non mi ricordo perchè lo voglio inserire, ma... lo inserisco. poi quando mi ricorderò...
è il testo della canzone di Simon & Garfunkel, colonna sonora del film "Il laureato" con Dustin Hoffman
in realtà la canzone si intitolava "Mrs Roosvelt", ma è stata modificata apposta per il film
Mrs. Robinson
And here's to you, Mrs. Robinson
Jesus loves you more than you will know,
wo wo wo
God bless you please, Mrs. Robinson
Heaven holds a place for those who pray,
hey hey hey
Hey hey hey
We'd like to know a little bit about you for our files
We'd like to help you learn to help yourself
Look around you, all you see are sympathetic eyes
Stroll around the grounds until you feel at home
And here's to you, Mrs. Robinson
Jesus loves you more than you will know,
wo wo wo
God bless you please, Mrs. Robinson
Heaven holds a place for those who pray,
hey hey hey
Hey hey hey
Hide it in a hiding place where no one ever goes
Put it in your pantry with your cupcakes
It's a little secret, just the Robinsons' affair
Most of all you've got to hide it from the kids
Coo coo ca-choo, Mrs. Robinson
Jesus loves you more than you will know, wo wo wo
God bless you please, Mrs. Robinson
Heaven holds a place for those who pray,
hey hey hey
Hey hey hey
Sitting on a sofa on a Sunday afternoon
Going to the candidate's debate
Laugh about it, shout about it
When you've got to choose
Every way you look at it you lose
Where have you gone, Joe DiMaggio?
Our nation turns its lonely eyes to you,
woo woo woo
What's that you say, Mrs. Robinson?
Joltin' Joe has left and gone away,
hey hey hey
Hey hey hey
see u,
Giangiacomo
domenica 29 aprile 2007
L'Italia di Amato e di Ferrero risulta essere l'Eldorado dei clandestini
Complimenti (ironicamente parlando!) al Ministro Amato per il disegno legge relativo all'immigrazione che non fa altro che aprire le porte del nostro Paese al mondo intero e agli immigrati di tutto il mondo!
Per una squisita questione ideologica per cui la legge precedente (la Bossi - Fini), solo per il fatto che fosse promulgata dal Governo Berlusconi, doveva essere sbagliata e procreata con una concezione errata di fondo...
Il ministro dell’Interno ha constatato che, nonostante le severe norme promulgate dal governo precedente, il numero di ladri in Italia è in crescita. Ha pertanto deciso che occorrono nuove norme per i ladri: non più, ma meno severe. Anzi, per impedire che i ladri si offendano, li si chiamerà con nomi diversi da ladri, per esempio «disoccupati». I ladri, entusiasti, si sono convinti che l’Italia è il loro nuovo Eldorado e hanno cominciato a sbarcare in forze sulle nostre coste.
Questa notizia non è vera. Ma sostituendo a «ladri» le parole «immigrati clandestini» si ottiene una fedele trascrizione di quanto il governo sta proponendo in tema di immigrazione, e dei primi risultati che sta ottenendo. In un lussuoso opuscolo il Ministero dell’Interno difende il progetto Amato-Ferrero partendo da alcune osservazioni condivisibili che sono però rapidamente travolte dal fiume in piena dell’ideologia. È giusto insistere sul fatto che è la crisi demografica e familiare a richiedere che in Italia arrivino immigrati, anche se il ministro potrebbe predicarlo anzitutto a quei compagni di maggioranza sordi a qualunque ipotesi di difesa della famiglia. Si può anche convenire sul fatto che per alcune categorie di lavoratori - non solo le badanti, ma anche i tecnici altamente qualificati - l’immigrazione possa essere resa più facile. Infine, è vero che il numero di clandestini è aumentato.
Ma è assurdo sostenere che il numero di clandestini è aumentato non «nonostante» la legge Bossi-Fini, ma a causa di questa. Da quando in qua le leggi che puniscono più severamente un reato ne causano l’aumento? La verità è che i clandestini continuano ad arrivare non perché la Bossi-Fini sia inadeguata, ma perché i giudici non la applicano per ragioni ideologiche. Norme più blande non potranno che favorire nuovi ingressi, e lo hanno subito capito gli scafisti che in due giorni hanno organizzato due maxi-sbarchi in Calabria, una regione dove con il governo Berlusconi gli sbarchi erano cessati.
Non lo capisce invece il governo Prodi, perché gli fa da paraocchi l’ideologia. Per la legge Bossi-Fini, salva l'eventuale comprensione per singoli casi pietosi (che del resto ci sono anche fra i ladri, per cui il paragone iniziale non è forzato), l’immigrazione senza prospettive concrete di lavoro resta un reato; per il progetto Amato-Ferrero no. Con la nuova legge i clandestini «spariranno», perché non saranno più chiamati clandestini, ma «disoccupati».
Per la Bossi-Fini entra legalmente in Italia chi ha un lavoro; per la Amato-Ferrero può entrare in Italia chi dichiara di cercare un lavoro. In breve, con le nuove norme l’Italia diventa l’Eldorado dei clandestini. Lo hanno capito gli scafisti che arrivano in Calabria. Spetta ora all'opposizione impedire che l’infausto progetto del governo arrivi in porto, insieme alle migliaia di nuovi barconi che stanno già partendo verso l’Italia.
see u,
Giangiacomo
Per una squisita questione ideologica per cui la legge precedente (la Bossi - Fini), solo per il fatto che fosse promulgata dal Governo Berlusconi, doveva essere sbagliata e procreata con una concezione errata di fondo...
Il ministro dell’Interno ha constatato che, nonostante le severe norme promulgate dal governo precedente, il numero di ladri in Italia è in crescita. Ha pertanto deciso che occorrono nuove norme per i ladri: non più, ma meno severe. Anzi, per impedire che i ladri si offendano, li si chiamerà con nomi diversi da ladri, per esempio «disoccupati». I ladri, entusiasti, si sono convinti che l’Italia è il loro nuovo Eldorado e hanno cominciato a sbarcare in forze sulle nostre coste.
Questa notizia non è vera. Ma sostituendo a «ladri» le parole «immigrati clandestini» si ottiene una fedele trascrizione di quanto il governo sta proponendo in tema di immigrazione, e dei primi risultati che sta ottenendo. In un lussuoso opuscolo il Ministero dell’Interno difende il progetto Amato-Ferrero partendo da alcune osservazioni condivisibili che sono però rapidamente travolte dal fiume in piena dell’ideologia. È giusto insistere sul fatto che è la crisi demografica e familiare a richiedere che in Italia arrivino immigrati, anche se il ministro potrebbe predicarlo anzitutto a quei compagni di maggioranza sordi a qualunque ipotesi di difesa della famiglia. Si può anche convenire sul fatto che per alcune categorie di lavoratori - non solo le badanti, ma anche i tecnici altamente qualificati - l’immigrazione possa essere resa più facile. Infine, è vero che il numero di clandestini è aumentato.
Ma è assurdo sostenere che il numero di clandestini è aumentato non «nonostante» la legge Bossi-Fini, ma a causa di questa. Da quando in qua le leggi che puniscono più severamente un reato ne causano l’aumento? La verità è che i clandestini continuano ad arrivare non perché la Bossi-Fini sia inadeguata, ma perché i giudici non la applicano per ragioni ideologiche. Norme più blande non potranno che favorire nuovi ingressi, e lo hanno subito capito gli scafisti che in due giorni hanno organizzato due maxi-sbarchi in Calabria, una regione dove con il governo Berlusconi gli sbarchi erano cessati.
Non lo capisce invece il governo Prodi, perché gli fa da paraocchi l’ideologia. Per la legge Bossi-Fini, salva l'eventuale comprensione per singoli casi pietosi (che del resto ci sono anche fra i ladri, per cui il paragone iniziale non è forzato), l’immigrazione senza prospettive concrete di lavoro resta un reato; per il progetto Amato-Ferrero no. Con la nuova legge i clandestini «spariranno», perché non saranno più chiamati clandestini, ma «disoccupati».
Per la Bossi-Fini entra legalmente in Italia chi ha un lavoro; per la Amato-Ferrero può entrare in Italia chi dichiara di cercare un lavoro. In breve, con le nuove norme l’Italia diventa l’Eldorado dei clandestini. Lo hanno capito gli scafisti che arrivano in Calabria. Spetta ora all'opposizione impedire che l’infausto progetto del governo arrivi in porto, insieme alle migliaia di nuovi barconi che stanno già partendo verso l’Italia.
see u,
Giangiacomo
sabato 28 aprile 2007
Precari & Politiche Giovanili a Torino - Petizione
Per chi volesse sostenere i precari del Settore Politiche Giovanili del Comune di Torino, fatevi un giro su
www.petitiononline.com/p7p7g5t5/petition.html, leggete l’appello e perché no… mettete anche una firma!
Come dice lo storico dell’arte Alessandro Morandotti “Le rivoluzioni più clamorose non fanno rumore”, come una firma.
Non vogliamo morire in silenzio” - Torino, aprile 2007
Cari amici, La necessità di rivolgerci a voi tramite queste note scaturisce dalle difficili condizioni di comunicazione e di accesso alle informazioni in cui molti di noi, giovani collaboratori del Settore Politiche Giovanili del Comune di Torino si trovano attualmente, a fronte di uno scenario di “smantellamento” del Settore medesimo: una scelta politica mai ratificata ufficialmente, ma più volte ufficiosamente evocata negli ultimi mesi. Tuttavia, avendo nel frattempo avuto modo di confrontarci con gran parte dei soggetti coinvolti dalle attività del Settore in questi anni, crediamo di poter esprimere in modo più appropriato i nostri interrogativi nella forma di una lettera aperta, sperando di poter tenere insieme la questione di ordine politico più generale con alcune note riferite a casi specifici: non tanto per pretendere di incidere sul nostro destino di precari impiegati presso un'amministrazione pubblica, quanto piuttosto per farci testimoni e interlocutori pubblici di un problema che ci coinvolge da vicino (per il mancato rinnovo dei nostri contratti), ma il cui ordine di incidenza è assai più vasto. Il problema politico a cui ci riferiamo è il brusco cambiamento di rotta intrapreso dal governo della Città in merito alle politiche per i giovani. Siamo tutti consapevoli delle difficoltà che l'Amministrazione si trova ad affrontare per la riduzione dei trasferimenti dallo Stato previsti dalla Finanziaria e il grave livello di indebitamento ereditato dalle Olimpiadi (a conti fatti, 161 milioni di investimenti complessivi, di cui 40 soltanto destinati al completamento della metropolitana). Tuttavia l'ordine di priorità politica che l'Amministrazione intende perseguire rispetto ai suoi settori di competenza non può essere riferita strettamente a questioni di bilancio: esistono numerose possibilità di sviluppo delle politiche giovanili che possono fare affidamento su fondi non direttamente legati alla disponibilità economica della Città. Ma anche all'interno delle voci di spesa dirette crediamo che sia lecito porre alcune questioni fondamentali. Il dibattito sui tagli del bilancio 2007 ha avuto una certa eco sui quotidiani per ciò che riguarda la cultura, ma solo marginalmente si è interessato alla ventilata dismissione del Settore Politiche Giovanili. E' curioso notare, a questo proposito, l'incongruenza tra le attuali posizioni della Giunta – che cancella dal bilancio intere voci di spesa e, in prospettiva, il Settore nella sua totalità - e il quadro nazionale ed europeo che le stesse parti politiche disegnano. Citiamo alcuni esempi: a.“ Il progetto europeo è giovane, in continua formazione e oggetto di continuo dibattito: per progredire, esso ha bisogno dell’ambizione, dell’entusiasmo, ma anche dell’adesione dei giovani ai valori su cui si fonda. È il momento di considerare la gioventù come una forza nella costruzione europea e non come un problema da gestire. Occorre dare loro i mezzi per esprimere le loro idee e confrontarle con quelle di altri attori della società civile” (Libro bianco della Commissione Europea “Un nuovo impulso per la gioventù europea”, 2001 b. il nuovo regolamento relativo al Fondo Sociale Europeo (regolamento CE n. 1081/2006, 5 luglio 2006) stabilisce il campo di applicazione dell'intervento in un ambito immediatamente riconducibile alle politiche giovanili: si parla di “migliorare l'accesso all'occupazione e l'inserimento sostenibile nel mercato del lavoro”; “individuazione precoce delle esigenze con piani d'azione individuali ed un sostegno personalizzato”; “coinvolgimento delle comunità locali e delle imprese” e altro ancora (art.3). c. il programma “Gioventù in azione” 2007-2013 è entrato in vigore nel Gennaio 2007, secondo la Decisione n. 1719/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, con uno stanziamento di 885 milioni di euro da destinare alle politiche giovanili. Il Governo italiano recepisce la Decisione con la costituzione di un'Agenzia nazionale (DL 27 dicembre 2006, n. 297), che attraverso bandi destinati a soggetti individuali, associazioni ed enti pubblici dà accesso ai fondi. d. Nel Documento di Programmazione Economica Finanziaria, presentato il 7 luglio 2006, il Governo ha fatto una scelta ben precisa: “ investire con forza anche sulla parte giovane del paese, sostenere e valorizzare le energie creative dei giovani. Investire nei giovani significa infatti investire nella ricchezza della nostra società di oggi e di domani.” In tal senso il Governo, attraverso il Ministero per le Politiche Giovanili si è impegnato “ad avviare un vero e proprio Piano Nazionale per i giovani che risponda agli obiettivi dell’accesso dei giovani alla casa, al lavoro, all’impresa, al credito e alla cultura.” (Fonte DPEF 2007-2011, pag. 88)
Il Piano Nazionale Giovani, con una dotazione di 130 milioni di euro annui a partire dal 2007 (tra gli ambiti di programmazione del Fondo si vedano il concorso “Giovani idee cambiano l'Italia” e i Piani Locali Giovani con i Comuni, secondo la convenzione Anci del dicembre 2006), ha come principali obiettivi: • Agevolare l’accesso dei giovani al mondo del lavoro • Sviluppare e valorizzare le competenze dei giovani • Favorire l’accesso alla casa e al credito dei giovani Considerando questo scenario, che prospetta occasioni di investimento consistenti sulle politiche giovanili e ne evidenzia la priorità politica, è difficile comprendere le ragioni secondo cui il Governo della nostra Città ritiene di potersi sbarazzare di un intero Settore. Non è questa la sede più opportuna per ribadire il valore strategico dei progetti di punta delle politiche giovanili torinesi, volti in prima istanza ad agevolare l’accesso al mercato del lavoro, all'integrazione e alla valorizzazione di iniziative altrimenti escluse dai percorsi istituzionali (servizi di collocamento, incubatori di imprese), alle politiche per la coabitazione e l'accesso alla casa. L'incongruenza pare ancor più evidente se si considerano le linee espresse dagli stessi soggetti politici nel promuovere in tempi assai recenti proprio questa “strategicità”; a titolo di esempio citiamo il documento di deliberazione del 25 Giugno 2003, per l'approvazione del progetto “Giovani e idee a Torino”, nelle parole dell'allora vicesindaco Calgaro: “La Città considera la valorizzazione delle opportunità rivolte ai giovani una priorità, un pilastro nelle politiche cittadine volte a garantire l'immissione di nuove energie nel percorso di sviluppo delle attività economiche e sociali che Torino dovrà necessariamente fronteggiare nei prossimi anni. Il rilancio dell'area metropolitana torinese, e la sua competitività su scala nazionale e internazionale, dipende anche dalla sua capacità di promuoversi come territorio aperto ad accogliere l'innovazione e la creatività dei giovani. Per questa ragione è opportuno che la comunità metropolitana, attraverso l'articolazione delle sue forze attive, pubbliche e private, avvii iniziative, attraverso una metodologia ed un'organizzazione concertata, che provochino e promuovano la partecipazione dei giovani alle politiche di sviluppo e diano spazio con strumenti concreti alla sperimentazione di buone idee.” A meno che non si voglia considerare revocata l'intera linea di pensiero espressa in tale documento, le posizioni di Calgaro e le prospettive di quattro anni fa paiono ad oggi completamente vanificate e contraddette. Tanto più se si distingue tra il valore prioritario delle politiche giovanili tout-court e i vincoli di spesa della Città: un conto è sostenere che “tutto si può fare, spendendo di meno”, un altro conto è rinunciare alle politiche per i giovani. Fatte alcune considerazioni di carattere generale, è necessario entrare nel merito della gestione di questo frangente così drammatico per il futuro del Settore Politiche Giovanili e per i giovani collaboratori precari che hanno speso la loro professionalità e le loro competenze all’interno del Settore. Tentiamo di farlo in sintesi, ponendo due questioni fondamentali. a. Nel 2007 il budget complessivo del Settore Politiche Giovanili a Torino sarà ridotto del44%passando dai 2,5 a 1,4 milioni di €; i contributi alle Associazioni che sviluppano attività sul territorio in collaborazione col Settore saranno ridotti del 76% passando dai 300.000 a 70.000 €.
Se davvero la Città di Torino non ha soldi da spendere per i giovani, potrebbe farsi veicolo di accesso ai fondi che lo Stato, l'Europa e la Regione mettono a disposizione per questi obiettivi. L'elenco incompleto delle opportunità aperte è già stato illustrato in precedenza, perché la Città non sta usufruendo di queste risorse? b. Anche ammettendo che i soldi siano pochi, le priorità di spesa (contenuta) restano incomprensibili. Come giustificare la scelta di abbandonare fino ad esaurimento i progetti che avevano costituito ancora pochi mesi fa le azioni di punta del Settore e contemporaneamente mantenere la spesa per le iniziative di “occasione”, non direttamente riconducibili agli obiettivi di “immissione di nuove energie nel percorso di sviluppo delle attività economiche e sociali”? Alcuni esempi chiarificatori: i progetti “Case giovani” e “Giovani & Idee” vedranno rispettivamente tagliati i loro contributi da 30.000 euro a 10.000 euro e da 130.000 euro a 78.000 euro, con la prospettiva di essere definitivamente abbandonati entro l'anno successivo. Esiste inoltre una determinazione di spesa di 23.500 euro destinati a “Giovani & Idee” attraverso l'affidamento all'AICS, tuttora disponibile, che non verrà – a quanto pare – utilizzata. Infine non possiamo non ricordare che ancora con una deliberazione del 31 ottobre 2006 è stato approvato il progetto definitivo per l'edificio di via Cecchi 17, da adibire a “Officina delle Idee”, per un importo previsto di 12.900.000 euro e inserito nel Programma Triennale delle opere pubbliche 2006-2008. “Officina delle Idee” avrebbe dovuto essere la realizzazione fisica di una nuova sede per i progetti delle politiche giovanili e in particolare la definitiva sede del progetto “Giovani & Idee” A meno che non si voglia difendere l'imperscrutabilità delle scelte politiche e di bilancio – a detrimento della democraticità e della trasparenza istituzionale – ci sentiamo legittimati a richiedere adeguate ragioni che spieghino tali radicali cambiamenti nelle azioni di governo e di gestione. La Città di Torino, dopo 30 anni di vita del Settore Politiche Giovanili e dopo aver anticipato le civilissime istanze rivolte ai giovani che oggi vengono perseguite in ambito nazionale ed europeo (il progetto Melandri “Giovani idee cambiano l'Italia” parla da sé), decide di rinunciare a questa dimensione della sua attività di governo, di chiudere i contratti con i giovani precari che si occupavano di altri giovani e di lasciare questi ultimi senza referenti e con i progetti aperti, senza prospettive di conclusione. (Nota: solo “Giovani & Idee”,nelle suoi tre anni di attività ha accolto presso di sé più di 1500 giovani e accompagnato più di 500 proposte di progetto, con il lavoro di 6 addetti, di cui 5 con contratto di collaborazione coordinata continuativa). Tale richiesta finora è risultata del tutto vana, per ora abbiamo soltanto ottenuto informazioni ufficiose e mai ratificate riguardo alla futura morte dei progetti sopra citati e ora sentiamo la necessità di un confronto serio e diretto per mettere al corrente i collaboratori precari del loro destino e per chiedere all’amministrazione cittadina qual’è la linea politica , tuttora incomprensibile, che determina tali scelte e strategie. Per questo motivo vi chiediamo di sostenere la nostra richiesta d’incontrare pubblicamente il Sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, e l’Assessore alle Politiche Giovanili, Marta Levi, attraverso la firma di questa petizione. E’ importante il sostegno di tutti, soltanto manifestando il proprio interesse e la propria preoccupazione nei confronti del futuro delle Politiche Giovanili a Torino possiamo ottenere risposte chiare e siamo ancora in tempo, se fossero confermati gli scenari descritti in questo documento, a far si che si apra un confronto proficuo con l’amministrazione sulle alternative possibili. ...Non vogliamo morire in silenzio...
see u,
Giangiacomo
www.petitiononline.com/p7p7g5t5/petition.html, leggete l’appello e perché no… mettete anche una firma!
Come dice lo storico dell’arte Alessandro Morandotti “Le rivoluzioni più clamorose non fanno rumore”, come una firma.
