costituzionale dell’articolo V lo ha confermato solennemente
(19). Occorre quindi rendere effettiva tale parità giuridica ponendo fine a una sottrazione di fondi ingiusta a danno di alcuni cittadini e degli studenti, equiparando l’Italia a Paesi come Irlanda, Spagna, Germania, Olanda, Belgio e Inghilterra.
Sostiene il Nobel per l’economia, Gary Becker: «Sono favorevole ad un sistema di voucher che consenta alle famiglie di scegliere tra scuola privata e pubblica. Questo non eliminerebbe l’istruzione pubblica, ma la costringerebbe a esporsi al vento della concorrenza, che può fare miracoli per gli studenti. Prevedo anzi che questo tipo di concorrenza aumenterebbe, e non diminuirebbe, la qualità delle scuole pubbliche, perché le costringerebbe a migliorare per attrarre più studenti»
(20).
Tuttavia l’istruzione di per sé non è sufficiente. L’istruzione è strumento essenziale ma può essere utilizzato anche in modo negativo: Pol Pot e altri grandi dittatori hanno studiato alla Sorbona.
Per ricordare la definizione di J.A. Jungmann, resa celebre da Luigi Giussani, l’educazione è “una introduzione alla realtà totale”
(21). L’istituzione scolastica ha lo scopo di istruire, ma in essa deve anche poter accadere un incontro con maestri che, nell’alveo di movimenti ideali, collaborando con i genitori, possano educare in un contesto di libertà di insegnamento. Da questo punto di vista la ricaduta di una vera educazione sull’istruzione è evidente. Dove c’è vitalità, spirito ideale, passione, coraggio, esperienza, è più facile imparare e affrontare le prove della vita, e quindi raggiungere il fine dell’istruzione, facendo in modo che nell’ambito della didattica si possano comunicare risposte adeguate ai bisogni conoscitivi, creativi e umani dello studente, a seconda delle varie fasi della sua vita personale. E’ per questo che, come è stato dimostrato, la motivazione incide per due terzi sulla capacità di apprendimento.
Da tale concezione dell’educazione e dal rispetto della libertà individuale deriva la centralità della persona nel processo educativo; essa non è una “identità” da costruire indipendentemente da lui: è “dato” da rispettare e soggettività che vuole crescere e che, per questo, deve essere favorita e aiutata.
b.Competitività e innovazione
Nei mercati di beni e servizi devono esser rispettate le regole necessarie perché ognuno possa esprimere le proprie potenzialità senza costrizioni. Le distorsioni che avvengono oggi in Italia nel sistema bancario, i privilegi che vengono concessi da parte dello Stato e del sistema finanziario a certe grandi imprese incapaci di vero sviluppo, la penalizzazione di molte piccole e medie imprese, ancorché concorrenziali e vitali, la falsa liberalizzazione delle pubbliche utilità che ha dato vita a oligopoli e monopoli, le rendite ingiustificate di corporazioni e lobby, sono forme larvate di dittatura che impediscono la pari opportunità nella competizione, la valorizzazione dei capaci e meritevoli e quindi la libertà.
La globalizzazione dei mercati e la nuova rivoluzione scientifico-tecnologico-industriale costringono ad affrontare tante emergenze per rendere competitivo il nostro sistema produttivo.
Invece di porre l’accento sul problema dell’adeguamento delle dimensioni aziendali o sul superamento dell’impresa a conduzione familiare, Quadrio Curzio e Marco Fortis ritengono cruciale la capacità di innovare come necessaria premessa di ogni ulteriore cambiamento, mettendo in luce le condizioni necessarie per l’attuarsi di tale innovazione: «È necessario considerare la capacità dei DI, delle Pmi e dei settori classici del Made in Italy […] di accettare e vincere la sfida dell’innovazione legata ai problemi dei bassi investimenti in R&S e alla loro scarsa selettività nel privilegiare l’eccellenza, la scarsa presenza dell’Italia nei settori high-tech caratterizzati da una domanda mondiale in dinamica ascesa, il non possedere un significativo numero di grandi imprese che possano supportare ingenti spese in R&S, le carenze della ricerca scientifica e della formazione nel contesto universitario e negli enti di ricerca, la mancanza di loro nessi di trasferimento con le imprese»