Non vogliamo morire in silenzio” - Torino, aprile 2007
Cari amici, La necessità di rivolgerci a voi tramite queste note scaturisce dalle difficili condizioni di comunicazione e di accesso alle informazioni in cui molti di noi, giovani collaboratori del Settore Politiche Giovanili del Comune di Torino si trovano attualmente, a fronte di uno scenario di “smantellamento” del Settore medesimo: una scelta politica mai ratificata ufficialmente, ma più volte ufficiosamente evocata negli ultimi mesi. Tuttavia, avendo nel frattempo avuto modo di confrontarci con gran parte dei soggetti coinvolti dalle attività del Settore in questi anni, crediamo di poter esprimere in modo più appropriato i nostri interrogativi nella forma di una lettera aperta, sperando di poter tenere insieme la questione di ordine politico più generale con alcune note riferite a casi specifici: non tanto per pretendere di incidere sul nostro destino di precari impiegati presso un'amministrazione pubblica, quanto piuttosto per farci testimoni e interlocutori pubblici di un problema che ci coinvolge da vicino (per il mancato rinnovo dei nostri contratti), ma il cui ordine di incidenza è assai più vasto. Il problema politico a cui ci riferiamo è il brusco cambiamento di rotta intrapreso dal governo della Città in merito alle politiche per i giovani. Siamo tutti consapevoli delle difficoltà che l'Amministrazione si trova ad affrontare per la riduzione dei trasferimenti dallo Stato previsti dalla Finanziaria e il grave livello di indebitamento ereditato dalle Olimpiadi (a conti fatti, 161 milioni di investimenti complessivi, di cui 40 soltanto destinati al completamento della metropolitana). Tuttavia l'ordine di priorità politica che l'Amministrazione intende perseguire rispetto ai suoi settori di competenza non può essere riferita strettamente a questioni di bilancio: esistono numerose possibilità di sviluppo delle politiche giovanili che possono fare affidamento su fondi non direttamente legati alla disponibilità economica della Città. Ma anche all'interno delle voci di spesa dirette crediamo che sia lecito porre alcune questioni fondamentali. Il dibattito sui tagli del bilancio 2007 ha avuto una certa eco sui quotidiani per ciò che riguarda la cultura, ma solo marginalmente si è interessato alla ventilata dismissione del Settore Politiche Giovanili. E' curioso notare, a questo proposito, l'incongruenza tra le attuali posizioni della Giunta – che cancella dal bilancio intere voci di spesa e, in prospettiva, il Settore nella sua totalità - e il quadro nazionale ed europeo che le stesse parti politiche disegnano. Citiamo alcuni esempi: a.“ Il progetto europeo è giovane, in continua formazione e oggetto di continuo dibattito: per progredire, esso ha bisogno dell’ambizione, dell’entusiasmo, ma anche dell’adesione dei giovani ai valori su cui si fonda. È il momento di considerare la gioventù come una forza nella costruzione europea e non come un problema da gestire. Occorre dare loro i mezzi per esprimere le loro idee e confrontarle con quelle di altri attori della società civile” (Libro bianco della Commissione Europea “Un nuovo impulso per la gioventù europea”, 2001 b. il nuovo regolamento relativo al Fondo Sociale Europeo (regolamento CE n. 1081/2006, 5 luglio 2006) stabilisce il campo di applicazione dell'intervento in un ambito immediatamente riconducibile alle politiche giovanili: si parla di “migliorare l'accesso all'occupazione e l'inserimento sostenibile nel mercato del lavoro”; “individuazione precoce delle esigenze con piani d'azione individuali ed un sostegno personalizzato”; “coinvolgimento delle comunità locali e delle imprese” e altro ancora (art.3). c. il programma “Gioventù in azione” 2007-2013 è entrato in vigore nel Gennaio 2007, secondo la Decisione n. 1719/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, con uno stanziamento di 885 milioni di euro da destinare alle politiche giovanili. Il Governo italiano recepisce la Decisione con la costituzione di un'Agenzia nazionale (DL 27 dicembre 2006, n. 297), che attraverso bandi destinati a soggetti individuali, associazioni ed enti pubblici dà accesso ai fondi. d. Nel Documento di Programmazione Economica Finanziaria, presentato il 7 luglio 2006, il Governo ha fatto una scelta ben precisa: “ investire con forza anche sulla parte giovane del paese, sostenere e valorizzare le energie creative dei giovani. Investire nei giovani significa infatti investire nella ricchezza della nostra società di oggi e di domani.” In tal senso il Governo, attraverso il Ministero per le Politiche Giovanili si è impegnato “ad avviare un vero e proprio Piano Nazionale per i giovani che risponda agli obiettivi dell’accesso dei giovani alla casa, al lavoro, all’impresa, al credito e alla cultura.” (Fonte DPEF 2007-2011, pag. 88)
Il Piano Nazionale Giovani, con una dotazione di 130 milioni di euro annui a partire dal 2007 (tra gli ambiti di programmazione del Fondo si vedano il concorso “Giovani idee cambiano l'Italia” e i Piani Locali Giovani con i Comuni, secondo la convenzione Anci del dicembre 2006), ha come principali obiettivi: • Agevolare l’accesso dei giovani al mondo del lavoro • Sviluppare e valorizzare le competenze dei giovani • Favorire l’accesso alla casa e al credito dei giovani Considerando questo scenario, che prospetta occasioni di investimento consistenti sulle politiche giovanili e ne evidenzia la priorità politica, è difficile comprendere le ragioni secondo cui il Governo della nostra Città ritiene di potersi sbarazzare di un intero Settore. Non è questa la sede più opportuna per ribadire il valore strategico dei progetti di punta delle politiche giovanili torinesi, volti in prima istanza ad agevolare l’accesso al mercato del lavoro, all'integrazione e alla valorizzazione di iniziative altrimenti escluse dai percorsi istituzionali (servizi di collocamento, incubatori di imprese), alle politiche per la coabitazione e l'accesso alla casa. L'incongruenza pare ancor più evidente se si considerano le linee espresse dagli stessi soggetti politici nel promuovere in tempi assai recenti proprio questa “strategicità”; a titolo di esempio citiamo il documento di deliberazione del 25 Giugno 2003, per l'approvazione del progetto “Giovani e idee a Torino”, nelle parole dell'allora vicesindaco Calgaro: “La Città considera la valorizzazione delle opportunità rivolte ai giovani una priorità, un pilastro nelle politiche cittadine volte a garantire l'immissione di nuove energie nel percorso di sviluppo delle attività economiche e sociali che Torino dovrà necessariamente fronteggiare nei prossimi anni. Il rilancio dell'area metropolitana torinese, e la sua competitività su scala nazionale e internazionale, dipende anche dalla sua capacità di promuoversi come territorio aperto ad accogliere l'innovazione e la creatività dei giovani. Per questa ragione è opportuno che la comunità metropolitana, attraverso l'articolazione delle sue forze attive, pubbliche e private, avvii iniziative, attraverso una metodologia ed un'organizzazione concertata, che provochino e promuovano la partecipazione dei giovani alle politiche di sviluppo e diano spazio con strumenti concreti alla sperimentazione di buone idee.” A meno che non si voglia considerare revocata l'intera linea di pensiero espressa in tale documento, le posizioni di Calgaro e le prospettive di quattro anni fa paiono ad oggi completamente vanificate e contraddette. Tanto più se si distingue tra il valore prioritario delle politiche giovanili tout-court e i vincoli di spesa della Città: un conto è sostenere che “tutto si può fare, spendendo di meno”, un altro conto è rinunciare alle politiche per i giovani. Fatte alcune considerazioni di carattere generale, è necessario entrare nel merito della gestione di questo frangente così drammatico per il futuro del Settore Politiche Giovanili e per i giovani collaboratori precari che hanno speso la loro professionalità e le loro competenze all’interno del Settore. Tentiamo di farlo in sintesi, ponendo due questioni fondamentali. a. Nel 2007 il budget complessivo del Settore Politiche Giovanili a Torino sarà ridotto del44%passando dai 2,5 a 1,4 milioni di €; i contributi alle Associazioni che sviluppano attività sul territorio in collaborazione col Settore saranno ridotti del 76% passando dai 300.000 a 70.000 €.
Se davvero la Città di Torino non ha soldi da spendere per i giovani, potrebbe farsi veicolo di accesso ai fondi che lo Stato, l'Europa e la Regione mettono a disposizione per questi obiettivi. L'elenco incompleto delle opportunità aperte è già stato illustrato in precedenza, perché la Città non sta usufruendo di queste risorse? b. Anche ammettendo che i soldi siano pochi, le priorità di spesa (contenuta) restano incomprensibili. Come giustificare la scelta di abbandonare fino ad esaurimento i progetti che avevano costituito ancora pochi mesi fa le azioni di punta del Settore e contemporaneamente mantenere la spesa per le iniziative di “occasione”, non direttamente riconducibili agli obiettivi di “immissione di nuove energie nel percorso di sviluppo delle attività economiche e sociali”? Alcuni esempi chiarificatori: i progetti “Case giovani” e “Giovani & Idee” vedranno rispettivamente tagliati i loro contributi da 30.000 euro a 10.000 euro e da 130.000 euro a 78.000 euro, con la prospettiva di essere definitivamente abbandonati entro l'anno successivo. Esiste inoltre una determinazione di spesa di 23.500 euro destinati a “Giovani & Idee” attraverso l'affidamento all'AICS, tuttora disponibile, che non verrà – a quanto pare – utilizzata. Infine non possiamo non ricordare che ancora con una deliberazione del 31 ottobre 2006 è stato approvato il progetto definitivo per l'edificio di via Cecchi 17, da adibire a “Officina delle Idee”, per un importo previsto di 12.900.000 euro e inserito nel Programma Triennale delle opere pubbliche 2006-2008. “Officina delle Idee” avrebbe dovuto essere la realizzazione fisica di una nuova sede per i progetti delle politiche giovanili e in particolare la definitiva sede del progetto “Giovani & Idee” A meno che non si voglia difendere l'imperscrutabilità delle scelte politiche e di bilancio – a detrimento della democraticità e della trasparenza istituzionale – ci sentiamo legittimati a richiedere adeguate ragioni che spieghino tali radicali cambiamenti nelle azioni di governo e di gestione. La Città di Torino, dopo 30 anni di vita del Settore Politiche Giovanili e dopo aver anticipato le civilissime istanze rivolte ai giovani che oggi vengono perseguite in ambito nazionale ed europeo (il progetto Melandri “Giovani idee cambiano l'Italia” parla da sé), decide di rinunciare a questa dimensione della sua attività di governo, di chiudere i contratti con i giovani precari che si occupavano di altri giovani e di lasciare questi ultimi senza referenti e con i progetti aperti, senza prospettive di conclusione. (Nota: solo “Giovani & Idee”,nelle suoi tre anni di attività ha accolto presso di sé più di 1500 giovani e accompagnato più di 500 proposte di progetto, con il lavoro di 6 addetti, di cui 5 con contratto di collaborazione coordinata continuativa). Tale richiesta finora è risultata del tutto vana, per ora abbiamo soltanto ottenuto informazioni ufficiose e mai ratificate riguardo alla futura morte dei progetti sopra citati e ora sentiamo la necessità di un confronto serio e diretto per mettere al corrente i collaboratori precari del loro destino e per chiedere all’amministrazione cittadina qual’è la linea politica , tuttora incomprensibile, che determina tali scelte e strategie. Per questo motivo vi chiediamo di sostenere la nostra richiesta d’incontrare pubblicamente il Sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, e l’Assessore alle Politiche Giovanili, Marta Levi, attraverso la firma di questa petizione. E’ importante il sostegno di tutti, soltanto manifestando il proprio interesse e la propria preoccupazione nei confronti del futuro delle Politiche Giovanili a Torino possiamo ottenere risposte chiare e siamo ancora in tempo, se fossero confermati gli scenari descritti in questo documento, a far si che si apra un confronto proficuo con l’amministrazione sulle alternative possibili. ...Non vogliamo morire in silenzio...
see u,
Giangiacomo
venerdì 27 aprile 2007
Le Pen, facitore di Re
Dalla penna di Barbara Spinelli, un editoriale de La Stampa del 15 Aprile 2007, in cui si palesa il fatto che il quotidiano torinese ormai è schieratissimo a sinistra.
Tra massoni e comunisti che lo timonano, non c'è più spazio, non c'è più libertà e imparzialità.
Boicottiamo e non compriamo più un giornale che ogni giorno interpreta e fa interpretare la realtà in modo traviante!!!
"Fra una settimana esatta, il 22 aprile, si conosceranno i nomi dei due politici francesi ce si contenderanno il trono dell'Eliseo nel finale duello del 6 maggio.
Di trono infatti si tratta, perchè il Capo di Stato in Francia è socrano dotato di aura sacrale e incarna la nazione, quasi si trattasse di riparare il regicidio del 1793 e direstaurare il moncarca divino. La parola incarnazione torna spesso in queste elezioni.
E' segno che la politica ha di nuovo bisogno di simboli religiosi, tanto appare impotente.
E' segno che molti di aspettano una personalità non del tutto mondana, profana. Sono in voga i santi, e in primis Giovanna d'Arco.
Segolene Royal si presenta come figura d'incarnazione e pronuncia frasi sibilinne come : Mi iscrivo in un superamento, senza specificare quel che supera. Quando parla di depassement, sembra adombrare una trascendenza più che un oltre passare.
Questa bisogno di sacro e d'incarnazione è diffuso, e illustra bene lo stato d'animo fideistico, nebbiosamente desolato, dei principali candidati
E' come se la Francia politica si fosse installata in una condizionevissuta come fatale: la disfatta, la decadenza.
E' come se si trattasse di costruire a partire da un disastro avvenuto
Il senso del declino irriga da anni i discorsi elettorali, le analisi economiche.
La Francia malata che fatica a guarire è metafora ricorrente e ogni cosa è vista in un'ottica medica, è interpretata come infermità di organismi sconnessi che si disfano, di corpi che non resistono al nuovo, di morbi che preparano putreazioni.
La medicalizzazione del linguaggio politico è un luogo comune anche in Europa, e in Francia non è nuovo.
Conobbe la gloria tra fine '800 e '900, quando Eduard Drumont usò le analisi del dottor Charcot per descrivere la putrefazione-decadenza della nazione. Produsse antisemitismo feroce e divenne appannaggio delle destre estreme. Anche oggi l'ossessione del disfacimento e della rovina domina la politica, ed è monopolizzata dalle destre anche se tutti ne sono afflitti. Solo che la disfatta non è militare, e neppure è economica nonostante i toni sinistri con cui viene descritto lo stato dei conti francesi. È una disfatta culturale, dovuta a due elementi: l'installarsi ormai inestirpabile dell'estrema destra, e la fine della Francia motore d'Europa. I fenomeni sono tra loro collegati: la Francia non sarebbe così irrilevante nell'Unione, se il discorso nazional-protezionista non fosse tanto possente. E quest'ultimo non sarebbe possente se Parigi avesse lavorato più concretamente per costruire e ricostruire l'Europa. Sono decenni che l'estrema destra è rappresentata da Jean-Marie Le Pen, e il protagonista della campagna elettorale è ancora una volta lui. Magari alla fine si faranno strada Sarkozy a destra e Ségolène a sinistra: ma ambedue si presentano come sintomi e specchi, più che come risposte. Chi ha idee e iniziativa è Le Pen ed è il centrista Bayrou, che non s'accontenta d'esser specchio e propone inediti equilibri parlamentari. Con pertinenza, Stephen Philip Kramer sostiene, nel numero di Foreign Affairs del luglio-agosto 2006, che Le Pen è il vero kingmaker, il personaggio che decide chi sarà re. I suoi temi sono divenuti temi di tutti (sicurezza, immigrazione, identità) e sua è l'idea che l'establishment sia colpevole della decadenza nazionale. L'anti-establishment, scrive Kramer, appartenne per decenni ai comunisti ma ha traslocato ora verso l'estrema destra. In Europa è già accaduto: con Haider in Austria, Berlusconi e Lega in Italia, i fratelli Kaczynski in Polonia. Ma la Francia estende l'esperimento: l'intero arco delle forze politiche è stregato da Le Pen e dalle sue menzogne sull'Europa divoratrice di sovranità e identità. Nessuno ha sfatato queste illusioni dicendo il vero sulla sovranità comunque perduta, tranne Bayrou. Nessuno ricorda che, dopo il '45, Parigi ebbe la saggezza di risolvere i propri problemi risolvendo quelli d'Europa. Sarkozy come Ségolène alimentano l'illusione, riprendendo uno dopo l'altro i pensieri di Le Pen come se si trattasse di far loro cambiar casa più che di confutarli. Questa propensione a parlar di malattie organiche anziché di difficoltà politiche ha radici antiche, come antico è l'assillo del declino: Drumont descriveva una Francia contaminata dagli ebrei e la paragonava alla Polonia, corrotta nella purezza cristiana fino a esser fagocitata da potenze aliene. Oggi come allora, tuttavia, è una ben strana disfatta quella che viene agitata come spauracchio. Non tutto è andato male in questi decenni, a cominciare dal governo socialista di Jospin (aumento dell'occupazione, privatizzazione dell'economia) e il suo naufragio alle presidenziali del 2002 è senza gran rapporto con la realtà: Jospin fu sorpassato al primo turno da Le Pen perché la sete d'illusioni era soverchiante, non perché Jospin fosse rovinoso. La disfatta francese è in gran parte immaginaria, il declino viene esagerato. Una cosa certo s'è disfatta: l'idea che ci si faceva di una sovranità inalterata. Ma proprio quest'illusione resta in piedi, e la parabola Jospin non ha insegnato nulla. Le Pen preserva il miraggio e questa resta la sua forza di kingmaker. Di rovine identitarie la Francia ne ha conosciute molte in passato e di strana instabilità mentale parla lo storico Marc Bloch, in un libro scritto quando il paese fu vinto da Hitler nel '40 (La strana disfatta è tradotto da Einaudi). È un libro che andrebbe riletto, non solo in Francia: per lo sforzo di capire quel che accadeva non tanto sul fronte quanto nelle retrovie, non tanto nella condotta militare quanto nelle menti di un'élite. Anche il metodo suggerito da Bloch - il «conosci te stesso» socratico - andrebbe riesumato. Nel capitolo più luminoso («Esame di coscienza di un francese») Bloch esplora le cause vere della sconfitta: l'ignoranza pigra delle classi dirigenti (borghesia illuminata, partiti a destra e sinistra, sindacati, industriali, stampa); la loro riluttanza a informare il popolo e dirgli il vero; l'«impreparazione al sorprendente»; l'intelligenza fine a se stessa, senza relazione con la pratica. E poi, nei sindacati, «l'incapacità di vedere più lontano, più alto, più ampio», senza impantanarsi nell'interesse breve e particolare. E l'accidia cieca, nei borghesi: «D'un tratto la borghesia smise d'esser felice», «istupidita» dall'odio del Fronte Popolare. E la convinzione che la Francia fosse pourrie, marcia, nei capi d'industria, negli amministratori, negli ufficiali dell'esercito: «Ricevevano gli ordini da un sistema politico che pareva loro corrotto fino all'osso; difendevano un paese giudicato in anticipo incapace di resistere». È significativo che il gollista Sarkozy, a tanti anni di distanza, respinga proprio quel metodo di Bloch. In un'intervista al filosofo Onfray, sulla rivista Philosophie Magazine (nr 8 - marzo), non insiste solo nel medicalizzare la politica, facendo prevalere l'innato sull'acquisito alla maniera di Drumont e dicendo che «si nasce pedofili» o con tendenze suicide. Aggiunge qualcosa di non meno significativo. Dice di esecrare proprio la massima che più aiuterebbe, oggi, i francesi: «Nella conversazione - scrive Onfray - Sarkozy mi confida che non ha mai ascoltato qualcosa di così assurdo come la frase di Socrate: “Conosci te stesso”. Resto di ghiaccio. Quest'uomo ritiene dunque vana la conoscenza di sé». Sarkozy è il più vicino al Fronte Nazionale, com'è ovvio: Le Pen nasce a destra, e assorbirlo spetta a quest'ultima. Sarkozy sogna di incorporarlo per soffocarlo, come fece Mitterrand con il Pc. Ma Le Pen ha il vento in poppa, mentre i comunisti non l'avevano; Le Pen è kingmaker, i comunisti non lo erano. Manca infine a Sarkozy la calma di Mitterrand. Costantemente eccitato, si è insediato stabilmente nel declino perché tutto quel che va male lo avvantaggia: fu così dopo il referendum europeo, e dopo le violenze in banlieue nel 2005. Sarkozy vive di quelle che vengon chiamate malattie, dunque le accentua: il pericolo di una sua vittoria è qui. Forse sarebbe in grado più di altri di riformare e aprire a forze nuove, ma il suo bisogno di conflitto, di odio e di paura è molto grande e liberarsene non sarà facile. A forza di crescere sulla paura o sul disgusto dell'establishment, sia Sarkozy sia Ségolène corrono il pericolo di precipitare nell'ottusità. Michel Rocard lo ha fatto capire venerdì: c'è un solo modo per battere Sarkozy ed è quello di uscire dalle chiusure mentali dei due blocchi, di creare un'alleanza che sorprenda, tra Ségolène e Bayrou. Fin da ora, prima del 22 aprile, perché la desistenza funzioni bene il 6 maggio. Qualcosa occorre fare, per fronteggiare il paradosso secondo cui l'unico a poter battere Sarkozy (Bayrou) è il politico che rischia d'essere assente fra primo e secondo turno. Sdegnati, i socialisti hanno respinto l'invito lanciato da Rocard e accolto con slancio da Bayrou. Così tenace è l'attaccamento alle illusioni, a sinistra e a destra. Così ben distribuita è la stupidità anziché il buon senso. Così forte il potere immobilizzatore di Le Pen, facitore di re".
see u,
Giangiacomo
Tra massoni e comunisti che lo timonano, non c'è più spazio, non c'è più libertà e imparzialità.
Boicottiamo e non compriamo più un giornale che ogni giorno interpreta e fa interpretare la realtà in modo traviante!!!
"Fra una settimana esatta, il 22 aprile, si conosceranno i nomi dei due politici francesi ce si contenderanno il trono dell'Eliseo nel finale duello del 6 maggio.
Di trono infatti si tratta, perchè il Capo di Stato in Francia è socrano dotato di aura sacrale e incarna la nazione, quasi si trattasse di riparare il regicidio del 1793 e direstaurare il moncarca divino. La parola incarnazione torna spesso in queste elezioni.
E' segno che la politica ha di nuovo bisogno di simboli religiosi, tanto appare impotente.
E' segno che molti di aspettano una personalità non del tutto mondana, profana. Sono in voga i santi, e in primis Giovanna d'Arco.
Segolene Royal si presenta come figura d'incarnazione e pronuncia frasi sibilinne come : Mi iscrivo in un superamento, senza specificare quel che supera. Quando parla di depassement, sembra adombrare una trascendenza più che un oltre passare.
Questa bisogno di sacro e d'incarnazione è diffuso, e illustra bene lo stato d'animo fideistico, nebbiosamente desolato, dei principali candidati
E' come se la Francia politica si fosse installata in una condizionevissuta come fatale: la disfatta, la decadenza.
E' come se si trattasse di costruire a partire da un disastro avvenuto
Il senso del declino irriga da anni i discorsi elettorali, le analisi economiche.
La Francia malata che fatica a guarire è metafora ricorrente e ogni cosa è vista in un'ottica medica, è interpretata come infermità di organismi sconnessi che si disfano, di corpi che non resistono al nuovo, di morbi che preparano putreazioni.
La medicalizzazione del linguaggio politico è un luogo comune anche in Europa, e in Francia non è nuovo.
Conobbe la gloria tra fine '800 e '900, quando Eduard Drumont usò le analisi del dottor Charcot per descrivere la putrefazione-decadenza della nazione. Produsse antisemitismo feroce e divenne appannaggio delle destre estreme. Anche oggi l'ossessione del disfacimento e della rovina domina la politica, ed è monopolizzata dalle destre anche se tutti ne sono afflitti. Solo che la disfatta non è militare, e neppure è economica nonostante i toni sinistri con cui viene descritto lo stato dei conti francesi. È una disfatta culturale, dovuta a due elementi: l'installarsi ormai inestirpabile dell'estrema destra, e la fine della Francia motore d'Europa. I fenomeni sono tra loro collegati: la Francia non sarebbe così irrilevante nell'Unione, se il discorso nazional-protezionista non fosse tanto possente. E quest'ultimo non sarebbe possente se Parigi avesse lavorato più concretamente per costruire e ricostruire l'Europa. Sono decenni che l'estrema destra è rappresentata da Jean-Marie Le Pen, e il protagonista della campagna elettorale è ancora una volta lui. Magari alla fine si faranno strada Sarkozy a destra e Ségolène a sinistra: ma ambedue si presentano come sintomi e specchi, più che come risposte. Chi ha idee e iniziativa è Le Pen ed è il centrista Bayrou, che non s'accontenta d'esser specchio e propone inediti equilibri parlamentari. Con pertinenza, Stephen Philip Kramer sostiene, nel numero di Foreign Affairs del luglio-agosto 2006, che Le Pen è il vero kingmaker, il personaggio che decide chi sarà re. I suoi temi sono divenuti temi di tutti (sicurezza, immigrazione, identità) e sua è l'idea che l'establishment sia colpevole della decadenza nazionale. L'anti-establishment, scrive Kramer, appartenne per decenni ai comunisti ma ha traslocato ora verso l'estrema destra. In Europa è già accaduto: con Haider in Austria, Berlusconi e Lega in Italia, i fratelli Kaczynski in Polonia. Ma la Francia estende l'esperimento: l'intero arco delle forze politiche è stregato da Le Pen e dalle sue menzogne sull'Europa divoratrice di sovranità e identità. Nessuno ha sfatato queste illusioni dicendo il vero sulla sovranità comunque perduta, tranne Bayrou. Nessuno ricorda che, dopo il '45, Parigi ebbe la saggezza di risolvere i propri problemi risolvendo quelli d'Europa. Sarkozy come Ségolène alimentano l'illusione, riprendendo uno dopo l'altro i pensieri di Le Pen come se si trattasse di far loro cambiar casa più che di confutarli. Questa propensione a parlar di malattie organiche anziché di difficoltà politiche ha radici antiche, come antico è l'assillo del declino: Drumont descriveva una Francia contaminata dagli ebrei e la paragonava alla Polonia, corrotta nella purezza cristiana fino a esser fagocitata da potenze aliene. Oggi come allora, tuttavia, è una ben strana disfatta quella che viene agitata come spauracchio. Non tutto è andato male in questi decenni, a cominciare dal governo socialista di Jospin (aumento dell'occupazione, privatizzazione dell'economia) e il suo naufragio alle presidenziali del 2002 è senza gran rapporto con la realtà: Jospin fu sorpassato al primo turno da Le Pen perché la sete d'illusioni era soverchiante, non perché Jospin fosse rovinoso. La disfatta francese è in gran parte immaginaria, il declino viene esagerato. Una cosa certo s'è disfatta: l'idea che ci si faceva di una sovranità inalterata. Ma proprio quest'illusione resta in piedi, e la parabola Jospin non ha insegnato nulla. Le Pen preserva il miraggio e questa resta la sua forza di kingmaker. Di rovine identitarie la Francia ne ha conosciute molte in passato e di strana instabilità mentale parla lo storico Marc Bloch, in un libro scritto quando il paese fu vinto da Hitler nel '40 (La strana disfatta è tradotto da Einaudi). È un libro che andrebbe riletto, non solo in Francia: per lo sforzo di capire quel che accadeva non tanto sul fronte quanto nelle retrovie, non tanto nella condotta militare quanto nelle menti di un'élite. Anche il metodo suggerito da Bloch - il «conosci te stesso» socratico - andrebbe riesumato. Nel capitolo più luminoso («Esame di coscienza di un francese») Bloch esplora le cause vere della sconfitta: l'ignoranza pigra delle classi dirigenti (borghesia illuminata, partiti a destra e sinistra, sindacati, industriali, stampa); la loro riluttanza a informare il popolo e dirgli il vero; l'«impreparazione al sorprendente»; l'intelligenza fine a se stessa, senza relazione con la pratica. E poi, nei sindacati, «l'incapacità di vedere più lontano, più alto, più ampio», senza impantanarsi nell'interesse breve e particolare. E l'accidia cieca, nei borghesi: «D'un tratto la borghesia smise d'esser felice», «istupidita» dall'odio del Fronte Popolare. E la convinzione che la Francia fosse pourrie, marcia, nei capi d'industria, negli amministratori, negli ufficiali dell'esercito: «Ricevevano gli ordini da un sistema politico che pareva loro corrotto fino all'osso; difendevano un paese giudicato in anticipo incapace di resistere». È significativo che il gollista Sarkozy, a tanti anni di distanza, respinga proprio quel metodo di Bloch. In un'intervista al filosofo Onfray, sulla rivista Philosophie Magazine (nr 8 - marzo), non insiste solo nel medicalizzare la politica, facendo prevalere l'innato sull'acquisito alla maniera di Drumont e dicendo che «si nasce pedofili» o con tendenze suicide. Aggiunge qualcosa di non meno significativo. Dice di esecrare proprio la massima che più aiuterebbe, oggi, i francesi: «Nella conversazione - scrive Onfray - Sarkozy mi confida che non ha mai ascoltato qualcosa di così assurdo come la frase di Socrate: “Conosci te stesso”. Resto di ghiaccio. Quest'uomo ritiene dunque vana la conoscenza di sé». Sarkozy è il più vicino al Fronte Nazionale, com'è ovvio: Le Pen nasce a destra, e assorbirlo spetta a quest'ultima. Sarkozy sogna di incorporarlo per soffocarlo, come fece Mitterrand con il Pc. Ma Le Pen ha il vento in poppa, mentre i comunisti non l'avevano; Le Pen è kingmaker, i comunisti non lo erano. Manca infine a Sarkozy la calma di Mitterrand. Costantemente eccitato, si è insediato stabilmente nel declino perché tutto quel che va male lo avvantaggia: fu così dopo il referendum europeo, e dopo le violenze in banlieue nel 2005. Sarkozy vive di quelle che vengon chiamate malattie, dunque le accentua: il pericolo di una sua vittoria è qui. Forse sarebbe in grado più di altri di riformare e aprire a forze nuove, ma il suo bisogno di conflitto, di odio e di paura è molto grande e liberarsene non sarà facile. A forza di crescere sulla paura o sul disgusto dell'establishment, sia Sarkozy sia Ségolène corrono il pericolo di precipitare nell'ottusità. Michel Rocard lo ha fatto capire venerdì: c'è un solo modo per battere Sarkozy ed è quello di uscire dalle chiusure mentali dei due blocchi, di creare un'alleanza che sorprenda, tra Ségolène e Bayrou. Fin da ora, prima del 22 aprile, perché la desistenza funzioni bene il 6 maggio. Qualcosa occorre fare, per fronteggiare il paradosso secondo cui l'unico a poter battere Sarkozy (Bayrou) è il politico che rischia d'essere assente fra primo e secondo turno. Sdegnati, i socialisti hanno respinto l'invito lanciato da Rocard e accolto con slancio da Bayrou. Così tenace è l'attaccamento alle illusioni, a sinistra e a destra. Così ben distribuita è la stupidità anziché il buon senso. Così forte il potere immobilizzatore di Le Pen, facitore di re".
see u,
Giangiacomo
Tutta la verità sul "tesoretto"
da un mio caro amico...
tutta la verità, niente altro che la verità, sul "tesoretto", vivendo la situazione e la strategia di utilizzo in prima persona...
"Nell'ultimo incontro a Palazzo Chigi, al quale ho partecipato, Padoa Schioppa ha dichiarato che 10mld € sono strutturali, ma 7,5 vanno per risanare il bilancio (così accontentano l'UE). Ne consegue che solo 2,5 potranno essere utilizzati per le riforme (per lo considerate necessarie, basilari e fondamentali anche se subito dopo impongono dei paletti). Questi 2,5mld potrebbero essere integrati da tagli alla spesa pubblica (accorpamento degli istituti previdenziali). Il governo ha individuato almeno 5 zone d'intervento, ma la cifra è assolutamente irrisoria per apportare modifiche significative a tutte quante!
Le teorie su come utilizzare queste risorse sono tante, il rischio, come detto, è quello di vederle dissipate in mille rivoli...
La partita, ad ogni modo, è ancora aperta anche se non c'è molto ottimismo sulla possibilità che il governo allarghi ulteriormente i cordoni della borsa..."
see u,
Giangiacomo
tutta la verità, niente altro che la verità, sul "tesoretto", vivendo la situazione e la strategia di utilizzo in prima persona...
"Nell'ultimo incontro a Palazzo Chigi, al quale ho partecipato, Padoa Schioppa ha dichiarato che 10mld € sono strutturali, ma 7,5 vanno per risanare il bilancio (così accontentano l'UE). Ne consegue che solo 2,5 potranno essere utilizzati per le riforme (per lo considerate necessarie, basilari e fondamentali anche se subito dopo impongono dei paletti). Questi 2,5mld potrebbero essere integrati da tagli alla spesa pubblica (accorpamento degli istituti previdenziali). Il governo ha individuato almeno 5 zone d'intervento, ma la cifra è assolutamente irrisoria per apportare modifiche significative a tutte quante!
Le teorie su come utilizzare queste risorse sono tante, il rischio, come detto, è quello di vederle dissipate in mille rivoli...
La partita, ad ogni modo, è ancora aperta anche se non c'è molto ottimismo sulla possibilità che il governo allarghi ulteriormente i cordoni della borsa..."
see u,
Giangiacomo
mercoledì 25 aprile 2007
Quanto ci costa la Cgil... il sindacato difende i furbastri
L'incredibile storia, purtroppo vera, raccontata nel libro di un piccolo imprenditore di Pavia. Così leggendo Volevo solo vendere la pizza, ci si imbatte in una realtà dove Cgil, ispettorati del lavoro e Inps ci fanno impazzire con lacci e lacciuoli. Una faccia del Paese che sarebbe daprendere a sberle
Guglielmo Epifani dovrebbe tenere a mente questo nome: Maria Esposito. La donna, in realtà, non esiste. La sua storia però, raccontata nel libro di Luigi Furini Volevo solo vendere la pizza con la sola accortezza di usare un nome inventato, è vera e documentata. E dimostra con chiarezza accecante come talvolta il sindacato, seguendo ottusamente gli schemini studiati a memoria (operaio buono /padrone cattivo), possa schierarsi dalla parte dei furbi in battaglie indecenti.
Siamo a Pavia. Furini e la moglie aprono una pizzeria al taglio, superano le forche caudine burocratiche e assumono un po' di persone tra cui una giovane napoletana, ribattezzata Maria Esposito. Per un annetto, tutto bene. Poi arriva il primo certificato medico di Maria: per un paio di settimane non può venire. A ruota, un altro: è incinta e ha una gravidanza a rischio. Figurarsi se più stare al forno a fare Margherite. Previsioni: sei mesi di malattia più i cinque per legge a cavallo del parto.
Neanche il tempo di recuperare un altro pizzaiolo e riappare "più vispa che mai". Ma non era una gestante a rischio?
"I dubbi crescono con il passare del tempo quando la vedo trafficare, proprio di fronte a me, con elettricisti e falegnami, idraulici e muratori". Cosa ha in mente?
"Sta per aprire una pizzeria sua, proprio di fronte alla mia". Si licenzia? Per niente! "Puntualissima, alla fine di ogni mese attraversa la strada e viene a ritirare la busta paga con dentro il mio assegno".
Furini va all'ispettorato del lavoro: "Una mia dipendente, in malattia da mesi, si è messa in proprio e lavora in un proprio locale". "Ci scriva qui nome, cognome e indirizzo. Però non garantiamo che andremo a controllare".
Va all'Inps: "Cosa gliene frega, tanto paghiamo noi".
Va all'Associazione Commercianti: "Licenziarla? Impossibile: una donna in gravidanza non si licenzia".
Esasperato, Furini prende una macchina fotografica, immortala la dipendente-concorrente dietro il bancone, fa certificare la data delle foto e spedisce alla donna un telegramma: lei è licenziata. Non l'avesse mai fatto...
Convocato dalla Cgil, viene invitato a chiuderla lì, con un indennizzo di duemila euro. Risponde negativamente.
Lo convocano alla commissione di conciliazione e butta sul tavolo le foto: "Le metta via subito o la denunciamo per violazione della privacy".
Sapete com'è finita? Il piccolo imprenditore preso per i fondelli ha potuto licenziare la casa MAria solo perchè, violando l'articolo 2105, faceva concorrenza con la sua pizzeria al datore di lavoro. Se avesse aperto una pasticceria sarebbe lì, ancora alle dipendenze di Luigi Furini. A fargli "marameo" dall'altra parte della strada.
Combattiamo amici...
non a fianco loro, come vorrebbero, ma contro un sindacato i cui delegati hanno fucili nascosti nel proprio cortile!
queste persone sono fuori dal mondo e vivono in qualche libro dell''800 di Karl Marx!!
see u,
Giangiacomo
Guglielmo Epifani dovrebbe tenere a mente questo nome: Maria Esposito. La donna, in realtà, non esiste. La sua storia però, raccontata nel libro di Luigi Furini Volevo solo vendere la pizza con la sola accortezza di usare un nome inventato, è vera e documentata. E dimostra con chiarezza accecante come talvolta il sindacato, seguendo ottusamente gli schemini studiati a memoria (operaio buono /padrone cattivo), possa schierarsi dalla parte dei furbi in battaglie indecenti.
Siamo a Pavia. Furini e la moglie aprono una pizzeria al taglio, superano le forche caudine burocratiche e assumono un po' di persone tra cui una giovane napoletana, ribattezzata Maria Esposito. Per un annetto, tutto bene. Poi arriva il primo certificato medico di Maria: per un paio di settimane non può venire. A ruota, un altro: è incinta e ha una gravidanza a rischio. Figurarsi se più stare al forno a fare Margherite. Previsioni: sei mesi di malattia più i cinque per legge a cavallo del parto.
Neanche il tempo di recuperare un altro pizzaiolo e riappare "più vispa che mai". Ma non era una gestante a rischio?
"I dubbi crescono con il passare del tempo quando la vedo trafficare, proprio di fronte a me, con elettricisti e falegnami, idraulici e muratori". Cosa ha in mente?
"Sta per aprire una pizzeria sua, proprio di fronte alla mia". Si licenzia? Per niente! "Puntualissima, alla fine di ogni mese attraversa la strada e viene a ritirare la busta paga con dentro il mio assegno".
Furini va all'ispettorato del lavoro: "Una mia dipendente, in malattia da mesi, si è messa in proprio e lavora in un proprio locale". "Ci scriva qui nome, cognome e indirizzo. Però non garantiamo che andremo a controllare".
Va all'Inps: "Cosa gliene frega, tanto paghiamo noi".
Va all'Associazione Commercianti: "Licenziarla? Impossibile: una donna in gravidanza non si licenzia".
Esasperato, Furini prende una macchina fotografica, immortala la dipendente-concorrente dietro il bancone, fa certificare la data delle foto e spedisce alla donna un telegramma: lei è licenziata. Non l'avesse mai fatto...
Convocato dalla Cgil, viene invitato a chiuderla lì, con un indennizzo di duemila euro. Risponde negativamente.
Lo convocano alla commissione di conciliazione e butta sul tavolo le foto: "Le metta via subito o la denunciamo per violazione della privacy".
Sapete com'è finita? Il piccolo imprenditore preso per i fondelli ha potuto licenziare la casa MAria solo perchè, violando l'articolo 2105, faceva concorrenza con la sua pizzeria al datore di lavoro. Se avesse aperto una pasticceria sarebbe lì, ancora alle dipendenze di Luigi Furini. A fargli "marameo" dall'altra parte della strada.
Combattiamo amici...
non a fianco loro, come vorrebbero, ma contro un sindacato i cui delegati hanno fucili nascosti nel proprio cortile!
queste persone sono fuori dal mondo e vivono in qualche libro dell''800 di Karl Marx!!
see u,
Giangiacomo
25 aprile? distorsioni e interpretazioni
Oggi, 25 Aprile 2007, si celebra l'anniversario della liberazione dell'Italia dal regime nazifascista.
Quante volte oggi tra carta stampata, giornalisti, tv e radio ho sentito ripetere il banale saluto "Buona Liberazione".
C'è un'ipocrisia di fondo in questa affermazione!
Bisogna ricordare a tutti coloro che prendono il 25 Aprile come la propria festa, usando nuovamente ideologicamente la propria ideologia, che ESISTEVANO FAZIONI DI PARTIGIANI E RESISTENTI DI CENTRO E DI DESTRA (sì, di destra!).
smettiamola con partigiano = uomo che è contro Berlusconi, la destra, ecc
smettiamola!!
e così smettiamola con questo falso buonismo: voto a sinistra perchè la sinistra nasce dalla lotta partigiana della seconda guerra mondiale!
è una motivazione infondata e bugiarda!! andate a leggere uno dei miei vecchi post su Scalfaro gli ultimi mesi della liberazione del nostro Paese!!
W la libertà!
Liberiamoci dai menzogneri, dai falsi, dai partigiani vecchi decrepiti che travisano e interpretano la storia così come il loro alzheimer gliela suggerisce, dagli ideologici comunisti!!
see u,
Giangiacomo
Quante volte oggi tra carta stampata, giornalisti, tv e radio ho sentito ripetere il banale saluto "Buona Liberazione".
C'è un'ipocrisia di fondo in questa affermazione!
Bisogna ricordare a tutti coloro che prendono il 25 Aprile come la propria festa, usando nuovamente ideologicamente la propria ideologia, che ESISTEVANO FAZIONI DI PARTIGIANI E RESISTENTI DI CENTRO E DI DESTRA (sì, di destra!).
smettiamola con partigiano = uomo che è contro Berlusconi, la destra, ecc
smettiamola!!
e così smettiamola con questo falso buonismo: voto a sinistra perchè la sinistra nasce dalla lotta partigiana della seconda guerra mondiale!
è una motivazione infondata e bugiarda!! andate a leggere uno dei miei vecchi post su Scalfaro gli ultimi mesi della liberazione del nostro Paese!!
W la libertà!
Liberiamoci dai menzogneri, dai falsi, dai partigiani vecchi decrepiti che travisano e interpretano la storia così come il loro alzheimer gliela suggerisce, dagli ideologici comunisti!!
see u,
Giangiacomo
“Una tragedia senza senso”
Volantino degli Universitari di Comunione e Liberazione sulla strage nel campus USA della scorsa settimana
Quello che è successo nel campus di Virginia Tech, a Blacksburg negli USA, non può non colpire anche noi. Non sappiamo se Cho Seung Hui fosse psicopatico. Sappiamo che era arrabbiato, deluso della vita.
Ma come può un ragazzo di ventitre anni – come noi pieno di aspettative – percepire la realtà in modo così negativo, da prendere una pistola e uccidere trentadue suoi compagni?
È innegabile che tra noi studenti esista un disagio, una insoddisfazione: tentiamo di perseguire i nostri desideri più veri (di un senso del vivere, di un amore gratuito, di amicizia, di giustizia…), ma ciò che vogliamo è sempre sproporzionato rispetto a quello che possiamo fare o immaginare.
Di fronte a questo, spesso si sceglie di lasciar perdere e ci si inizia a rassegnare a qualcosa che è meno di quello che desideriamo realmente: il successo, il campus migliore, una certa immagine di sé, quello cioè che la società di oggi ci indica come il massimo.
Quando si scopre l’inadeguatezza di questi falsi ideali, si è delusi e svuotati. Sparare a chi ti sta intorno, ai tuoi compagni, è come affermare che questo disagio è l’ultima parola sulla nostra vita, un ostacolo impossibile da superare.
Anche noi, pur sperimentando tutti i giorni lo stesso dramma, non vogliamo rinunciare alla sete di soddisfazione che ci costituisce, non vogliamo mettere a tacere il grido del nostro cuore.
Abbiamo incontrato qualcuno che condivide questo dramma con noi e che offre una ipotesi di risposta alla domanda che ci urge; una risposta capace di abbracciare l’esistenza intera, senza lasciar fuori niente. Ci sono persone in università che studiano, ridono, piangono, amano come noi, ma certe di un senso, di una Presenza che unisce la vita. Sono segno di una speranza per tutti, inizio di una risposta anche alla “tragedia senza senso” – come l’ha definita Benedetto XVI – di Blacksburg.