(22).
Non pochi sottolineano la centralità dell’innovazione e le condizioni per realizzarla, più raro è, invece, vedere nella sussidiarietà il metodo per attuarla. Affermano ancora Quadrio Curzio e Marco Fortis: «L’attuale “modello italiano”, con la sua innovazione complessa (di design, tecnologica, organizzativa e persino sociale) non progettata, come detto, non sarà sufficiente a garantirci la competitività per il futuro. Esso dovrà basarsi su un patto “PDL” ovvero tra Pilastri, Distretti, Laboratori… basato sul concetto di sussidiarietà del sistema economico composto dagli attori presentati e dalle linee di interazione tra gli stessi […] Il distretto è un soggetto “vivente” economico e sociale che ha una fortissima base comunitaria fondata sulla reciproca fiducia dei partecipanti al distretto stesso. È un luogo caratterizzato da forti identità culturali, sociali e civili, che presenta degli indubbi vantaggi competitivi in termini di competenze in particolari specializzazioni produttive e di sviluppo. Infine è una fonte di vivacità continua, compresa quella che si manifesta sotto forma di innovazione incrementale»
(23).
c.Welfare mix
Il metodo indicato per lo sviluppo del sistema produttivo che vale anche per il sistema del welfare, come sostengono con forza Lombardi e Antonini
(24), sottolineando l’importanza cruciale della nuova formulazione dell’art.118 della Costituzione, dove si utilizza il verbo “riconoscere” a riguardo della creatività economica e sociale, in molti settori ancora troppo spesso soffocata da “lacci e laccioli” .
Nei “quasi mercati” del welfare (sanità, assistenza, istruzione, cultura) sussidiarietà significa tutelare un incontro tra domanda e offerta al di fuori di utopie neoliberiste e dirigismi statalistici.
Secondo numerosi studiosi e nella pratica di molti Paesi di stampo anglosassone, in tali settori può essere concepita una concorrenza tra agenti di diritto pubblico, privati profit e privati non profit, mitigata da regole che tengano conto della delicatezza dei servizi erogati.
Sotto il profilo giuridico, in ogni democrazia occidentale, niente ostacola il fatto che il cittadino possa scegliere tra agenti di diversa tipologia. La reale esistenza di un “quasi mercato” e della libera scelta dipende però da tre condizioni. In primo luogo, occorre riconoscere che alcune realtà non profit di diritto privato svolgono una funzione di pubblica utilità equiparabile a quella di agenti statali. Secondariamente, si devono adottare adeguati sistemi di valutazione e accreditamento degli agenti erogatori di servizi utili per superare le asimmetrie informative che ostacolano la libera scelta del cittadino. In terzo luogo, la libertà di scelta deve essere supportata da un regime di sussidiarietà fiscale che permetta, per chi se ne serva, la detassazione delle donazioni e dei contributi a favore di enti non profit di pubblica utilità accreditati, invece che di agenti statali.
Se si attuassero queste tre condizioni si realizzerebbero reali sistemi di “quasi mercato” e di sussidiarietà orizzontale con grandi vantaggi in termini di efficienza, efficacia, equità, capillarità dei servizi erogati e maggior soddisfazione del consumatore.
Qualcosa in questa direzione, negli ultimi tempi è cambiato.