Comunione e Liberazione Universitari
Milano, 19.04.07
see u,
Giangiacomo
Quello che è successo nel campus di Virginia Tech, a Blacksburg negli USA, non può non colpire anche noi. Non sappiamo se Cho Seung Hui fosse psicopatico. Sappiamo che era arrabbiato, deluso della vita.
Ma come può un ragazzo di ventitre anni – come noi pieno di aspettative – percepire la realtà in modo così negativo, da prendere una pistola e uccidere trentadue suoi compagni?
È innegabile che tra noi studenti esista un disagio, una insoddisfazione: tentiamo di perseguire i nostri desideri più veri (di un senso del vivere, di un amore gratuito, di amicizia, di giustizia…), ma ciò che vogliamo è sempre sproporzionato rispetto a quello che possiamo fare o immaginare.
Di fronte a questo, spesso si sceglie di lasciar perdere e ci si inizia a rassegnare a qualcosa che è meno di quello che desideriamo realmente: il successo, il campus migliore, una certa immagine di sé, quello cioè che la società di oggi ci indica come il massimo.
Quando si scopre l’inadeguatezza di questi falsi ideali, si è delusi e svuotati. Sparare a chi ti sta intorno, ai tuoi compagni, è come affermare che questo disagio è l’ultima parola sulla nostra vita, un ostacolo impossibile da superare.
Anche noi, pur sperimentando tutti i giorni lo stesso dramma, non vogliamo rinunciare alla sete di soddisfazione che ci costituisce, non vogliamo mettere a tacere il grido del nostro cuore.
Abbiamo incontrato qualcuno che condivide questo dramma con noi e che offre una ipotesi di risposta alla domanda che ci urge; una risposta capace di abbracciare l’esistenza intera, senza lasciar fuori niente. Ci sono persone in università che studiano, ridono, piangono, amano come noi, ma certe di un senso, di una Presenza che unisce la vita. Sono segno di una speranza per tutti, inizio di una risposta anche alla “tragedia senza senso” – come l’ha definita Benedetto XVI – di Blacksburg.
Comunione e Liberazione Universitari
Milano, 19.04.07
see u,
Giangiacomo
Petizione popolare - UnParlamentodiCittadini.net
E' partita una petizione popolare che raccoglie firme per la nuova legge elettorale: si tratta di una sottoscrizione per chiedere che venga ridata la possibilità agli elettori di indicare una preferenza al momento del voto.
Il link del sito della campagna dove puoi trovare il testo della petizione e dove può sottoscriverla è www.unparlamentodicittadini.net
mi sembra un'iniziativa molto interessante a cui aderisco con piacere
se anche tu/voi lo segnalaste...
Petizione Popolare
UN PARLAMENTO DI CITTADINI
liberi di partecipare, liberi di preferire
Non c’è nessun male che i partiti occupino il potere e se ne occupino.
Il problema è per chi e per che cosa lo ricercano e lo esercitano: se cioè la società è una realtà da manipolare per uno strapotere o non piuttosto qualcosa da servire per un bene comune.
Per questo la crisi di rappresentanza dei partiti ci preoccupa.
Non solo per le difficoltà di comprensione del loro linguaggio e delle loro proposte, ma anche e soprattutto per il loro progressivo allontanamento dai cittadini, dalla società e dall’economia.
L’attuale dibattito sulla riforma della legge elettorale, poi, rischia di segnare una ulteriore distanza: si parla dei candidati, che le segreterie dei partiti vorrebbero “imporre” attraverso liste bloccate, ma non del fatto che i cittadini possano, da una parte, candidarsi e, dall’altra, scegliere direttamente le persone che li rappresenteranno in Parlamento attraverso l’espressione di una preferenza.
Nemmeno i promotori del referendum lo stanno chiedendo.
Noi non viviamo di politica, ma la politica ci interessa; e le elezioni sono il momento supremo della partecipazione democratica di un Paese.
Per questo, pur non esprimendo indicazioni sul sistema che si disegnerà, ci interessa:
- in un assetto di sistema proporzionale, potere scegliere e votare liberamente i candidati, all’interno dei partiti e degli schieramenti;
- in un sistema uninominale, dare la possibilità a chiunque lo voglia di candidarsi raccogliendo firme a livello di singolo collegio.
Vogliamo assumerci la responsabilità della “res publica”, anche nel momento del voto. Vogliamo una classe politica che sia espressione del popolo, prima che delle segreterie di partito. Vogliamo vivere in una democrazia reale, in cui il popolo sceglie i suoi rappresentanti.
NOI CHIEDIAMO
CHE NEL NUOVO SISTEMA ELETTORALE:
SE PROPORZIONALE,
VENGA REINTRODOTTA LA PREFERENZA
SE UNINOMINALE,
VENGA DATA LA POSSIBILITA’ DI CANDIDARSI
IN UN SINGOLO COLLEGIO RACCOGLIENDO 500 FIRME.
PER IL BENE DEL PAESE, PER IL BENE DELLA POLITICA STESSA!
Primi firmatari
Francesco Cossiga [Presidente Emerito della Repubblica]
ALberoni Francesco [Sociologo]
Alberoni Rosa [Scrittrice]
Allam Magdi [Vice Direttore Corriere della Sera]
Amicone Luigi [Direttore Tempi]
Andreotti Giulio [Senatore a vita]
Antonini Luca [Professore ordinario di diritto costituzionale Università degli studi di Padova]
Bechis Franco [Direttore Italia oggi]
Belpietro Maurizio [Direttore Il giornale]
Bernasconi Pierluigi [Amministratore delegato Media Market]
Bertolissi Mario [Professore ordinario di diritto costituzionale Università degli studi di Padova]
Bracalente Enrico [Amministratore Unico Nero Giardini]
Cervetti Giovanni
Colombo Maria Grazia [Presidente nazionale AGeSC]
Corti Eugenio [Scrittore]
De Maio Adriano [Presidente IReR]
Donati Pierpaolo [Professore Ordinario di sociologia dei processi culturali UNIVERSITA' DI BOLOGNA]
Doninelli Luca [Scrittore]
Dotti Johnny [Presidente CONSORZIO CGM]
Formica Rino [Presidente MOVIMENTO SOCIALISMO E' LIBERTA']
Formigoni Roberto [Presidente Regione Lombardi]
Franchi Paolo [Direttore Il Riformista]
Fumagalli Cesare [Segretario Generale CONFARTIGIANATO]
Gian Ferrari Claudia [Storica dell'arte]
Giannino Oscar [Direttore LIBERO MERCATO]
Intiglietta Antonio [PresidenteGE.FI]
Inzoli Mauro [Presidente BANCO ALIMENTARE]
Liguori Paolo [Direttore TGCOM e MEDIAVIDEO]
Loi Franco [Scrittore]
Lombardi Giorgio [Professore Ordinario di Diritto Costituzionale
UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO]
Macaluso Emanuele [Direttore Le nuove ragioni del socialismo]
Massobrio Paolo [Presidente Club Papillon]
Mauro Mario Vice [Presidente PARLAMENTO EUROPEO]
Mazzotta Roberto [Presidente Banca Popolare di Milano]
Mazzucca Giancarlo [Direttore QN - Resto del Carlino]
Morpurgo Claudio [Avvocato]
Muccioli Andrea [Responsabile COMUNITA' SAN PATRIGNANO]
Novari Vincenzo [Amministratore Delegato H3G]
Ornaghi Lorenzo [Rettore Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ]
Pedullà Gaetano [Direttore Il Tempo]
Petrini Carlo [Presidente Fondatore SLOW FOOD INTERNAZIONALE]
Pezzotta Savino]Pillitteri Paolo]Pontiggia Elena [Storica dell'arte]
Romano Antonio [Presidente Inarea]
Rondoni Davide [Poeta]
Sapelli Giulio [Economista]
Scaglia Silvio
Sgarbi Vittorio [Critico d'arte]
Squinzi Giorgio [Amministratore Unico MAPEI]
Stefanini Pierluigi [Presidente UNIPOL]
Tarantini Graziano [Presidente BANCA AKROS]
Tognoli Carlo
Versace Santo [Presidente GIANNI VERSACE]
Vignali Raffaello [Presidente COMPAGNIA DELLE OPERE]
Violini Lorenza [Professore Ordinario di Diritto Costituzionale UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI MILANO]
Vittadini Giorgio [Presidente FONDAZIONE PER LA SUSSIDIARIETA']
Zamagni Stefano [Professore Ordinario di Economia politica UNIVERSITA' DI BOLOGNA]
Zappacosta Pierluigi [Cofondatore LOGITECH]
Zecchi Stefano [Professore Ordinario di Estetica UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI MILANO]
see u,
Giangiacomo
Il link del sito della campagna dove puoi trovare il testo della petizione e dove può sottoscriverla è www.unparlamentodicittadini.net
mi sembra un'iniziativa molto interessante a cui aderisco con piacere
se anche tu/voi lo segnalaste...
Petizione Popolare
UN PARLAMENTO DI CITTADINI
liberi di partecipare, liberi di preferire
Non c’è nessun male che i partiti occupino il potere e se ne occupino.
Il problema è per chi e per che cosa lo ricercano e lo esercitano: se cioè la società è una realtà da manipolare per uno strapotere o non piuttosto qualcosa da servire per un bene comune.
Per questo la crisi di rappresentanza dei partiti ci preoccupa.
Non solo per le difficoltà di comprensione del loro linguaggio e delle loro proposte, ma anche e soprattutto per il loro progressivo allontanamento dai cittadini, dalla società e dall’economia.
L’attuale dibattito sulla riforma della legge elettorale, poi, rischia di segnare una ulteriore distanza: si parla dei candidati, che le segreterie dei partiti vorrebbero “imporre” attraverso liste bloccate, ma non del fatto che i cittadini possano, da una parte, candidarsi e, dall’altra, scegliere direttamente le persone che li rappresenteranno in Parlamento attraverso l’espressione di una preferenza.
Nemmeno i promotori del referendum lo stanno chiedendo.
Noi non viviamo di politica, ma la politica ci interessa; e le elezioni sono il momento supremo della partecipazione democratica di un Paese.
Per questo, pur non esprimendo indicazioni sul sistema che si disegnerà, ci interessa:
- in un assetto di sistema proporzionale, potere scegliere e votare liberamente i candidati, all’interno dei partiti e degli schieramenti;
- in un sistema uninominale, dare la possibilità a chiunque lo voglia di candidarsi raccogliendo firme a livello di singolo collegio.
Vogliamo assumerci la responsabilità della “res publica”, anche nel momento del voto. Vogliamo una classe politica che sia espressione del popolo, prima che delle segreterie di partito. Vogliamo vivere in una democrazia reale, in cui il popolo sceglie i suoi rappresentanti.
NOI CHIEDIAMO
CHE NEL NUOVO SISTEMA ELETTORALE:
SE PROPORZIONALE,
VENGA REINTRODOTTA LA PREFERENZA
SE UNINOMINALE,
VENGA DATA LA POSSIBILITA’ DI CANDIDARSI
IN UN SINGOLO COLLEGIO RACCOGLIENDO 500 FIRME.
PER IL BENE DEL PAESE, PER IL BENE DELLA POLITICA STESSA!
Primi firmatari
Francesco Cossiga [Presidente Emerito della Repubblica]
ALberoni Francesco [Sociologo]
Alberoni Rosa [Scrittrice]
Allam Magdi [Vice Direttore Corriere della Sera]
Amicone Luigi [Direttore Tempi]
Andreotti Giulio [Senatore a vita]
Antonini Luca [Professore ordinario di diritto costituzionale Università degli studi di Padova]
Bechis Franco [Direttore Italia oggi]
Belpietro Maurizio [Direttore Il giornale]
Bernasconi Pierluigi [Amministratore delegato Media Market]
Bertolissi Mario [Professore ordinario di diritto costituzionale Università degli studi di Padova]
Bracalente Enrico [Amministratore Unico Nero Giardini]
Cervetti Giovanni
Colombo Maria Grazia [Presidente nazionale AGeSC]
Corti Eugenio [Scrittore]
De Maio Adriano [Presidente IReR]
Donati Pierpaolo [Professore Ordinario di sociologia dei processi culturali UNIVERSITA' DI BOLOGNA]
Doninelli Luca [Scrittore]
Dotti Johnny [Presidente CONSORZIO CGM]
Formica Rino [Presidente MOVIMENTO SOCIALISMO E' LIBERTA']
Formigoni Roberto [Presidente Regione Lombardi]
Franchi Paolo [Direttore Il Riformista]
Fumagalli Cesare [Segretario Generale CONFARTIGIANATO]
Gian Ferrari Claudia [Storica dell'arte]
Giannino Oscar [Direttore LIBERO MERCATO]
Intiglietta Antonio [PresidenteGE.FI]
Inzoli Mauro [Presidente BANCO ALIMENTARE]
Liguori Paolo [Direttore TGCOM e MEDIAVIDEO]
Loi Franco [Scrittore]
Lombardi Giorgio [Professore Ordinario di Diritto Costituzionale
UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO]
Macaluso Emanuele [Direttore Le nuove ragioni del socialismo]
Massobrio Paolo [Presidente Club Papillon]
Mauro Mario Vice [Presidente PARLAMENTO EUROPEO]
Mazzotta Roberto [Presidente Banca Popolare di Milano]
Mazzucca Giancarlo [Direttore QN - Resto del Carlino]
Morpurgo Claudio [Avvocato]
Muccioli Andrea [Responsabile COMUNITA' SAN PATRIGNANO]
Novari Vincenzo [Amministratore Delegato H3G]
Ornaghi Lorenzo [Rettore Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ]
Pedullà Gaetano [Direttore Il Tempo]
Petrini Carlo [Presidente Fondatore SLOW FOOD INTERNAZIONALE]
Pezzotta Savino]Pillitteri Paolo]Pontiggia Elena [Storica dell'arte]
Romano Antonio [Presidente Inarea]
Rondoni Davide [Poeta]
Sapelli Giulio [Economista]
Scaglia Silvio
Sgarbi Vittorio [Critico d'arte]
Squinzi Giorgio [Amministratore Unico MAPEI]
Stefanini Pierluigi [Presidente UNIPOL]
Tarantini Graziano [Presidente BANCA AKROS]
Tognoli Carlo
Versace Santo [Presidente GIANNI VERSACE]
Vignali Raffaello [Presidente COMPAGNIA DELLE OPERE]
Violini Lorenza [Professore Ordinario di Diritto Costituzionale UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI MILANO]
Vittadini Giorgio [Presidente FONDAZIONE PER LA SUSSIDIARIETA']
Zamagni Stefano [Professore Ordinario di Economia politica UNIVERSITA' DI BOLOGNA]
Zappacosta Pierluigi [Cofondatore LOGITECH]
Zecchi Stefano [Professore Ordinario di Estetica UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI MILANO]
see u,
Giangiacomo
domenica 22 aprile 2007
Credibilità Italia? Zero assoluto!!
Quante figuracce dello Stato italiano agli occhi del mondo in questi giorni...
dall'affaire Telecom alla sconfitta nell'assegnazione dei prossimi Europei come Paese organizzatore. presto forse anche Alitalia?
Mi spaventa e mi ha spaventato leggere negli ultimi giorni le notizie battute dall'Ansa e pubblicate dai giornali... Ministri che sostenevano e affermavano la propria opinione e giudizio riguardo alle manovre per l'acquisizione di Telecom... ma siamo matti?
sostengono oggi (a Firenze e Roma), fondando il partito democratico (la balena rossa?), che il comunismo sia morto! stupidaggini: il comunismo sostenevano che lo Stato entrasse nelle decisioni economiche, che le aziende fossero tutte statali e così dalla Margherita ai Ds, appena vedono allontanarsi posti/poltrone/potere/influenza, si arroccano su posizione da Medioevo e marxiste!
Il liberismo economico che caratterizza il sistema americano non è assoluto: in alcune aree il possesso di aziende è sottoposto a vincoli anche più stretti di quelli in vigore in Italia (il magnate Rupert Murdoch si è dovuto fare cittadino americano per poter costruire un impero mediatico negli Usa).
La vicenda AT&T-Telecom, con la repentina decisione del gigante Usa di ritirare l'offerta per il controllo della società italiana, danneggia la credibilità del Paese come possibili partner industriale e finanziario non perchè è stato rivendicato il ruolo strategico di un settore o di un'impresa, ma perchè, ancora una volta, tutto ciò è avvenuto non al momento di fissare regole "uguali per tutti", ma solo dopo l'offerta lanciata da americani e messicani.
Come al solito la politica italiana scopre l'interesse nazionale - una protezione che, con modalità e livelli di intensità diversi, c'è in ogni Paese - quando è troppo tardi. E si considera in diritto di rimettere indietro le lancette dell'orologio. E' un grosso errore. Nel merito perchè, intervenendo a posteriori si finisce sempre per creare un'interferenza politica nelle dinamiche di mercato: oggi tra gli analisti Usa si parla di ritorno al vecchio dirigismo italiano e anche di uno sgradevole aroma di antiamericanismo diffuso da questa vicenda. Ma l'errore è anche nel metodo perchè, osservato dall'esterno, lo spettacolo di esponenti politici che si azzuffano quotidianamente e di ministri che dichiarano a getto continuo pro e contro l'affare, è francamente desolante.
Probabilmente l'offerta dell'AT&T non sarebbe andata comunque a buon fine, ma chi oggi gioisce per il "salvataggio della Patria telefonica", dovrebbe riflettere su un dato: AT&T non stava cercando subdolamente il colpo gobbo. E' solo la più gande società di telecomunicazioni del mondo (vale 242 miliardi di dollari) che, volendo crescere anche all'estero, aveva individuato la possibilità di acquisire un importante asset europeo con un investimento abbastanza limitato, 2 miliardi di euro). Davanti alla levata di scudi, ha deciso di rivolgere altrove il suo interesse.
A noi rimane la proprietà nazionale di Telecom (che fortuna! n.d.r.) e l'immagine di un Paese nel quale è difficile investire. Incertezza delle regole, scarsa trasparenza, problemi di corruzione e illegalità dilagante il hanno anche altri Paese, In genere sono quelli emergenti, come la Cina che riescono comunque ad attirare investimenti: le imprese rischiano perchè lì il costo del lavoro è bassissimo e i mercati locali stanno crescendo molto rapidamente. L'Italia dovrebbe far parte di un altro mondo: quelo delle democrazie industriali avanzate, che non crescono come l'Asia, ma hanno l'appeal della tecnologia, della stabilità e della credibilità.
E invece... grazie ad un premier che annoia tutti ed è il burattino di coloro che hanno in mano i suoi fili...
Come per la vicenda Telecom sin qui descritta, anche l'occasione persa di essere un Paese che non vivesse di rendita per la vittoria del Mondiale e che organizzasse gli Europei 2012, è dovuta ad uno Stato che non applica le leggi in vigore (vedi il ghetto cinese formato a Milano, vedi la violenza negli stadi e l'esecuzione morbida delle normative in essere) e che è rappresentanto all'estero da un Ministro molto carino, ma veramente inadeguato e ignorante (la Melandri era comunque contenta che la vittorio fosse andata a 2 nuovi Paesi dell'UE... Polonia e Ucraina non lo sono)!
dove andremo?
ci saranno altri co...ni che voteranno sinistra al prossimo turno???
see u,
Giangiacomo
dall'affaire Telecom alla sconfitta nell'assegnazione dei prossimi Europei come Paese organizzatore. presto forse anche Alitalia?
Mi spaventa e mi ha spaventato leggere negli ultimi giorni le notizie battute dall'Ansa e pubblicate dai giornali... Ministri che sostenevano e affermavano la propria opinione e giudizio riguardo alle manovre per l'acquisizione di Telecom... ma siamo matti?
sostengono oggi (a Firenze e Roma), fondando il partito democratico (la balena rossa?), che il comunismo sia morto! stupidaggini: il comunismo sostenevano che lo Stato entrasse nelle decisioni economiche, che le aziende fossero tutte statali e così dalla Margherita ai Ds, appena vedono allontanarsi posti/poltrone/potere/influenza, si arroccano su posizione da Medioevo e marxiste!
Il liberismo economico che caratterizza il sistema americano non è assoluto: in alcune aree il possesso di aziende è sottoposto a vincoli anche più stretti di quelli in vigore in Italia (il magnate Rupert Murdoch si è dovuto fare cittadino americano per poter costruire un impero mediatico negli Usa).
La vicenda AT&T-Telecom, con la repentina decisione del gigante Usa di ritirare l'offerta per il controllo della società italiana, danneggia la credibilità del Paese come possibili partner industriale e finanziario non perchè è stato rivendicato il ruolo strategico di un settore o di un'impresa, ma perchè, ancora una volta, tutto ciò è avvenuto non al momento di fissare regole "uguali per tutti", ma solo dopo l'offerta lanciata da americani e messicani.
Come al solito la politica italiana scopre l'interesse nazionale - una protezione che, con modalità e livelli di intensità diversi, c'è in ogni Paese - quando è troppo tardi. E si considera in diritto di rimettere indietro le lancette dell'orologio. E' un grosso errore. Nel merito perchè, intervenendo a posteriori si finisce sempre per creare un'interferenza politica nelle dinamiche di mercato: oggi tra gli analisti Usa si parla di ritorno al vecchio dirigismo italiano e anche di uno sgradevole aroma di antiamericanismo diffuso da questa vicenda. Ma l'errore è anche nel metodo perchè, osservato dall'esterno, lo spettacolo di esponenti politici che si azzuffano quotidianamente e di ministri che dichiarano a getto continuo pro e contro l'affare, è francamente desolante.