In Italia la Corte Costituzionale (in occasione della sentenza n.301/2003 sulle fondazioni bancarie) e implicitamente l’articolo 118 della Costituzione (così come è stato riformulato alla fine della scorsa legislatura) hanno cominciato ad ammettere, pur timidamente, la pubblica utilità di determinati agenti non profit; nel giugno di quest’anno è stata promulgata una legge per l’impresa sociale che definisce le non profit di pubblica utilità; in diversi settori si stanno inoltre approntando sistemi di accreditamento e valutazione.
A parte la recente approvazione della legge “Più dai, meno versi” che porta a 70.000 € il tetto di deduzioni riguardanti le erogazioni a favore di enti non profit (ampliando l’assurdo limite precedente fissato a 2000€), quasi nulla è stato fatto, invece, a livello di sussidiarietà fiscale. Se in Gran Bretagna, Germania, USA, esiste una detassazione tendenzialmente illimitata per donazioni e contributi al non profit, in Italia l’opzione per un servizio “privato”, diverso da quello offerto dall’ente pubblico, deve essere pagata con risorse ulteriori rispetto a quelle già prelevate dall’imposizione fiscale. Oggi, voucher, buoni scuola e buoni assistenza regionali esauriscono la limitatissima sussidiarietà fiscale esistente nel nostro Paese.
Quindi, la riforma costituzionale sulla sussidiarietà fiscale, seguita da leggi che permettano nuove deduzioni e detrazioni fiscali, anche estese ai voucher, sarebbe perciò una vera rivoluzione.
Si avrebbe uno strumento efficace per la lotta alla rendita, capace di restituire “sovranità” al contribuente che potrebbe finanziare maggiormente i servizi che più funzionano e lo soddisfano.
Su tale riforma, utile per rendere moderno, democratico ed efficiente il sistema del welfare in Italia, sarebbe veramente irragionevole non raggiungere un consenso unanime superando gli steccati e i pregiudizi ideologici che da troppo tempo ingessano il nostro Paese.
d. Politica non invasiva
Per attuare un sistema di sussidiarietà reale, occorre superare l’autoreferenzialità della “cittadella politica” che distorce il rapporto tra partiti, Stato, cittadini, sotto due aspetti altrettanto importanti. Da una parte è da evitare l’invasività di partiti che tendono a subordinare movimenti, società civile, mondo economico e culturale fino a tentare di eliminare l’espressione libera dei cittadini, anche nelle elezioni, abolendo le preferenze e predeterminando il nome degli eletti.
Occorre tornare a rispettare il valore delle istituzioni, che rappresentano lo Stato e sono garanzia di diritti dei cittadini e che in questi anni sono state svilite e subordinate ai propri interessi da esponenti di entrambi gli schieramenti.
Se queste sono le linee fondamentali secondo cui attuare il principio di sussidiarietà, non bastano analisi per renderlo effettivo: occorre mostrarne e moltiplicarne gli esempi in atto, nell’istruzione, nei mercati, nel welfare, nella politica (vedi ad esempio l’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà), condizioni indispensabili per evitare quel declino che, oggi, ha inizio innanzitutto nelle coscienze.
È l’esaltazione del desiderio di verità, di giustizia, di bellezza come fattore di progresso, anche economico, come afferma nel suo libro L’io, il potere, le opere, don Giussani. Custodire e incrementare il desiderio nell’uomo che lavora e investe è la condizione per favorire un’esistenza che persegua e compia il proprio destino e nello stesso tempo sia la premessa per un nuovo sviluppo
(25).
Io credo infatti che, come è avvenuto in molti momenti della nostra secolare storia, l’educazione del singolo io e del popolo alla realtà, percepita nell’integralità dei suoi fattori, attraverso un’esperienza ideale e di fede, possa costituire l’origine di un nuovo sviluppo umano e sociale.
Continuano ad esserne prova tutte quelle esperienze sociali ed economiche nate nella società dalla fede o da ideali di giustizia e progresso di cui la storia del nostro Paese è ricca.

see u,
Giangiacomo

3 commenti:

G. ha detto...

NOTE
(1) - Si pensi all’assurdità dell’Irap, tassa che colpisce chi crea nuova occupazione.
(2) - Sostiene il professor Sapelli: « Lo Stato ha assorbito come una gigantesca idrovora il sentimento collettivo un tempo vivo e operante dei doveri e dell’autorganizzazione per il soddisfacimento dei diritti che da quella assunzione derivavano. Ha lasciato esausta la società e svuotate le sue casse, avvoltolando crisi fiscale e crisi morale in un unico perverso gomitolo della solitudine dell’ egoismo sociale». SAPELLI G., Il ritorno alle virtù civili e al sociale per lo sviluppo dell’economia e della società italiana , in Atlantide 2005/1, p.58.
(3) - Ibidem
(4) - Ibidem
(5) - DEL NOCE A. Il Sabato, 29.12.1990.
(6) - LOMBARDI G. ANTONINI L., La difficile democrazia la speranza della solidarietà, in un nuovo io per un nuovo sviluppo, Bur, Milano, 2005.
(7) - GIUSSANI L intervista al Corriere della Sera 18 ottobre 1992
(8) - Ibidem
(9) - Ibidem
(10) - A tal proposito basti ricordare che il Prodotto interno lordo (PIL) per l’anno 2003 posiziona l’Italia al 6° posto su scala mondiale con circa 1466 miliardi di dollari. vedi CURZIO A. FORTIS M. L’economia italiana tra sviluppo e declino e innovazione, Bur, Milano, 2004.
(11) - SAPELLI G.,Il ritorno alle virtù civili e al sociale per lo sviluppo dell’economia e della società italiana in Atlantide 2005/1.
(12) - CAMPIGLIO L., ristagno e decisioni di sviluppo per l’economia italiana in Atlantide 2005/1.
(13) - DI VICO D. FITTIPALDI E., Unaradiografia dell’Italia di oggi. Rapporto sul Paese in un nuovo io per un nuovo sviluppo, BUR , milano, 2005.
(14) - Ibidem.
(15) - CAMPIGLIO L., ristagno e decisioni di sviluppo per l’economia italiana in Atlantide 2005/1.
(16) - SAPELLI G., Il ritorno alle virtù civili e al sociale per lo sviluppo dell’economia e della società italiana in Atlantide 2005/1.
(17) - CURZIO A. FORTIS M. L’economia italiana tra sviluppo e declino e innovazione in un nuovo io per un nuovo sviluppo Bur, Milano, 2005.
(18) - GLENN L., Il mito della scuola unica, Genova, Marietti 1820, 2004.
(19) - L’accusa secondo cui questo sistema sarebbe incostituzionale, non sussiste dal momento che lo Stato, non solo non ha oneri aggiuntivi, ma addirittura finora riceveva le tasse dalle famiglie degli alunni delle scuole libere, senza erogare alcun servizio e senza sostenere alcuna spesa.
(20) - GARY BECKER., Conferenza pubblica, Milano, Giugno, 1998.
(21) - J.A. Jungmann, Christus als Mittelpunkt religiöser Erziehung, Freiburg i. B. 1939, p. 20 (cit. In L. Giussani, Il rischio educativo, come creazione di personalità e di storia, SEI, Torino 1995, p. 19)
(22) - Ibidem.
(23) - Ibidem. Concorda Campiglio “Gli accordi diretti e volontari, le associazioni, i tavoli di dialogo e accordo fra rappresentanti di interessi differenti ma comuni sono varianti di un modo nuovo di realizzare obiettivi di politica economica che non è più possibile delegare alle virtù inconsapevoli del mercato” . CAMPIGLIO L., ristagno e decisioni di sviluppo per l’economia italiana in Atlantide 2005/1.
(24) - LOMBARDI G. ANTONINI L., La difficile democrazia la speranza della solidarietà, in un nuovo io per un nuovo sviluppo, Bur, Milano, 2005. Concorda in altra sede Sapelli “L’ individuo” è trasformato in “persona” quando si configura come attore di un sistema di doveri: dovere di sostenere la comunità garantendo ampie forme di inclusione sociale e quindi in primo luogo contribuendo con lo Stato, né contro lo Stato, né senza lo Stato, né solo con lo Stato, alla diffusione dell’istruzione, così come delle cure per la salute e per il godimento del frutto della contribuzione solidariamente apportata ai sistemi di previdenza.” SAPELLI G., Il ritorno alle virtù civili e al sociale per lo sviluppo dell’economia e della società italiana in Atlantide 2005/1.
(25) - GIUSSANI L., L’io il potere e le opere, Genova, Marietti 1820, 2000.