Probabilmente l'offerta dell'AT&T non sarebbe andata comunque a buon fine, ma chi oggi gioisce per il "salvataggio della Patria telefonica", dovrebbe riflettere su un dato: AT&T non stava cercando subdolamente il colpo gobbo. E' solo la più gande società di telecomunicazioni del mondo (vale 242 miliardi di dollari) che, volendo crescere anche all'estero, aveva individuato la possibilità di acquisire un importante asset europeo con un investimento abbastanza limitato, 2 miliardi di euro). Davanti alla levata di scudi, ha deciso di rivolgere altrove il suo interesse.
A noi rimane la proprietà nazionale di Telecom (che fortuna! n.d.r.) e l'immagine di un Paese nel quale è difficile investire. Incertezza delle regole, scarsa trasparenza, problemi di corruzione e illegalità dilagante il hanno anche altri Paese, In genere sono quelli emergenti, come la Cina che riescono comunque ad attirare investimenti: le imprese rischiano perchè lì il costo del lavoro è bassissimo e i mercati locali stanno crescendo molto rapidamente. L'Italia dovrebbe far parte di un altro mondo: quelo delle democrazie industriali avanzate, che non crescono come l'Asia, ma hanno l'appeal della tecnologia, della stabilità e della credibilità.
E invece... grazie ad un premier che annoia tutti ed è il burattino di coloro che hanno in mano i suoi fili...
Come per la vicenda Telecom sin qui descritta, anche l'occasione persa di essere un Paese che non vivesse di rendita per la vittoria del Mondiale e che organizzasse gli Europei 2012, è dovuta ad uno Stato che non applica le leggi in vigore (vedi il ghetto cinese formato a Milano, vedi la violenza negli stadi e l'esecuzione morbida delle normative in essere) e che è rappresentanto all'estero da un Ministro molto carino, ma veramente inadeguato e ignorante (la Melandri era comunque contenta che la vittorio fosse andata a 2 nuovi Paesi dell'UE... Polonia e Ucraina non lo sono)!
dove andremo?
ci saranno altri co...ni che voteranno sinistra al prossimo turno???
see u,
Giangiacomo
Natalità troppo bassa? Importiamo immigrati
StoriaLibera.it - Premio Ideologia
vorrei farVi apprezzare e prendere parte al "Premio Ideologia 2007", promosso da StoriaLibera.it
http://www.storialibera.it/premio_ideologia.html
see u,
Giangiacomo
http://www.storialibera.it/premio_ideologia.html
see u,
Giangiacomo
Turchia: cristiani sgozzati e torturati
L'orrore e lo sdegno hanno toccato l'acme oggi in Turchia, come nel mondo, dopo che si è appreso come i tre cristiani uccisi mercoledì a Malatya siano stati torturati per tre ore e orrendamente straziati, anche nelle parti più intime, con centinaia di coltellate prima di essere sgozzati.
Le reazioni internazionali e interne sono state tali, che molti commentatori hanno interpretato come legata alla necessità di allentare le tensioni la dichiarazione del premier turco Tayyip Erdogan, il quale ha dichiarato oggi che per la presidenza della repubblica "sta preparando una decisione straordinaria a sorpresa", lasciando intendere che rinuncerà a una autocandidatura o a una candidatura di un altro dirigente del partito al potere Akp, causa di molte tensioni in Turchia.
L'intento distensivo del premier turco ha trovato subito un riscontro sui mercati finanziari, che hanno fatto registrare un nuovo record in Borsa confermando la loro propensione per un passo indietro del premier e del suo partito.
La polizia turca - sotto accusa, sia per essere arrivata sul posto con circa tre ore di ritardo che per avere trascurato le minacce precedenti del gruppo di assassini islamo-nazionalisti contro i 'missionari infedeli' - ha fermato (questa volta a Istanbul) una 11/ma persona nel quadro delle indagini e ha annunciato che altre sei persone vengono attivamente ricercate.
L'opinione pubblica turca è sconvolta per i danni all'immagine del Paese e della religione musulmana che l'eccidio ha diffuso nel mondo. "Lo abbiamo fatto per salvare la nostra religione e la nostra patria" - hanno detto i 5 giovani assassini. Ma il Gran Muftì di Turchia Ali Bardakoglu, li ha sconfessati: "L'omicidio non si può giustificare con alcun valore sacro. Un omicidio così aberrante è un peccato gravissimo. E' un tradimento dell' Islam" - ha dichiarato Bardakoglu.
"Dire che si uccide perché la religione e la patrià si stanno perdendo ha un effetto velenoso sulla coscienza dei giovanì - gli ha fatto eco Erdogan.
Ma i due massimi rappresentanti delle chiese protestanti in Turchia, i pastori turchi, Bedri Peker e Ihsan Ozbek hanno denunciato con forza che in Turchia è in corso una "caccia medioevale alle streghe" contro i missionari cristiani accusati troppo spesso di voler "distruggere la religione musulmana e dividere la nazione turca" e di cui spesso sono protagonisti anche i mass media, i partiti e le stesse istituzioni turche. "La Turchia è immersa nel buio del Medioevo" hanno concluso ricordando, tra l'altro, l'omicidio del prete italiano, don Andrea Santoro e quello del giornalista turco armeno Hrant Dink.
Anche il giornale Radikal ha scritto oggi che, benché in Turchia ci siano un totale di soli 50 missionari cristiani e i convertiti non superino i 10.000, molti considerano le loro attività alla stregua di un reato di tradimento. Secondo il giornale, anche il Consiglio di sicurezza nazionale dove siedono le massime autorità civili e militari "considera i missionari come una minaccia". Persino l'attuale ministro per gli affari religiosi, Mehmet Aydin, dichiarò tempo fa in Parlamento che "i missionari dividono la nazione turca"."
Vi sono due turchie divise da una diversa mentalità. Da una parte c'é la Turchia moderna e civile, ma minoritaria. Dall'altro c'é una Turchia tribale, che sembra molto dura a modernizzarsi e che normalmente resta nascosta ai media. Quando essa esce allo scoperto con la sua brutalità crea sdegno e orrore anche tra i turchi moderni" - ha affermato un commentatore turco.
see u,
Giangiacomo
Le reazioni internazionali e interne sono state tali, che molti commentatori hanno interpretato come legata alla necessità di allentare le tensioni la dichiarazione del premier turco Tayyip Erdogan, il quale ha dichiarato oggi che per la presidenza della repubblica "sta preparando una decisione straordinaria a sorpresa", lasciando intendere che rinuncerà a una autocandidatura o a una candidatura di un altro dirigente del partito al potere Akp, causa di molte tensioni in Turchia.
L'intento distensivo del premier turco ha trovato subito un riscontro sui mercati finanziari, che hanno fatto registrare un nuovo record in Borsa confermando la loro propensione per un passo indietro del premier e del suo partito.
La polizia turca - sotto accusa, sia per essere arrivata sul posto con circa tre ore di ritardo che per avere trascurato le minacce precedenti del gruppo di assassini islamo-nazionalisti contro i 'missionari infedeli' - ha fermato (questa volta a Istanbul) una 11/ma persona nel quadro delle indagini e ha annunciato che altre sei persone vengono attivamente ricercate.
L'opinione pubblica turca è sconvolta per i danni all'immagine del Paese e della religione musulmana che l'eccidio ha diffuso nel mondo. "Lo abbiamo fatto per salvare la nostra religione e la nostra patria" - hanno detto i 5 giovani assassini. Ma il Gran Muftì di Turchia Ali Bardakoglu, li ha sconfessati: "L'omicidio non si può giustificare con alcun valore sacro. Un omicidio così aberrante è un peccato gravissimo. E' un tradimento dell' Islam" - ha dichiarato Bardakoglu.
"Dire che si uccide perché la religione e la patrià si stanno perdendo ha un effetto velenoso sulla coscienza dei giovanì - gli ha fatto eco Erdogan.
Ma i due massimi rappresentanti delle chiese protestanti in Turchia, i pastori turchi, Bedri Peker e Ihsan Ozbek hanno denunciato con forza che in Turchia è in corso una "caccia medioevale alle streghe" contro i missionari cristiani accusati troppo spesso di voler "distruggere la religione musulmana e dividere la nazione turca" e di cui spesso sono protagonisti anche i mass media, i partiti e le stesse istituzioni turche. "La Turchia è immersa nel buio del Medioevo" hanno concluso ricordando, tra l'altro, l'omicidio del prete italiano, don Andrea Santoro e quello del giornalista turco armeno Hrant Dink.
Anche il giornale Radikal ha scritto oggi che, benché in Turchia ci siano un totale di soli 50 missionari cristiani e i convertiti non superino i 10.000, molti considerano le loro attività alla stregua di un reato di tradimento. Secondo il giornale, anche il Consiglio di sicurezza nazionale dove siedono le massime autorità civili e militari "considera i missionari come una minaccia". Persino l'attuale ministro per gli affari religiosi, Mehmet Aydin, dichiarò tempo fa in Parlamento che "i missionari dividono la nazione turca"."
Vi sono due turchie divise da una diversa mentalità. Da una parte c'é la Turchia moderna e civile, ma minoritaria. Dall'altro c'é una Turchia tribale, che sembra molto dura a modernizzarsi e che normalmente resta nascosta ai media. Quando essa esce allo scoperto con la sua brutalità crea sdegno e orrore anche tra i turchi moderni" - ha affermato un commentatore turco.
see u,
Giangiacomo
mercoledì 18 aprile 2007
Credibilità Italia? un disastro!
come si può credere all'Italia, come Paese in cui operare, investire, tessere relazioni economiche?
ogni giorno di più una disfatta. una figuraccia agli occhi degli italiani increduli, ma sopratutto agli occhi degli stranieri.
detto ciò, voi commentate.
io scriverò presto...
see u,
Giangiacomo
ogni giorno di più una disfatta. una figuraccia agli occhi degli italiani increduli, ma sopratutto agli occhi degli stranieri.
detto ciò, voi commentate.
io scriverò presto...
see u,
Giangiacomo
martedì 17 aprile 2007
La guerra degli ayatollah deciderà il futuro dell'Iraq
Il ritiro dal governo iracheno dei sei ministri leali all’ayatollah - o più esattamente hojatalislam («prova dell’islam», un grado al di sotto di un ayatollah nella gerarchia sciita) - Moqtada al-Sadr non segna la fine, ma l’inizio di una partita decisiva per il controllo degli sciiti iracheni. La partita non è soltanto fra due ayatollah - il giovane e radicale Moqtada al-Sadr e il vecchio e più moderato Ali Sistani - ma è fra le autorità sciite irachene e l’Iran.
Il centro storico e teologico del mondo sciita è sempre stato in Irak, non in Iran. Saddam Hussein, però, ha perseguitato gli sciiti impedendo ai grandi ayatollah di Najaf di parlare in pubblico, di pubblicare libri e di viaggiare all’estero. Uno dei risultati positivi dell’intervento americano del 2003 e della fine del regime di Saddam è consistito nel rimettere le cose a posto nel mondo sciita. Le istituzioni sciite che hanno il loro centro nella città santa di Najaf hanno ripreso a funzionare a ritmo normale. A poco a poco - anche grazie all’appoggio dei ricchi sciiti dell’Azerbaijan - il grande ayatollah Ali Sistani è riuscito a riprendersi il posto che, di diritto, era sempre stato suo, ma che non poteva occupare finché in Irak c’era Saddam, così che era usurpato di fatto dall’iraniano Khamenei: quello di punto di riferimento per tutto il mondo sciita internazionale.
Gli iraniani, che conoscono le sottigliezze della teologia sciita meglio di chiunque altro, non hanno mai messo in discussione apertamente il primato di Sistani. Sono però con ogni probabilità gli ispiratori dei diversi tentativi di assassinarlo - almeno cinque - dal 2003 a oggi. Diffondono voci non false, ma ampiamente esagerate, sulle sue condizioni di salute: in realtà Sistani - che, a 77 anni, è più giovane di Benedetto XVI - si è ripreso dall’ultima operazione subita a Londra, e non è in pericolo di vita. Soprattutto, Teheran sostiene con armi e denaro l’Esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr.
La battaglia «dei due ayatollah», al-Sadr e Sistani, ha una dimensione teologica che si intreccia con quella politica. Sistani rifiuta il principio-chiave del khomeinismo difeso invece da al-Sadr, il «governo del giurista islamico» secondo cui le decisioni ultime in un paese sciita non spettano alle autorità politiche ma a quelle religiose. Erede del costituzionalismo sciita degli anni 1920, Sistani ha certo un’alta visione del ruolo di guida morale del clero sciita, ma ritiene che l’autorità politica debba essere esercitata da laici democraticamente eletti e non da religiosi.
La stragrande maggioranza degli sciiti iracheni riconosce Sistani come leader. Lo stesso al-Sadr gli ha obbedito quando il vecchio ayatollah ha chiesto che i suoi seguaci entrassero nella coalizione di governo. Oggi ne escono, perché Teheran vuole mantenere alta la tensione in Irak. Sia gli iraniani sia Sadr sanno di non potere sfidare Sistani, che resta il leader più popolare dell’Irak. Possono tuttavia creargli dei fastidi, facendo sì che il risultato della sua mediazione - che alla fine, come già avvenuto nel 2006, sarà accettata almeno formalmente da tutte le fazioni sciite - risulti in un equilibrio più lontano dalle posizioni americane. Sistani si è già pronunciato per un ritiro «in tempi ragionevoli» delle truppe occidentali dall’Irak, sostituite da un esercito iracheno autosufficiente. Sul punto c’è un vasto consenso: ma è sulla quantificazione dei «tempi ragionevoli» che cominciano le difficoltà, e le possibilità per l’Iran di pescare nel torbido.
see u,
Giangiacomo
Il centro storico e teologico del mondo sciita è sempre stato in Irak, non in Iran. Saddam Hussein, però, ha perseguitato gli sciiti impedendo ai grandi ayatollah di Najaf di parlare in pubblico, di pubblicare libri e di viaggiare all’estero. Uno dei risultati positivi dell’intervento americano del 2003 e della fine del regime di Saddam è consistito nel rimettere le cose a posto nel mondo sciita. Le istituzioni sciite che hanno il loro centro nella città santa di Najaf hanno ripreso a funzionare a ritmo normale. A poco a poco - anche grazie all’appoggio dei ricchi sciiti dell’Azerbaijan - il grande ayatollah Ali Sistani è riuscito a riprendersi il posto che, di diritto, era sempre stato suo, ma che non poteva occupare finché in Irak c’era Saddam, così che era usurpato di fatto dall’iraniano Khamenei: quello di punto di riferimento per tutto il mondo sciita internazionale.
Gli iraniani, che conoscono le sottigliezze della teologia sciita meglio di chiunque altro, non hanno mai messo in discussione apertamente il primato di Sistani. Sono però con ogni probabilità gli ispiratori dei diversi tentativi di assassinarlo - almeno cinque - dal 2003 a oggi. Diffondono voci non false, ma ampiamente esagerate, sulle sue condizioni di salute: in realtà Sistani - che, a 77 anni, è più giovane di Benedetto XVI - si è ripreso dall’ultima operazione subita a Londra, e non è in pericolo di vita. Soprattutto, Teheran sostiene con armi e denaro l’Esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr.
La battaglia «dei due ayatollah», al-Sadr e Sistani, ha una dimensione teologica che si intreccia con quella politica. Sistani rifiuta il principio-chiave del khomeinismo difeso invece da al-Sadr, il «governo del giurista islamico» secondo cui le decisioni ultime in un paese sciita non spettano alle autorità politiche ma a quelle religiose. Erede del costituzionalismo sciita degli anni 1920, Sistani ha certo un’alta visione del ruolo di guida morale del clero sciita, ma ritiene che l’autorità politica debba essere esercitata da laici democraticamente eletti e non da religiosi.
La stragrande maggioranza degli sciiti iracheni riconosce Sistani come leader. Lo stesso al-Sadr gli ha obbedito quando il vecchio ayatollah ha chiesto che i suoi seguaci entrassero nella coalizione di governo. Oggi ne escono, perché Teheran vuole mantenere alta la tensione in Irak. Sia gli iraniani sia Sadr sanno di non potere sfidare Sistani, che resta il leader più popolare dell’Irak. Possono tuttavia creargli dei fastidi, facendo sì che il risultato della sua mediazione - che alla fine, come già avvenuto nel 2006, sarà accettata almeno formalmente da tutte le fazioni sciite - risulti in un equilibrio più lontano dalle posizioni americane. Sistani si è già pronunciato per un ritiro «in tempi ragionevoli» delle truppe occidentali dall’Irak, sostituite da un esercito iracheno autosufficiente. Sul punto c’è un vasto consenso: ma è sulla quantificazione dei «tempi ragionevoli» che cominciano le difficoltà, e le possibilità per l’Iran di pescare nel torbido.
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Giangiacomo
lunedì 16 aprile 2007
L'autoisolamento di una comunità
Samuel Huntington si è sempre molto stupito che del suo libro del 1996 Lo scontro delle civiltà si parli sempre e soltanto a proposito di islam. In realtà, scrivendo diversi anni prima dell'11 settembre 2001 Huntington pensava che, per quanto grave sia il problema islam, il maggiore scontro di civiltà del XXI secolo sarebbe stato fra l'Occidente e il mondo cinese. I fatti di Milano gli danno ragione?
Cinesi e musulmani, pure così diversi, hanno in comune un complesso di superiorità. Ai musulmani il Corano assicura che sono la migliore nazione che sia mai apparsa sulla scena della storia. Tra i cinesi è radicata la convinzione che la parola «cultura» abbia veramente senso solo se applicata alla cultura cinese.
Le somiglianze, tuttavia, si fermano qui. Molti musulmani esprimono l'idea della superiorità religiosa attraverso una forte visibilità, attiva e politica, che talora degenera in violenza. Per i cinesi la superiorità è culturale ed economica, e si traduce non in presenza ma in assenza dalla comunità che li ospita, nei cui confronti è elevata la barriera della separatezza.
I cinesi in Italia sono presenti fin dal 1920, quando vennero a Milano alcuni fra coloro che la Francia aveva reclutato in Cina per sminare i campi della Prima guerra mondiale. Ma solo dal 1980 il fenomeno è diventato di massa, come conferma una ricerca in corso di cui chi scrive è condirettore e che coinvolge diversi sociologi dell'Università di Torino.
Anche senza contare i clandestini (difficili da trovare: nell'ultimo anno su 5.000 espulsioni solo 71 hanno riguardato cinesi), gli immigrati regolari cinesi in Italia (114.000) rappresentano un record nell'Unione Europea. La Gran Bretagna ne ha 70.000, la Francia - dove contro i cinesi, i cui negozi sono accusati di concorrenza sleale, sono spesso scoppiati tumulti - solo 30.000. Un quarto degli immigrati cinesi nell'Unione Europea si concentra in Italia: e di questi il 23,4% vive in Lombardia e il 23,3% in Toscana, anche se comunità come Torino e Napoli sono in forte crescita. È una presenza coesa, perché la maggior parte degli immigrati viene da due regioni, lo Zhejiang e il Fujian. Con l'immigrazione di massa sono aumentati anche il traffico di clandestini e la presenza della criminalità organizzata cinese in Italia, già confermata da sentenze definitive.
I cinesi sono gli immigrati con il maggiore reddito medio e la più alta percentuale di proprietari di immobili e di imprenditori (anche se alcuni hanno solo un banchetto al mercato). Dati che farebbero pensare a un'alta integrazione: ma non è così. La comunità, come ha detto un intervistato nella nostra ricerca sociologica, mette in atto «meccanismi di autoisolamento»: per ragioni culturali ma anche a protezione di reti economiche di cui non si vuole che gli estranei si occupino troppo. La speranza d'integrazione sta nei giovani che vanno a scuola, e arrivano anche all'università: anche qui riescono meglio degli altri immigrati, ma spesso sono ostacolati dalle famiglie che preferiscono richiamare in negozio un prezioso lavorante. L'integrazione degli immigrati cinesi non è impossibile. Occorre tuttavia una politica intelligente e ferma, che - come ha detto a Milano il sindaco Moratti - non tolleri le Chinatown come «zone franche», di cui s'impadronirebbe subito la criminalità organizzata, governi i numeri dell'immigrazione senza aperture indiscriminate, e convinca i cinesi che chi reclama diritti deve fare lo sforzo culturale di capire e accettare anche i relativi doveri.
see u,
Giangiacomo
Cinesi e musulmani, pure così diversi, hanno in comune un complesso di superiorità. Ai musulmani il Corano assicura che sono la migliore nazione che sia mai apparsa sulla scena della storia. Tra i cinesi è radicata la convinzione che la parola «cultura» abbia veramente senso solo se applicata alla cultura cinese.
Le somiglianze, tuttavia, si fermano qui. Molti musulmani esprimono l'idea della superiorità religiosa attraverso una forte visibilità, attiva e politica, che talora degenera in violenza. Per i cinesi la superiorità è culturale ed economica, e si traduce non in presenza ma in assenza dalla comunità che li ospita, nei cui confronti è elevata la barriera della separatezza.
I cinesi in Italia sono presenti fin dal 1920, quando vennero a Milano alcuni fra coloro che la Francia aveva reclutato in Cina per sminare i campi della Prima guerra mondiale. Ma solo dal 1980 il fenomeno è diventato di massa, come conferma una ricerca in corso di cui chi scrive è condirettore e che coinvolge diversi sociologi dell'Università di Torino.
Anche senza contare i clandestini (difficili da trovare: nell'ultimo anno su 5.000 espulsioni solo 71 hanno riguardato cinesi), gli immigrati regolari cinesi in Italia (114.000) rappresentano un record nell'Unione Europea. La Gran Bretagna ne ha 70.000, la Francia - dove contro i cinesi, i cui negozi sono accusati di concorrenza sleale, sono spesso scoppiati tumulti - solo 30.000. Un quarto degli immigrati cinesi nell'Unione Europea si concentra in Italia: e di questi il 23,4% vive in Lombardia e il 23,3% in Toscana, anche se comunità come Torino e Napoli sono in forte crescita. È una presenza coesa, perché la maggior parte degli immigrati viene da due regioni, lo Zhejiang e il Fujian. Con l'immigrazione di massa sono aumentati anche il traffico di clandestini e la presenza della criminalità organizzata cinese in Italia, già confermata da sentenze definitive.
I cinesi sono gli immigrati con il maggiore reddito medio e la più alta percentuale di proprietari di immobili e di imprenditori (anche se alcuni hanno solo un banchetto al mercato). Dati che farebbero pensare a un'alta integrazione: ma non è così. La comunità, come ha detto un intervistato nella nostra ricerca sociologica, mette in atto «meccanismi di autoisolamento»: per ragioni culturali ma anche a protezione di reti economiche di cui non si vuole che gli estranei si occupino troppo. La speranza d'integrazione sta nei giovani che vanno a scuola, e arrivano anche all'università: anche qui riescono meglio degli altri immigrati, ma spesso sono ostacolati dalle famiglie che preferiscono richiamare in negozio un prezioso lavorante. L'integrazione degli immigrati cinesi non è impossibile. Occorre tuttavia una politica intelligente e ferma, che - come ha detto a Milano il sindaco Moratti - non tolleri le Chinatown come «zone franche», di cui s'impadronirebbe subito la criminalità organizzata, governi i numeri dell'immigrazione senza aperture indiscriminate, e convinca i cinesi che chi reclama diritti deve fare lo sforzo culturale di capire e accettare anche i relativi doveri.
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Giangiacomo
venerdì 13 aprile 2007
Scontro sui giovani tra Consiglio e Giunta Regionale in Piemonte
Trasmettiamo copia di un agenzia stampa sulla rete nazionale
A Torino scontro sui giovani tra Consiglio e Giunta Regionale
12 aprile 2007
Il consiglio regionale dei giovani in Piemonte
ROMA - "Siamo stanchi di questa situazione". Così Luca Yuri Toselli, presidente nazionale dell'Associazione Nazionale Giovani al Centro, associazione presente da tre legislature nell'organismo consultivo della Regione, commenta la riunione di oggi a Torino dell'Ufficio di Presidenza della Consulta Piemontese dei Giovani. Riunione in cui si dovevano votare alcune modifiche allo statuto per ampliare la base di rappresentanza dell'organismo. Ma i giovani si sono trovati di fronte a cose fatte. "Le politiche giovanili in Piemonte sono da tempo vincolate dallo scontro Placido-Oliva (rispettivamente VicePresidente del Consiglio Regionale e Assessore alla Cultura) e questo danneggia noi giovani: entrambe sono persone degne, ma non può essere questa la logica giusta. La Consulta si è insediata con un anno di ritardo, e la partecipazione dei giovani è in crollo verticale, perché di fatto in assemblea non si decide mai nulla e anche l’ufficio di presidenza, l’organo esecutivo, viene convocato solo per prendere atto di decisioni già prese dagli adulti. Nessun progetto è ideato, discusso, votato e realizzato realmente dai giovani, e diverse associazioni, stufe di questa situazione, si sono già consorziate in un forum autonomo dalla Consulta". Insomma, "questa realtà bicefala - continua Toselli - complicherà ulteriormente le cose. E comunque noi non possiamo essere il "feticcio" che gli adulti agitano quando devono legittimare decisioni sulle politiche giovanili che hanno già preso loro”.Il rischio è che la situazione piemontese abbia riflessi anche a livello nazionale, come spiega Luca Poma, presidente della Commissione Legislativa del Forum Nazionale Giovani: "Questa situazione rischia di avere dei riflessi seri anche in altre regioni d’Italia, perché il Piemonte è stato sempre regione laboratorio, alla quale molti enti locali guardano con estrema attenzione. Ora pare tutto ingessato, facciamo quindi un appello, affinché i giovani tornino ad essere i veri protagonisti. Alle istituzioni locali chiediamo di abbandonare logiche particolari e impegnarsi seriamente nell’interesse delle giovani generazioni".Priorità assoluta per Poma è "la riforma per intero della legge giovani, la 16/95 (in allegato), che è stata antesignana in Italia, e noi mettiamo a disposizione i nostri esperti per raggiungere questo obiettivo, ma la riforma – che è pendente da ben sette anni - va fatta subito, non con i soliti tempi eterni della politica degli adulti. Inoltre una Consulta regionale non è un ufficio di consulenze sulle politiche giovanili della Regione, da consultare solo quando è comodo e serve, ma è un luogo dove i giovani sono davvero protagonisti al 100% in ogni passaggio. Questo non mi pare che stia venendo pienamente compreso dalle autorità locali”.
see u,
Giangiacomo
A Torino scontro sui giovani tra Consiglio e Giunta Regionale
12 aprile 2007
Il consiglio regionale dei giovani in Piemonte
ROMA - "Siamo stanchi di questa situazione". Così Luca Yuri Toselli, presidente nazionale dell'Associazione Nazionale Giovani al Centro, associazione presente da tre legislature nell'organismo consultivo della Regione, commenta la riunione di oggi a Torino dell'Ufficio di Presidenza della Consulta Piemontese dei Giovani. Riunione in cui si dovevano votare alcune modifiche allo statuto per ampliare la base di rappresentanza dell'organismo. Ma i giovani si sono trovati di fronte a cose fatte. "Le politiche giovanili in Piemonte sono da tempo vincolate dallo scontro Placido-Oliva (rispettivamente VicePresidente del Consiglio Regionale e Assessore alla Cultura) e questo danneggia noi giovani: entrambe sono persone degne, ma non può essere questa la logica giusta. La Consulta si è insediata con un anno di ritardo, e la partecipazione dei giovani è in crollo verticale, perché di fatto in assemblea non si decide mai nulla e anche l’ufficio di presidenza, l’organo esecutivo, viene convocato solo per prendere atto di decisioni già prese dagli adulti. Nessun progetto è ideato, discusso, votato e realizzato realmente dai giovani, e diverse associazioni, stufe di questa situazione, si sono già consorziate in un forum autonomo dalla Consulta". Insomma, "questa realtà bicefala - continua Toselli - complicherà ulteriormente le cose. E comunque noi non possiamo essere il "feticcio" che gli adulti agitano quando devono legittimare decisioni sulle politiche giovanili che hanno già preso loro”.Il rischio è che la situazione piemontese abbia riflessi anche a livello nazionale, come spiega Luca Poma, presidente della Commissione Legislativa del Forum Nazionale Giovani: "Questa situazione rischia di avere dei riflessi seri anche in altre regioni d’Italia, perché il Piemonte è stato sempre regione laboratorio, alla quale molti enti locali guardano con estrema attenzione. Ora pare tutto ingessato, facciamo quindi un appello, affinché i giovani tornino ad essere i veri protagonisti. Alle istituzioni locali chiediamo di abbandonare logiche particolari e impegnarsi seriamente nell’interesse delle giovani generazioni".Priorità assoluta per Poma è "la riforma per intero della legge giovani, la 16/95 (in allegato), che è stata antesignana in Italia, e noi mettiamo a disposizione i nostri esperti per raggiungere questo obiettivo, ma la riforma – che è pendente da ben sette anni - va fatta subito, non con i soliti tempi eterni della politica degli adulti. Inoltre una Consulta regionale non è un ufficio di consulenze sulle politiche giovanili della Regione, da consultare solo quando è comodo e serve, ma è un luogo dove i giovani sono davvero protagonisti al 100% in ogni passaggio. Questo non mi pare che stia venendo pienamente compreso dalle autorità locali”.
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Giangiacomo
Terrore Islam in Italia
da www.storialibera.it
Quando solo in serata (a causa di un viaggio a Roma) ho saputo dell'attentanto ad Algeri ho pensato e ho impulsivamente detto ad alta voce: "questi vogliono arrivare a Roma!!".
Ascoltavo il TG della sera con i miei.Marocco, Algeria, Spagna... sembra il Mediterraneo della conquista araba del Maghreb. E poi l'Africa settentrionale musulmana come ponte per l'invasione dell'Europa e la conquista di ROMA.
Di proposito volli su StoriaLibera un'area su "Mediterraneo e Islam".
Stamattina seguo il TG5 (ottimo il servizio sugli attentati in Algeria) e il servizio del TG condotto da Pamparana riferiva di alcuni rapporti dei Servizi che inducono a ritenere che Vaticano e il S.Padre sono ritenuti obiettivi degli islamici.
Niente di nuovo, ovviamente. Non certo per chi vuol far finta di non vedere (uno a caso? il governo comunista filo-islamico di Prodi!).
L'impresa tentata molte volte nella storia, provocando fiumi di sangue, si ripete: "questi vogliono arrivare a Roma!!".
see u,
Giangiacomo
Quando solo in serata (a causa di un viaggio a Roma) ho saputo dell'attentanto ad Algeri ho pensato e ho impulsivamente detto ad alta voce: "questi vogliono arrivare a Roma!!".
Ascoltavo il TG della sera con i miei.Marocco, Algeria, Spagna... sembra il Mediterraneo della conquista araba del Maghreb. E poi l'Africa settentrionale musulmana come ponte per l'invasione dell'Europa e la conquista di ROMA.
Di proposito volli su StoriaLibera un'area su "Mediterraneo e Islam".
Stamattina seguo il TG5 (ottimo il servizio sugli attentati in Algeria) e il servizio del TG condotto da Pamparana riferiva di alcuni rapporti dei Servizi che inducono a ritenere che Vaticano e il S.Padre sono ritenuti obiettivi degli islamici.
Niente di nuovo, ovviamente. Non certo per chi vuol far finta di non vedere (uno a caso? il governo comunista filo-islamico di Prodi!).
L'impresa tentata molte volte nella storia, provocando fiumi di sangue, si ripete: "questi vogliono arrivare a Roma!!".
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Giangiacomo
mercoledì 11 aprile 2007
L'appello di Magdi Allam - insulti a Bagnasco
Si chiamava Adjmal Nashkbandi, faceva l'interprete per Daniele Mastrogiacomo quando è stato rapito dai talebani, ed è stato decapitato, come anche Sayed Agha, l'autista, del quale possiamo vedere l'esecuzione su un filmato in circolazione in rete, e mostrato ieri sera al Tg1.
Magdi Allam nella sua rubrica sul sito del Corriere chiede innanzitutto un minuto di silenzio per i due uccisi, in una lettera forte e coraggiosa che invito tutti a leggere:
www.corriere.it/corrforum/corriere/ThreadPopup?forumid=291&postid=798885
così come il suo editoriale di oggi, sul corriere: www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2007/04_Aprile/10/magdi_allam_riscatti.shtml
Intanto anche a Torino, oltre che a Genova, appaiono scritte contro Bagnasco, il Presidente della CEI, e il Papa. In un clima politicamente avvelenato e isterico, come quello che si sta respirando in Italia sostanzialmente dall'epoca dei referendum sulla fecondazione artificiale, è il minimo che possa succedere. Ed è preoccupante. Non sappiamo quanto questi fatti siano dovuti ad emulazione, e quanto invece siano stati pianificati e organizzati. Sappiamo solo che non è un caso che arrivino proprio adesso, dopo la violenta campagna contro la Chiesa, per via dei DICO. Che il Presidente della CEI debba andare in giro sotto scorta, in Italia, nel 2007, è veramente roba da non credersi. Vedremo se almeno adesso si abbasseranno un po' i toni.
see u,
Giangiacomo
Magdi Allam nella sua rubrica sul sito del Corriere chiede innanzitutto un minuto di silenzio per i due uccisi, in una lettera forte e coraggiosa che invito tutti a leggere:
www.corriere.it/corrforum/corriere/ThreadPopup?forumid=291&postid=798885
così come il suo editoriale di oggi, sul corriere: www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2007/04_Aprile/10/magdi_allam_riscatti.shtml
Intanto anche a Torino, oltre che a Genova, appaiono scritte contro Bagnasco, il Presidente della CEI, e il Papa. In un clima politicamente avvelenato e isterico, come quello che si sta respirando in Italia sostanzialmente dall'epoca dei referendum sulla fecondazione artificiale, è il minimo che possa succedere. Ed è preoccupante. Non sappiamo quanto questi fatti siano dovuti ad emulazione, e quanto invece siano stati pianificati e organizzati. Sappiamo solo che non è un caso che arrivino proprio adesso, dopo la violenta campagna contro la Chiesa, per via dei DICO. Che il Presidente della CEI debba andare in giro sotto scorta, in Italia, nel 2007, è veramente roba da non credersi. Vedremo se almeno adesso si abbasseranno un po' i toni.
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Giangiacomo
domenica 8 aprile 2007
I callcenter e la lezione di Biagi
"Conta il lavoro flessibile di domani, non quello seriale di ieri" Luigi Covatta, Corriere della Sera
Lunedì 19 Marzo 2007 erano cinque anni dall'assassinio di Marco Biagi.
Mi ricordo ancora quella sera. In una sala di un oratorio torinese con alcuni amici (ora ex), con quello che sarebbe divenuto mio capo sul lavoro, arrivò una telefonata urgente. Allora Biagi non era così conosciuto, ma per le persone che si relazionavano con il mercato del lavoro, era un collega, un referente con cui a Bologna e a Roma si discuteva e si riempivano fogli e fogli al fine di arrivare ad un sogno, ad una struttura nuova del mondo del lavoro e della contrattualistica in Italia.
Il suo nome è stato citato spesso all'interno di questo mio blog. Ma un uomo non è soltanto un nome, come invece pensano i terroristi, che riducono le persone a bersagli a cui mirare. Biagi era un professore, ma non era un idiot savant. Collaborava con la pubblica amministrazione, ma non era un burocrate. Aveva una forte passione politica, ma non faceva politica di professione. Gli ossimori potrebbero continare: cattolico e socialista, consigliere di Treu come di Maroni, amico di Prodi e icona di Berlusconi. Ma si tratta di ossimori solo apparenti. Testimoniano solo della ricchezza di una vita che i terroristi hanno fermato e ridotto ad un santino, al denominatore di una legge, all'oggetto di una polemica alla quale non si può più partecipare, aggiungendo così delitto a delitto. E' una considerazione, questa, che ovviamente vale per tutte le vittime del terrorismo. Ma vale tanto più per Biagi e per il lavoro che stava facendo. Aveva avuto il coraggio di aprire una pagina nuova nel diritto al lavoro per adeguare il sistema delle tutele alla realtà del mercato. Avrebbe potuto accompagnarci con sapieza nel percorso inedito che da allora abbiamo intrapreso. Innanzitutto ammonendoci a non confondere la malattia con il medico, il precariato con la flessibilità regolata. E poi stimolandoci a non servirci delle sue ricette à la carte, assumendo di esse solo quel che meglio aggrada, ma a seguire invece la terapia nella sua interezza. Ed infine ricordandoci quanto sia utile regolare adeguatamente il mercato del lavoro per favorire il progresso tecnologgico ed incrementare la produttività delle imprese.
Proprio in questi giorni è stata pubblicata una ricerca sull'efficienza dei call center, luogo cruciale dello sfruttamente selvaggio del precariato. Fra i Paesi europei l'Italia figura agli ultimi posti. Fosse ancora vivo, Biagi probabilmente avrebbe spiegato che flessibilità e qualità del lavoro vanno di pari passo e che proprio per questo le regole vanno misurate sul lavoro flessibile di domani e non sul lavoro seriale di ieri. Ed avrebbe invitato gli imprenditori a badare più alla qualità del lavoro che al suo costo. Anche ai tempi del padrone delle ferriere la manodopera a basso costo non mancava. Ma non sarebbe mai nata l'undustria moderna se non si fosse stabilito un sistema di regole e di relazioni industriali, o si fosse preteso di adattare le regole della società feudale alla nuova organizzazione del lavoro.
see u,
Giangiacomo
Lunedì 19 Marzo 2007 erano cinque anni dall'assassinio di Marco Biagi.
Mi ricordo ancora quella sera. In una sala di un oratorio torinese con alcuni amici (ora ex), con quello che sarebbe divenuto mio capo sul lavoro, arrivò una telefonata urgente. Allora Biagi non era così conosciuto, ma per le persone che si relazionavano con il mercato del lavoro, era un collega, un referente con cui a Bologna e a Roma si discuteva e si riempivano fogli e fogli al fine di arrivare ad un sogno, ad una struttura nuova del mondo del lavoro e della contrattualistica in Italia.
Il suo nome è stato citato spesso all'interno di questo mio blog. Ma un uomo non è soltanto un nome, come invece pensano i terroristi, che riducono le persone a bersagli a cui mirare. Biagi era un professore, ma non era un idiot savant. Collaborava con la pubblica amministrazione, ma non era un burocrate. Aveva una forte passione politica, ma non faceva politica di professione. Gli ossimori potrebbero continare: cattolico e socialista, consigliere di Treu come di Maroni, amico di Prodi e icona di Berlusconi. Ma si tratta di ossimori solo apparenti. Testimoniano solo della ricchezza di una vita che i terroristi hanno fermato e ridotto ad un santino, al denominatore di una legge, all'oggetto di una polemica alla quale non si può più partecipare, aggiungendo così delitto a delitto. E' una considerazione, questa, che ovviamente vale per tutte le vittime del terrorismo. Ma vale tanto più per Biagi e per il lavoro che stava facendo. Aveva avuto il coraggio di aprire una pagina nuova nel diritto al lavoro per adeguare il sistema delle tutele alla realtà del mercato. Avrebbe potuto accompagnarci con sapieza nel percorso inedito che da allora abbiamo intrapreso. Innanzitutto ammonendoci a non confondere la malattia con il medico, il precariato con la flessibilità regolata. E poi stimolandoci a non servirci delle sue ricette à la carte, assumendo di esse solo quel che meglio aggrada, ma a seguire invece la terapia nella sua interezza. Ed infine ricordandoci quanto sia utile regolare adeguatamente il mercato del lavoro per favorire il progresso tecnologgico ed incrementare la produttività delle imprese.
Proprio in questi giorni è stata pubblicata una ricerca sull'efficienza dei call center, luogo cruciale dello sfruttamente selvaggio del precariato. Fra i Paesi europei l'Italia figura agli ultimi posti. Fosse ancora vivo, Biagi probabilmente avrebbe spiegato che flessibilità e qualità del lavoro vanno di pari passo e che proprio per questo le regole vanno misurate sul lavoro flessibile di domani e non sul lavoro seriale di ieri. Ed avrebbe invitato gli imprenditori a badare più alla qualità del lavoro che al suo costo. Anche ai tempi del padrone delle ferriere la manodopera a basso costo non mancava. Ma non sarebbe mai nata l'undustria moderna se non si fosse stabilito un sistema di regole e di relazioni industriali, o si fosse preteso di adattare le regole della società feudale alla nuova organizzazione del lavoro.
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Giangiacomo
sabato 7 aprile 2007
TAV: sì, ma quando?
TAV: SÌ, MA QUANDO?
Lunedì 16 aprile 2007 Ore 17,30 - 20,00
Centro Congressi Unione Industriale, Sala dei Duecento, Via Fanti, 17 - Torino
Organizzato dall'Associazione Torino - Europa, www.torinoeuropa.eu
Relazione d’apertura:
ING. SERGIO PININFARINA
Senatore a vita
Presidente Onorario Commissione Intergovernativa per la nuova linea Torino-Lione
Relatori della Tavola rotonda:
ON. SERGIO CHIAMPARINO
Sindaco di Torino
ON. ANTONIO DI PIETRO
Ministro delle Infrastrutture
SEN. ENZO GHIGO
Senatore della Repubblica
ING. ERCOLE INCALZA
Esperto di trasporti
DOTT. ALFONSO IOZZO
Presidente Cassa depositi e prestiti
ON. MICHELE VIETTI
Portavoce nazionale UDC
ARCH. MARIO VIRANO
Commissario straordinario del Governo per il collegamento Torino-Lione
In imminenza della Pasqua ... (a tutti i miei auguri) ... vi scrivo per "sensibilizzarvi" su una problematica attuale e importante per il nostro contesto territoriale: la TAV.
Dal titolo del convegno si può facilmente capire da che parte sto, se tra i fautori e gli oppositori di tale infrastruttura.
Dato che gli oppositori si mobilitano rumorosomante, mentre i fautori sono sempre silenti, vi invito a partecipare a tale evento (sì, lo so che l'ora è difficile, ma qualche sacrificio, se tale infrastruttura da qualcuno può essere considerata importante per il futuro di ciascuno di noi, vale la pena di essere fatto, non credete?) per far "sentire" che non ci sono solo oppositori.
Se invece foste contro tale infrastruttura, potrebbe essere interessante venire a sentire le ragioni del SI' ... .
I relatori sono molto importanti (tra tutti il Senatore Pininfarina da sempre fautore e sostenitore dell'idea prima e del progetto poi) e in rappresentanza del governo sia nazionale (On. Di Pietro) che locale (On. Chiamparino).
Mi scuserete l' "intrusione", che spero garbata, ma avendo aderito all'Associazione che organizza l'evento ho anche accolto l'onere di farmi carico di supportare e diffondere le idee o le inizaitive che, di volta in volta, la medesima porta avanti.
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Giangiacomo
Flessibili e occupati
Disoccupazione al minimo storico grazie alla Legge Biagi. Ma non c'era il declino?
La disoccupazione in Italia, nel 2006, ha raggiunto un minimo attestandosi sul 6,8 %: lo 0,9 % in meno della disoccupazione del 2005, che fu del 7,6 %.
Nel frattempo la forza lavoro è aumentata di un punto, per tre quarti per l'afflusso di immigrati e per un quarto per l'aumento della quota di popolazione che ha deciso di cercare un posto di lavoro, attirata dalle nuove forme flessibili, che consentono occupazione temporanee o a tempo parziale. L'aumento di occupazione totale del 2006 è stato di ben 425 mila unità. Ciò ha permesso di soddisfare alla nuova offerta di lavoro per circa un punto e di ridurre la disoccupazione di quasi un altro.