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Giangiacomo

Chris ha detto...

Anche io sostengo da sempre la sussidiarietà che è la vera frontiera di una nuova Democrazia. Bravo.

Anonimo ha detto...

Effetto scuole private: lo Stato risparmia sei miliardi ogni anno

Paolo Beltramin

Milano - Sei miliardi di euro: il patrimonio di Rupert Murdoch, secondo l’ultima classifica di Forbes. O, se preferite, il preventivo del ponte di Messina (3.666 metri sospesi sul mare) e del mega-tunnel del Brennero (56 chilometri sotto le montagne). Sei miliardi di euro, abbondanti, è quanto risparmia ogni anno lo Stato grazie alle scuole private. Lo rivela uno studio dell’Agesc, l’associazione genitori scuole cattoliche, basato sui dati del ministero dell’Istruzione incrociati ai conti della legge Finanziaria. Il calcolo, in fondo, è abbastanza semplice. La spesa pubblica per le scuole paritarie (compresi gli asili comunali) oggi è di mezzo miliardo abbondante. Esattamente 566 milioni e 810 mila euro. Ma quanto costerebbe allo Stato offrire una «scuola pubblica» al milione di studenti iscritti alle paritarie? Oltre dieci volte di più: sei miliardi e 245 milioni di euro.

Sui banchi delle statali, via via che uno studente cresce, dall’asilo all’esame di maturità, anche il costo della sua istruzione aumenta. Aule, docenti e tutto il resto costano, per ogni alunno, 6.116 euro all’anno alle materne, 7.366 alle elementari, 7.688 alle medie e 8.108 alle superiori. I finanziamenti alle scuole parificate, invece, procedono al contrario: 584 euro per ogni bimbo delle scuole dell’infanzia, 106 per ogni studente delle medie e meno della metà (51 euro) per quelli delle superiori.

La legge che istituisce i finanziamenti alle scuole paritarie (riconoscendone la «funzione pubblica») risale a 7 anni fa, con D’Alema a Palazzo Chigi. Il governo Berlusconi, dal 2001 al 2006, ha aumentato l’investimento da 473 a oltre 566 milioni all’anno. D’altronde, rivela l’Agesc, per ogni euro dato alle scuole paritarie, la pubblica amministrazione ne risparmia dieci. Eppure molti, dalla Cgil Scuola agli intellettuali «militanti» come Paolo Flores d’Arcais, non ci stanno. E continuano a tirare in ballo l’articolo 31 della Costituzione: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione» ma «senza oneri per lo Stato».

Forse, secondo i padri costituenti, lo Stato non dovrebbe dare neanche un euro alle famiglie che decidono di mandare i figli in un liceo cattolico, o in una materna comunale? Le cose non stanno proprio così, come dimostra il dibattito ospitato da ilsussidiario.net, quotidiano online della Fondazione per la Sussidiarietà. Spiega Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale: «La scuola pubblica non è un optional, ma è necessaria, ed è ovvio che le risorse pubbliche devono innanzitutto essere impiegate per mantenerla. Ma ciò non esclude che ci siano forme di coinvolgimento anche finanziario delle scuole private». E per Lorenza Violini, docente di Diritto costituzionale all’Università (Statale) di Milano, «l’articolo 33 è soltanto l’alibi di chi non vuole che le famiglie abbiano libertà di scelta».

Valentina Aprea, presidente della Commissione Istruzione della Camera, propone che «le scuole autonome, statali e paritarie, possano trasformarsi in fondazioni. Con il sostegno di partner pubblici e privati». E oggi pure il ministro ombra dell’Istruzione, Mariapia Garavaglia, sogna una scuola «un po’ meno ideologizzata», dove «è la famiglia che sceglie» e dove «un ragazzo, che studi in una scuola pubblica statale o non statale, abbia lo stesso peso economico». Ormai, a parole, sembrano d’accordo quasi tutti.