Le modalità dello sviluppo occupazionale mostrano che la causa principale di questi risultati spettacolari sia la flessibilità che comporta la nuova disciplina dettata dalla legge Biagi. Ma il fatto che sia aumentata anche l'occupazione a tempo indeterminato e che sia ripresa l'immigrazione dal Sud al Nord per un posto stabile mostra che ha avuto effetti positivi anche la riduzione dei carichi fiscali del governo Berlusconi e che l'industria italiana non è in declino, ma si è ristrutturata. Superficialmente si può osservare che poichè la crescita dell'occupazione è eguale in percentuale a quella del Pil (l'1,9), non vi è stato uno sviluppo della produttività. Ma nel settore industriale, la crescita è avvenuta con occupazione invariata. Se ne desume che nell'industria la produttività è cresciuta mediamente del 2 per cento.
Il declino è ormai una leggenda che merita sepoltura in terra infedele.
see u,
Giangiacomo
La disoccupazione in Italia, nel 2006, ha raggiunto un minimo attestandosi sul 6,8 %: lo 0,9 % in meno della disoccupazione del 2005, che fu del 7,6 %.
Nel frattempo la forza lavoro è aumentata di un punto, per tre quarti per l'afflusso di immigrati e per un quarto per l'aumento della quota di popolazione che ha deciso di cercare un posto di lavoro, attirata dalle nuove forme flessibili, che consentono occupazione temporanee o a tempo parziale. L'aumento di occupazione totale del 2006 è stato di ben 425 mila unità. Ciò ha permesso di soddisfare alla nuova offerta di lavoro per circa un punto e di ridurre la disoccupazione di quasi un altro.
Le modalità dello sviluppo occupazionale mostrano che la causa principale di questi risultati spettacolari sia la flessibilità che comporta la nuova disciplina dettata dalla legge Biagi. Ma il fatto che sia aumentata anche l'occupazione a tempo indeterminato e che sia ripresa l'immigrazione dal Sud al Nord per un posto stabile mostra che ha avuto effetti positivi anche la riduzione dei carichi fiscali del governo Berlusconi e che l'industria italiana non è in declino, ma si è ristrutturata. Superficialmente si può osservare che poichè la crescita dell'occupazione è eguale in percentuale a quella del Pil (l'1,9), non vi è stato uno sviluppo della produttività. Ma nel settore industriale, la crescita è avvenuta con occupazione invariata. Se ne desume che nell'industria la produttività è cresciuta mediamente del 2 per cento.
Il declino è ormai una leggenda che merita sepoltura in terra infedele.
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Giangiacomo
Letture durante le festività di Pasqua
Tutta la mia solidarietà a Renato Farina, che è stato radiato dall'Ordine dei Giornalisti. A dire la verità, lui si era già dimesso dall'Ordine, e non so che senso abbia radiare qualcuno da un Ordine a cui non è iscritto. Tecnicamente, è come se avessero radiato me dall'Ordine dei Medici.
Nei dettagli: www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=167549
Leggiamo su Libero che da venerdì scorso Renato Farina ha iniziato la sua collaborazione con quel quotidiano non più in veste di giornalista, ma di libero pensatore.
Lucia Annunziata, nota giornalista e intellettuale di sinistra, ha spiegato perchè lei sarà in piazza il 12 maggio, insieme a tutti noi. Veramente, una notevole onestà intellettuale, merce rara di questi tempi:
www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=2660&ID_sezione=&sezione=
Leggetevi il discorso di Benedetto XVI, soprattutto nella parte in cui spiega perchè la teologia è diversa, ad esempio, dall'egittologia
http://12.77.1.245/news_services/bulletin/news/19896.php?index=19896&lang=it#TRADUZIONE%20IN%20LINGUA%20ITALIANA
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Giangiacomo
Nei dettagli: www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=167549
Leggiamo su Libero che da venerdì scorso Renato Farina ha iniziato la sua collaborazione con quel quotidiano non più in veste di giornalista, ma di libero pensatore.
Lucia Annunziata, nota giornalista e intellettuale di sinistra, ha spiegato perchè lei sarà in piazza il 12 maggio, insieme a tutti noi. Veramente, una notevole onestà intellettuale, merce rara di questi tempi:
www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=2660&ID_sezione=&sezione=
Leggetevi il discorso di Benedetto XVI, soprattutto nella parte in cui spiega perchè la teologia è diversa, ad esempio, dall'egittologia
http://12.77.1.245/news_services/bulletin/news/19896.php?index=19896&lang=it#TRADUZIONE%20IN%20LINGUA%20ITALIANA
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Giangiacomo
Gli imam ultrà che Amato non caccia via
di Massimo Introvigne (il Giornale, 2 aprile 2007)
Caso numero uno. Nell’ultimo weekend al variopinto convegno del Campo Antimperialista a Chianciano, che ha visto insieme sedicenti resistenti irakeni e ultra-comunisti vicini alle Brigate Rosse come i Carc, il portavoce dell’Ucoii, l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia, dichiara – registrato in video e salutando i compagni a pugno chiuso – che “i giovani musulmani d’Europa possono essere compagni di strada e di lotta e ne abbiamo visto una parte notevole in Francia, due anni fa”. Si tratta di coloro che “hanno bruciato nel giro di pochi giorni 36.000 automobili”. Per Piccardo “questa è una forza che le comunità immigrate hanno dentro di loro, la loro capacità demografica, il loro coraggio. Con questa forza, con questi giovani noi dobbiamo riuscire a interagire. L’anti-imperialismo è dentro di loro”.
Caso numero due. A Torino una troupe del programma Annozero registra in due moschee sermoni dove s’inneggia ad Al Qaida e s’insegna ai fedeli musulmani torinesi che non ci deve essere “nessun compromesso con gli infedeli. Si uccidono e basta”. Almeno una delle due moschee è in amichevoli rapporti con la stessa Ucoii.
Che cos’è l’Ucoii? Le numerose associazioni di musulmani che esistono in Italia non sono “l’islam”: diverse indagini dimostrano che la maggioranza degli immigrati non le ha nemmeno mai sentite nominare. Tuttavia l’Ucoii è l’associazione di gran lunga più grande, e controlla la maggior parte delle sale di preghiera italiane (impropriamente dette moschee). La sua matrice storica e culturale è quella dei Fratelli Musulmani, la casa madre del fondamentalismo internazionale. Quando l’allora Ministro degli Interni Pisanu decise di istituire una Consulta per l’Islam italiano stabilì saggiamente che la Consulta, come dice il suo nome, avrebbe avuto funzioni consultive, semplice luogo dove sentire pareri disparati, “escluso – così diceva il decreto istitutivo – ogni carattere di rappresentatività”.
Contro le opinioni di molti, nella Consulta Pisanu accolse l’Ucoii, ritenendo che sarebbe stato strano sentire in un organo meramente consultivo le opinioni di piccole organizzazioni ma non della più grande. Del resto, gli imam stranieri che nelle prediche esageravano con Pisanu erano prontamente espulsi. Il nuovo ministro Amato, invece, non ha espulso nessuno e ha sempre più presentato la Consulta come se fosse un vero e proprio parlamentino dei musulmani italiani. Dal canto suo l’Ucoii ha interpretato l’atteggiamento di Amato come una licenza per gettare la maschera e buttare la prudenza alle ortiche. Ai tempi della guerra in Libano, in una pubblicità a pagamento paragonò Israele ai nazisti. Subito dopo alcuni suoi esponenti hanno rilasciato dichiarazioni per dire il meno ambigue sul diritto di praticare la poligamia in Italia.
Che cosa ha intenzione di fare Amato con l’Ucoii e con gli imam bombaroli di Torino? Sembra che di fronte ai gravi episodi di Chianciano e di Torino il pacioso ministro abbia avuto un sussulto: infatti, ha denunciato il rischio che l’Italia finisca per assomigliare alle “società islamizzate”. Purtroppo, però, Amato non parlava dei musulmani ma dei vescovi cattolici e della loro nota sui Dico. Il governo Berlusconi dialogava con i vescovi ed espelleva gli imam ultra-fondamentalisti. Questo governo dialoga con i fondamentalisti islamici e cerca di espellere dalla vita politica i vescovi. Quale dei due governi alimenta il rischio di un’Italia “islamizzata”? La risposta non è poi così difficile.
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Giangiacomo
Caso numero uno. Nell’ultimo weekend al variopinto convegno del Campo Antimperialista a Chianciano, che ha visto insieme sedicenti resistenti irakeni e ultra-comunisti vicini alle Brigate Rosse come i Carc, il portavoce dell’Ucoii, l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia, dichiara – registrato in video e salutando i compagni a pugno chiuso – che “i giovani musulmani d’Europa possono essere compagni di strada e di lotta e ne abbiamo visto una parte notevole in Francia, due anni fa”. Si tratta di coloro che “hanno bruciato nel giro di pochi giorni 36.000 automobili”. Per Piccardo “questa è una forza che le comunità immigrate hanno dentro di loro, la loro capacità demografica, il loro coraggio. Con questa forza, con questi giovani noi dobbiamo riuscire a interagire. L’anti-imperialismo è dentro di loro”.
Caso numero due. A Torino una troupe del programma Annozero registra in due moschee sermoni dove s’inneggia ad Al Qaida e s’insegna ai fedeli musulmani torinesi che non ci deve essere “nessun compromesso con gli infedeli. Si uccidono e basta”. Almeno una delle due moschee è in amichevoli rapporti con la stessa Ucoii.
Che cos’è l’Ucoii? Le numerose associazioni di musulmani che esistono in Italia non sono “l’islam”: diverse indagini dimostrano che la maggioranza degli immigrati non le ha nemmeno mai sentite nominare. Tuttavia l’Ucoii è l’associazione di gran lunga più grande, e controlla la maggior parte delle sale di preghiera italiane (impropriamente dette moschee). La sua matrice storica e culturale è quella dei Fratelli Musulmani, la casa madre del fondamentalismo internazionale. Quando l’allora Ministro degli Interni Pisanu decise di istituire una Consulta per l’Islam italiano stabilì saggiamente che la Consulta, come dice il suo nome, avrebbe avuto funzioni consultive, semplice luogo dove sentire pareri disparati, “escluso – così diceva il decreto istitutivo – ogni carattere di rappresentatività”.
Contro le opinioni di molti, nella Consulta Pisanu accolse l’Ucoii, ritenendo che sarebbe stato strano sentire in un organo meramente consultivo le opinioni di piccole organizzazioni ma non della più grande. Del resto, gli imam stranieri che nelle prediche esageravano con Pisanu erano prontamente espulsi. Il nuovo ministro Amato, invece, non ha espulso nessuno e ha sempre più presentato la Consulta come se fosse un vero e proprio parlamentino dei musulmani italiani. Dal canto suo l’Ucoii ha interpretato l’atteggiamento di Amato come una licenza per gettare la maschera e buttare la prudenza alle ortiche. Ai tempi della guerra in Libano, in una pubblicità a pagamento paragonò Israele ai nazisti. Subito dopo alcuni suoi esponenti hanno rilasciato dichiarazioni per dire il meno ambigue sul diritto di praticare la poligamia in Italia.
Che cosa ha intenzione di fare Amato con l’Ucoii e con gli imam bombaroli di Torino? Sembra che di fronte ai gravi episodi di Chianciano e di Torino il pacioso ministro abbia avuto un sussulto: infatti, ha denunciato il rischio che l’Italia finisca per assomigliare alle “società islamizzate”. Purtroppo, però, Amato non parlava dei musulmani ma dei vescovi cattolici e della loro nota sui Dico. Il governo Berlusconi dialogava con i vescovi ed espelleva gli imam ultra-fondamentalisti. Questo governo dialoga con i fondamentalisti islamici e cerca di espellere dalla vita politica i vescovi. Quale dei due governi alimenta il rischio di un’Italia “islamizzata”? La risposta non è poi così difficile.
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Giangiacomo
giovedì 5 aprile 2007
I talebani, ecco cosa sono
Di fronte alla ferocia emersa nelle ultime settimane in occasione del sequestro del giornalista Mastrogiacomo e della barbara uccisione del suo autista Saied Agha, molti si chiedono: ma chi sono i talebani? La storia afghana recente è complicata, ma per capire i talebani deve essere schematicamente riassunta.
L’Afghanistan ha come sua principale ricchezza la posizione geografica e il suo essere «strada»: per le merci, per i pellegrini verso la Mecca, e oggi per il petrolio e il gas naturale dell’Asia Centrale. Percorsa da eserciti invasori di tutti i tipi, la strada afghana ha dato origine a un paese etnicamente composito, dove alla maggioranza pashtun, musulmana sunnita, si contrappongono le minoranze uzbeke e tagike nel Nord e Nord-Est (pure sunnite, ma con forti influenze sufi), hazara al Centro (di lingua persiana e sciita), dari a Ovest (persiana di lingua ma sunnita), più un’ampia serie di minoranze più piccole. Al di sotto dell’etnia si collocano le tribù, spesso in lotta fra loro, come avviene all’interno dei pashtun fra i durrani (la cui capitale tradizionale è Kandahar) e i ghilzai (più numerosi nella zona di Kabul, che pure è città a sua volta etnicamente composita). Il padre della monarchia afghana moderna è il re Ahmad Shah (1722-1772),: un pio pashtun della tribù durrani, che avvia la tradizione afghana di lasciare ampie possibilità di autogoverno alle minoranze interne ricevendone in cambio sostegno contro i nemici esterni. Fra alti e bassi, questa tradizione continua fino al regno di Mohammad Zahir Shah, re dal 1933.
Zahir è rovesciato nel 1973 dal cugino Mohammad Daud (1909-1978), che cerca d’introdurre nel paese una forma di nazionalismo laico. Daud è avversato da una parte dall’islam politico, dall’altra dai comunisti leali alla vicina Unione Sovietica, peraltro divisi fra le correnti Khalq («Masse») e Parchan («Bandiera»). L’opposizione islamica a Daud è guidata – dal Pakistan – da tre dirigenti: il centrista Burhanuddin Rabbani, il moderato Ahmad Shah Massud (1953-2001) e il fondamentalista Gulbuddin Hikmatyar. Daud cerca di governare venendo a patti con la fazione comunista Parchan di Babrak Karmal (1929-1996), ma nel 1978 è ucciso da una rivolta guidata dalla corrente Khalq. Quest’ultima non riesce a controllare il paese, scosso dalle rivolte dei fondamentalisti e delle minoranze etniche: nel 1979 l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan, fa uccidere il presidente Khalq, Hafizullah Amin (1929-1979), e installa al suo posto Karmal.
Nei successivi dieci anni al prezzo di un milione e mezzo di morti la composita alleanza mujaheddin – che comprende tutto l’islam politico e le minoranze etniche –, con l’aiuto del Pakistan e degli Stati Uniti, scaccia i sovietici dal paese, e nel 1992 abbatte il regime comunista di Najibullah (1947-1996), succeduto a Karmal nel 1986. Il primo presidente mujaheddin dell’Afghanistan è il moderato sufi Sibghatullah Mujaddedi, cui fa seguito nel 1993 il centrista Rabbani, con un governo a forte presenza tagika e con il tagiko Massud come capo dell’esercito. Di fatto, Rabbani non riuscirà mai a controllare l’intero territorio nazionale: le minoranze etniche diverse dalla tagika sono tutte in rivolta, e l’area pashtun è spezzettata in piccole zone ciascuna di fatto governata da un «signore della guerra» spesso legato alla malavita.
Nel 1994 uno di questi comandanti locali fa rapire due ragazze del villaggio di Singesar, nella provincia di Kandahar, e le violenta. Il mullah del villaggio, Mohammed Omar, raduna trenta studenti (taliban) della sua piccola madrassa (scuola coranica), libera le ragazze e impicca il comandante. Il successo di Omar, dopo diverse imprese dello stesso genere, è fenomenale: lo sostiene il governo di Rabbani, che pensa di utilizzare questi «talebani» nelle zone pashtun contro i comandanti locali e contro i fondamentalisti dissidenti di Hikmatyar, che riuscirà a conquistare Kabul e a diventare presidente per pochi mesi nel 1996. Grazie a questi aiuti – e a quello di Osama bin Laden, quando nel 1996 si installa in Afghanistan, e cui si deve l’uccisione di Massud alla vigilia dei fatti dell’11 settembre 2001 – in due anni i talebani riescono a impadronirsi del paese. Il consenso popolare, all’inizio diffuso, evapora rapidamente – a causa della rigidissima applicazione della legge islamica (spesso mischiata al codice tradizionale pashtun), dell’oppressione delle donne, della discriminazione contro i non pashtun e anche contro i pashtun che non sono durrani; e la guerra civile continua.
Vi s’intersecano complesse questioni legate al traffico di droga (che i talebani dichiarano lecito purché rivolto a un consumatore finale non islamico, così che l’Afghanistan arriva a rifornire il novanta per cento del mercato mondiale dell’eroina), e alla costruzione di oleodotti e gasdotti in territorio afghano. La guerra civile assume però un tono mistico e millenarista, quando – il 4 aprile 1996 – il mullah Omar si presenta ai suoi fedeli avvolto in una delle più venerate reliquie dell’islam, conservata a Kandahar ma esposta al pubblico solo un paio di volte per secolo, il mantello del profeta Muhammad, e si fa acclamare come emiro dell’Afghanistan.
I talebani – con poche eccezioni, fra cui lo stesso Omar – non hanno combattuto contro i sovietici. Si sono preparati piuttosto al dopo-invasione studiando nelle scuole coraniche in Pakistan, con l’intenzione esplicita di preparare una classe dirigente alternativa. Ma quale tipo di scuole? Le radici culturali dei talebani si situano nelle derivazioni pakistane della corrente tradizionalista indiana deobandi, di origine ottocentesca, affine, anche se non identica, al movimento wahhabita dell’Arabia Saudita e diversa dal fondamentalismo: a differenza dei fondamentalisti, i tradizionalisti s’interessano più di morale che di politica, più al pudore delle donne che alla politica internazionale. Tuttavia quella dei talebani è una versione estrema del puritanesimo deobandi, con punte di «pulizia etnica» contro gli sciiti afghani, considerati non musulmani, che hanno provocato fra l’altro l’implacabile ostilità dell’Iran sciita ai talebani, e cui si è affiancata la distruzione delle statue buddhiste a Bamiyan, tradizionalmente tollerate e custodite dagli hazari sciiti. Questo spiega come i tradizionalisti talebani abbiano potuto allearsi con i fondamentalisti di Osama bin Laden, la cui storia è diversa e parte dalla politica più che dalla morale, e a cui ora ha prestato giuramento di fedeltà anche Hikmatyar. Dopo l’11 settembre, l’alleanza con Al Qaida si rivela fatale ai talebani, rovesciati dagli Stati Uniti e dai loro alleati con la benedizione dell’ONU. Ma le difficoltà del nuovo governo democraticamente eletto di Karzai di controllare un territorio che nessuno nella storia ha mai controllato veramente fanno riemergere una guerriglia che vede affiancati i talebani e Al Qaida: un cocktail velenoso di tradizionalismo puritano e fondamentalismo violento, che è ormai degenerato in semplice terrorismo.
di Massimo Introvigne (Il Nostro Tempo, anno 62, n. 13, 1° aprile 2007)
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Giangiacomo
L’Afghanistan ha come sua principale ricchezza la posizione geografica e il suo essere «strada»: per le merci, per i pellegrini verso la Mecca, e oggi per il petrolio e il gas naturale dell’Asia Centrale. Percorsa da eserciti invasori di tutti i tipi, la strada afghana ha dato origine a un paese etnicamente composito, dove alla maggioranza pashtun, musulmana sunnita, si contrappongono le minoranze uzbeke e tagike nel Nord e Nord-Est (pure sunnite, ma con forti influenze sufi), hazara al Centro (di lingua persiana e sciita), dari a Ovest (persiana di lingua ma sunnita), più un’ampia serie di minoranze più piccole. Al di sotto dell’etnia si collocano le tribù, spesso in lotta fra loro, come avviene all’interno dei pashtun fra i durrani (la cui capitale tradizionale è Kandahar) e i ghilzai (più numerosi nella zona di Kabul, che pure è città a sua volta etnicamente composita). Il padre della monarchia afghana moderna è il re Ahmad Shah (1722-1772),: un pio pashtun della tribù durrani, che avvia la tradizione afghana di lasciare ampie possibilità di autogoverno alle minoranze interne ricevendone in cambio sostegno contro i nemici esterni. Fra alti e bassi, questa tradizione continua fino al regno di Mohammad Zahir Shah, re dal 1933.
Zahir è rovesciato nel 1973 dal cugino Mohammad Daud (1909-1978), che cerca d’introdurre nel paese una forma di nazionalismo laico. Daud è avversato da una parte dall’islam politico, dall’altra dai comunisti leali alla vicina Unione Sovietica, peraltro divisi fra le correnti Khalq («Masse») e Parchan («Bandiera»). L’opposizione islamica a Daud è guidata – dal Pakistan – da tre dirigenti: il centrista Burhanuddin Rabbani, il moderato Ahmad Shah Massud (1953-2001) e il fondamentalista Gulbuddin Hikmatyar. Daud cerca di governare venendo a patti con la fazione comunista Parchan di Babrak Karmal (1929-1996), ma nel 1978 è ucciso da una rivolta guidata dalla corrente Khalq. Quest’ultima non riesce a controllare il paese, scosso dalle rivolte dei fondamentalisti e delle minoranze etniche: nel 1979 l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan, fa uccidere il presidente Khalq, Hafizullah Amin (1929-1979), e installa al suo posto Karmal.
Nei successivi dieci anni al prezzo di un milione e mezzo di morti la composita alleanza mujaheddin – che comprende tutto l’islam politico e le minoranze etniche –, con l’aiuto del Pakistan e degli Stati Uniti, scaccia i sovietici dal paese, e nel 1992 abbatte il regime comunista di Najibullah (1947-1996), succeduto a Karmal nel 1986. Il primo presidente mujaheddin dell’Afghanistan è il moderato sufi Sibghatullah Mujaddedi, cui fa seguito nel 1993 il centrista Rabbani, con un governo a forte presenza tagika e con il tagiko Massud come capo dell’esercito. Di fatto, Rabbani non riuscirà mai a controllare l’intero territorio nazionale: le minoranze etniche diverse dalla tagika sono tutte in rivolta, e l’area pashtun è spezzettata in piccole zone ciascuna di fatto governata da un «signore della guerra» spesso legato alla malavita.
Nel 1994 uno di questi comandanti locali fa rapire due ragazze del villaggio di Singesar, nella provincia di Kandahar, e le violenta. Il mullah del villaggio, Mohammed Omar, raduna trenta studenti (taliban) della sua piccola madrassa (scuola coranica), libera le ragazze e impicca il comandante. Il successo di Omar, dopo diverse imprese dello stesso genere, è fenomenale: lo sostiene il governo di Rabbani, che pensa di utilizzare questi «talebani» nelle zone pashtun contro i comandanti locali e contro i fondamentalisti dissidenti di Hikmatyar, che riuscirà a conquistare Kabul e a diventare presidente per pochi mesi nel 1996. Grazie a questi aiuti – e a quello di Osama bin Laden, quando nel 1996 si installa in Afghanistan, e cui si deve l’uccisione di Massud alla vigilia dei fatti dell’11 settembre 2001 – in due anni i talebani riescono a impadronirsi del paese. Il consenso popolare, all’inizio diffuso, evapora rapidamente – a causa della rigidissima applicazione della legge islamica (spesso mischiata al codice tradizionale pashtun), dell’oppressione delle donne, della discriminazione contro i non pashtun e anche contro i pashtun che non sono durrani; e la guerra civile continua.
Vi s’intersecano complesse questioni legate al traffico di droga (che i talebani dichiarano lecito purché rivolto a un consumatore finale non islamico, così che l’Afghanistan arriva a rifornire il novanta per cento del mercato mondiale dell’eroina), e alla costruzione di oleodotti e gasdotti in territorio afghano. La guerra civile assume però un tono mistico e millenarista, quando – il 4 aprile 1996 – il mullah Omar si presenta ai suoi fedeli avvolto in una delle più venerate reliquie dell’islam, conservata a Kandahar ma esposta al pubblico solo un paio di volte per secolo, il mantello del profeta Muhammad, e si fa acclamare come emiro dell’Afghanistan.
I talebani – con poche eccezioni, fra cui lo stesso Omar – non hanno combattuto contro i sovietici. Si sono preparati piuttosto al dopo-invasione studiando nelle scuole coraniche in Pakistan, con l’intenzione esplicita di preparare una classe dirigente alternativa. Ma quale tipo di scuole? Le radici culturali dei talebani si situano nelle derivazioni pakistane della corrente tradizionalista indiana deobandi, di origine ottocentesca, affine, anche se non identica, al movimento wahhabita dell’Arabia Saudita e diversa dal fondamentalismo: a differenza dei fondamentalisti, i tradizionalisti s’interessano più di morale che di politica, più al pudore delle donne che alla politica internazionale. Tuttavia quella dei talebani è una versione estrema del puritanesimo deobandi, con punte di «pulizia etnica» contro gli sciiti afghani, considerati non musulmani, che hanno provocato fra l’altro l’implacabile ostilità dell’Iran sciita ai talebani, e cui si è affiancata la distruzione delle statue buddhiste a Bamiyan, tradizionalmente tollerate e custodite dagli hazari sciiti. Questo spiega come i tradizionalisti talebani abbiano potuto allearsi con i fondamentalisti di Osama bin Laden, la cui storia è diversa e parte dalla politica più che dalla morale, e a cui ora ha prestato giuramento di fedeltà anche Hikmatyar. Dopo l’11 settembre, l’alleanza con Al Qaida si rivela fatale ai talebani, rovesciati dagli Stati Uniti e dai loro alleati con la benedizione dell’ONU. Ma le difficoltà del nuovo governo democraticamente eletto di Karzai di controllare un territorio che nessuno nella storia ha mai controllato veramente fanno riemergere una guerriglia che vede affiancati i talebani e Al Qaida: un cocktail velenoso di tradizionalismo puritano e fondamentalismo violento, che è ormai degenerato in semplice terrorismo.
di Massimo Introvigne (Il Nostro Tempo, anno 62, n. 13, 1° aprile 2007)
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Giangiacomo
domenica 1 aprile 2007
A Torino Buttiglione e Napoli parlano di famiglia
suggerisco un'interessante incontro...
ALL'OFFICINA SI PARLA DI FAMIGLIA - LUNEDI' 2 APRILE A SANT'ANTONINO
La Costituzione italiana, art. 29, I comma, afferma che: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”
La dottrina della Chiesa, fedele agli insegnamenti evangelici, considera la famiglia come una comunità di amore e di solidarietà in grado di trasmettere valori essenziali per lo sviluppo dei suoi membri e della società.
Alcune proposte di legge attualmente in discussione rendono importante un approfondimento ed una discussione su questo tema.
Parteciperanno alla serata:
Prof. Sen. Rocco Buttiglione
On. Osvaldo Napoli
Officina.Valsusa
Il portavoce Roberto Giuglard
Un gruppo di ragazzi sta facendo un forum su questa tematica via internet al sito www.stranicristiani.ilcannocchiale.it . Da qui scaturiranno le domande che verranno poste nella serata. Se ti interessa puoi parteciparvi anche tu.
see u,
Giangiacomo
ALL'OFFICINA SI PARLA DI FAMIGLIA - LUNEDI' 2 APRILE A SANT'ANTONINO
La Costituzione italiana, art. 29, I comma, afferma che: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”
La dottrina della Chiesa, fedele agli insegnamenti evangelici, considera la famiglia come una comunità di amore e di solidarietà in grado di trasmettere valori essenziali per lo sviluppo dei suoi membri e della società.
Alcune proposte di legge attualmente in discussione rendono importante un approfondimento ed una discussione su questo tema.
“La Famiglia: amore terreno, espressione dell’amore di Dio; è ancora orientata al bene comune?”
Lunedì 2 aprile alle ore 21.00
salone parrocchiale in Piazza Libertà – Sant’Antonino di Susa
Parteciperanno alla serata:
Prof. Sen. Rocco Buttiglione
On. Osvaldo Napoli
Officina.Valsusa
Il portavoce Roberto Giuglard
Un gruppo di ragazzi sta facendo un forum su questa tematica via internet al sito www.stranicristiani.ilcannocchiale.it . Da qui scaturiranno le domande che verranno poste nella serata. Se ti interessa puoi parteciparvi anche tu.
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Giangiacomo
Chi è Gino Strada
STRADA GINO: Conoscerlo meglio.
di Gigi Moncalvo 22/03/2007 19:20
C'è uno strano caso di "silenzio stampa" in questo nostro grande paese:quello riguardante il passato violento del dottor Gino Strada.
Il pacifista, la colomba, l'uomo che ama il bene e fa del bene, ilmissionario laico che va in soccorso degli oppressi, colui che predicacol ramoscello d'ulivo in bocca, è lo stesso che faceva da"luogotenente" - insieme al futuro odontoiatra Leghissa - a Luca Cafiero il famigerato capo del servizio d'ordine del famigerato Movimento Studentesco dell'Università Statale di Milano, quello dei terribili emai dimenticati "katanghesi".
Sì, è proprio lui: il "pacifista" Gino Strada, colui che oggi dà dei"delinquenti politici" agli esponenti della casa della Libertà e dei DSche non vogliono soggiacere ai suoi diktat di aspirante leader politicoche sogna un seggio in Parlamento. Per l'esattezza Strada, insieme aLeghissa, era il capo del servizio d'ordine di Medicina e Scienze e ilsuo gruppo o squadra aveva questo inequivocabile nome: "Lenin". Rispettoai capi degli altri servizi d'ordine - ad esempio Mario Martucci per la Bocconi e il suo gruppo "Stalin", o Franco Origoni per la squadra diArchitettura, o Roberto Tuminelli, l'erede delle famose scuole private per il recupero-anni, alla guida del gruppo "Dimitroff", il bulgarosegretario della Terza Internazionale accusato da Hitler di aver incendiato il Reichstag - il gruppo guidato da Strada si distingueva perla più cieca obbedienza e fedeltà a quel fior di democratico e di amantedei diritti civili che rispondeva al nome di Luca Cafiero, capo supremodi tutti i Servizi d'Ordine e poi divenuto deputato del PCI, candidato aNapoli, dove superò addirittura in fatto di preferenze l'on. Giorgio Napolitano. Ora Cafiero è ritornato a fare il docente universitario allafacoltà di Filosofia della Statale. Al comando generale e assoluto di Cafiero c'erano i gruppi "Stalin", "Dimitroff" e tanti altri - ciascuno dei quali aveva uno o più sotto-capi -, ma era il "Lenin" di Gino Stradache si distingueva per la prontezza e la capacità di intervento laddove ce ne fosse stato bisogno.
In sostanza, ancora ben lontano dallo scoprire il suo attuale animo pacifista, Gino Strada era uno degli uomini di punta di quel Movimento dichiaratamente marxista-leninista-stalinista-maoista che aveva i suoi uomini guida in Mario Capanna, Salvatore "Turi" Toscano e Luca Cafiero.
I milanesi, e non solo loro, ricordano benissimo quegli anni, e soprattutto quei sabati di violenza, di scontri, di disordini.
Ma ora nessuno dice loro che ad accendere quelle scintille c'era anche l'odierno "predicatore" Gino Strada. Solo che allora non aveva dimestichezza con le colombe bianche, le bandiere multicolori, il rispetto altrui, il ramoscello d'ulivo. Ma era molto di più avvezzo ai seguenti segni identificativi: l'eskimo, il casco da combattimento, e l'obbligo di portare con sé, 24 ore su 24,le "caramelle": cioè due sassi nelle tasche e soprattutto "la penna", cioè la famosa Hazet 36 cromata, una chiave inglese d'acciaio lunga quasi mezzo metro nascosta sotto l'eskimo o nelle tasche del loden. Alla "penna" - si usava tale termine durante le telefonate per evitare problemi con le intercettazioni - si era arrivati partendo dalla "stagetta" (i manici di piccone che avevano il difetto di spezzarsi al contatto col cranio da colpire), dalle mazze con avvitato un bullone sulla sommità per fare più male, e dai tondini di ferro usati per armareil cemento, ma anch'essi non adatti poiché si piegavano. I katanghesi e il loro servizio d'ordine, Gino Strada in testa, erano arrivati a questascelta finale in fatto di armamentario, su esplicita indicazione del loro collegio di difesa che allineava nomi oggi famosissimi come quello di Gaetano Pecorella, Marco Janni, Gigi Mariani, insieme ad altre decinedi futuri principi del foro, mentre sul fronte dei "Magistrati Democratici" spiccava la figura di Edmondo Bruti Liberati.
Il "collegio di difesa" aveva dato istruzioni ben precise in caso di arresti e processi: "Negare sempre l'evidenza", anche in caso di fotografie o filmati inequivocabili, definire come "strumento di lavoro" la scoperta eventuale della chiave inglese. Sarebbe stato difficile giustificare come tale un manico da piccone o un tondino di ferro, facilmente considerabili e catalogabili come "arma impropria", mentre diventata più facile con la chiave inglese. "Dite che stavate andando ariparare il bagno della nonna o che vi serviva per sistemare l'auto di vostro padre", poteva essere una delle indicazioni difensive consigliate in caso di bisogno.
"Pacifici ma mai pacifisti" era uno degli slogan ideati da Mario Capanna, ed è strano dunque che oggi Gino Strada si definisca proprio"pacifista". Comunque - a parte la canzoncina ritmata con cui si caricavano prima degli scontri (kata-kata-katanga) - essi pronunciavano ad alta voce ben altri slogan di quelli di oggi e perseguivano ben altri obiettivi. E i loro avversari non erano solo i Tommaso Staiti sul fronte della destra, ma anche i "compagni" di Avanguardia Operaia (molti dei quali oggi sono esponenti dei Verdi), Lotta Continua (dei Sofri, Mario Deaglio, Gad Lerner, apprezzato radiocronista dai microfoni di Radio Popolare incaricato di dare le istruzioni in diretta sulle vie da evitare e sulle strade di fuga in cui fuggire) e Lotta Comunista (memorabile e indimenticabile uno scontro di inaudita violenza) e perfino coi primi gruppi di Comunione & Liberazione. Anche quelli di sinistra erano i "nemici" di Strada al pari di Tom Staiti e dei suoi. Non c'è bisogno di scomodare la memoria del prefetto Mazza e del suo famoso rapporto, la cui rispondenza alla verità venne riconosciuta solo molti anni dopo, per affermare che il servizio d'ordine del Movimento Studentesco era uno dei corpi più militarizzati, una autentica banda armata che incuteva terrore e seminava odio in quegli anni.
Si trattava di una autentica falange macedone di 300-500 persone, (Strada e Leghissa ne guidavano una cinquantina), che non arretravano di un millimetro nemmeno di fronte agli scudi della polizia in assetto da combattimento. Semmai, purtroppo avveniva talvolta il contrario. Unico aspetto positivo è che, a differenza di Lotta Continua, l'MS non ha prodotto successivi passaggi al terrorismo. Anche se bisognerebbe riaprire le pagine del delitto Franceschi alla Bocconi e sarebbe ora che la coscienza di qualcuno che conosce la verità finalmente si aprisse. Che si trattasse di un corpo militarizzato, in tutti i sensi, strumenti di violenza compresi, è fuor di dubbio. Così come è indubitabile l'autentica ed elevata ferocia che caratterizzava quei gruppi che attaccavano deliberatamente la polizia come quando si trattò di arrivare alla Bocconi per conquistare il diritto dei lavoratori ad avere le aule per i loro corsi serali. E non possono certo essere le attuali conversioni dei Sergio Cusani, degli Alessandro Dalai, dei Gino Strada, degli Ugo Volli (considerato, senza ritengno alcuno, "l'erede di Umberto Eco") o degli Ugo Vallardi (al vertice del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera) a far dimenticare quegli anni, quelle violenze, e quelle "squadre di propaganda" di cui faceva parte anche un certo Sergio Cofferati, inqualità di studente-lavoratore della Pirelli.
Qualcuno, quando incrocia il dottor Gino Strada in qualche talk-show televisivo, vuole provare a ricordargli se ha qualche ricordo di quei giorni, di quegli scontri, di quelle spranghe, di quei ragazzi (poliziotti o studenti) rimasti sul selciato? Che bello sarebbe poterglielo chiedere al dottor Gino Strada se rinnega il suo passato ecome si concilia col suo presente. E poi, soprattutto: quale titolo ha costui per poter definire "delinquenti politici" gli altri?
Gigi Moncalvo
dalla newsletter di Giuliana d'Olcese
see u,
Giangiacomo
di Gigi Moncalvo 22/03/2007 19:20
C'è uno strano caso di "silenzio stampa" in questo nostro grande paese:quello riguardante il passato violento del dottor Gino Strada.
Il pacifista, la colomba, l'uomo che ama il bene e fa del bene, ilmissionario laico che va in soccorso degli oppressi, colui che predicacol ramoscello d'ulivo in bocca, è lo stesso che faceva da"luogotenente" - insieme al futuro odontoiatra Leghissa - a Luca Cafiero il famigerato capo del servizio d'ordine del famigerato Movimento Studentesco dell'Università Statale di Milano, quello dei terribili emai dimenticati "katanghesi".
Sì, è proprio lui: il "pacifista" Gino Strada, colui che oggi dà dei"delinquenti politici" agli esponenti della casa della Libertà e dei DSche non vogliono soggiacere ai suoi diktat di aspirante leader politicoche sogna un seggio in Parlamento. Per l'esattezza Strada, insieme aLeghissa, era il capo del servizio d'ordine di Medicina e Scienze e ilsuo gruppo o squadra aveva questo inequivocabile nome: "Lenin". Rispettoai capi degli altri servizi d'ordine - ad esempio Mario Martucci per la Bocconi e il suo gruppo "Stalin", o Franco Origoni per la squadra diArchitettura, o Roberto Tuminelli, l'erede delle famose scuole private per il recupero-anni, alla guida del gruppo "Dimitroff", il bulgarosegretario della Terza Internazionale accusato da Hitler di aver incendiato il Reichstag - il gruppo guidato da Strada si distingueva perla più cieca obbedienza e fedeltà a quel fior di democratico e di amantedei diritti civili che rispondeva al nome di Luca Cafiero, capo supremodi tutti i Servizi d'Ordine e poi divenuto deputato del PCI, candidato aNapoli, dove superò addirittura in fatto di preferenze l'on. Giorgio Napolitano. Ora Cafiero è ritornato a fare il docente universitario allafacoltà di Filosofia della Statale. Al comando generale e assoluto di Cafiero c'erano i gruppi "Stalin", "Dimitroff" e tanti altri - ciascuno dei quali aveva uno o più sotto-capi -, ma era il "Lenin" di Gino Stradache si distingueva per la prontezza e la capacità di intervento laddove ce ne fosse stato bisogno.
In sostanza, ancora ben lontano dallo scoprire il suo attuale animo pacifista, Gino Strada era uno degli uomini di punta di quel Movimento dichiaratamente marxista-leninista-stalinista-maoista che aveva i suoi uomini guida in Mario Capanna, Salvatore "Turi" Toscano e Luca Cafiero.
I milanesi, e non solo loro, ricordano benissimo quegli anni, e soprattutto quei sabati di violenza, di scontri, di disordini.
Ma ora nessuno dice loro che ad accendere quelle scintille c'era anche l'odierno "predicatore" Gino Strada. Solo che allora non aveva dimestichezza con le colombe bianche, le bandiere multicolori, il rispetto altrui, il ramoscello d'ulivo. Ma era molto di più avvezzo ai seguenti segni identificativi: l'eskimo, il casco da combattimento, e l'obbligo di portare con sé, 24 ore su 24,le "caramelle": cioè due sassi nelle tasche e soprattutto "la penna", cioè la famosa Hazet 36 cromata, una chiave inglese d'acciaio lunga quasi mezzo metro nascosta sotto l'eskimo o nelle tasche del loden. Alla "penna" - si usava tale termine durante le telefonate per evitare problemi con le intercettazioni - si era arrivati partendo dalla "stagetta" (i manici di piccone che avevano il difetto di spezzarsi al contatto col cranio da colpire), dalle mazze con avvitato un bullone sulla sommità per fare più male, e dai tondini di ferro usati per armareil cemento, ma anch'essi non adatti poiché si piegavano. I katanghesi e il loro servizio d'ordine, Gino Strada in testa, erano arrivati a questascelta finale in fatto di armamentario, su esplicita indicazione del loro collegio di difesa che allineava nomi oggi famosissimi come quello di Gaetano Pecorella, Marco Janni, Gigi Mariani, insieme ad altre decinedi futuri principi del foro, mentre sul fronte dei "Magistrati Democratici" spiccava la figura di Edmondo Bruti Liberati.
Il "collegio di difesa" aveva dato istruzioni ben precise in caso di arresti e processi: "Negare sempre l'evidenza", anche in caso di fotografie o filmati inequivocabili, definire come "strumento di lavoro" la scoperta eventuale della chiave inglese. Sarebbe stato difficile giustificare come tale un manico da piccone o un tondino di ferro, facilmente considerabili e catalogabili come "arma impropria", mentre diventata più facile con la chiave inglese. "Dite che stavate andando ariparare il bagno della nonna o che vi serviva per sistemare l'auto di vostro padre", poteva essere una delle indicazioni difensive consigliate in caso di bisogno.
"Pacifici ma mai pacifisti" era uno degli slogan ideati da Mario Capanna, ed è strano dunque che oggi Gino Strada si definisca proprio"pacifista". Comunque - a parte la canzoncina ritmata con cui si caricavano prima degli scontri (kata-kata-katanga) - essi pronunciavano ad alta voce ben altri slogan di quelli di oggi e perseguivano ben altri obiettivi. E i loro avversari non erano solo i Tommaso Staiti sul fronte della destra, ma anche i "compagni" di Avanguardia Operaia (molti dei quali oggi sono esponenti dei Verdi), Lotta Continua (dei Sofri, Mario Deaglio, Gad Lerner, apprezzato radiocronista dai microfoni di Radio Popolare incaricato di dare le istruzioni in diretta sulle vie da evitare e sulle strade di fuga in cui fuggire) e Lotta Comunista (memorabile e indimenticabile uno scontro di inaudita violenza) e perfino coi primi gruppi di Comunione & Liberazione. Anche quelli di sinistra erano i "nemici" di Strada al pari di Tom Staiti e dei suoi. Non c'è bisogno di scomodare la memoria del prefetto Mazza e del suo famoso rapporto, la cui rispondenza alla verità venne riconosciuta solo molti anni dopo, per affermare che il servizio d'ordine del Movimento Studentesco era uno dei corpi più militarizzati, una autentica banda armata che incuteva terrore e seminava odio in quegli anni.
Si trattava di una autentica falange macedone di 300-500 persone, (Strada e Leghissa ne guidavano una cinquantina), che non arretravano di un millimetro nemmeno di fronte agli scudi della polizia in assetto da combattimento. Semmai, purtroppo avveniva talvolta il contrario. Unico aspetto positivo è che, a differenza di Lotta Continua, l'MS non ha prodotto successivi passaggi al terrorismo. Anche se bisognerebbe riaprire le pagine del delitto Franceschi alla Bocconi e sarebbe ora che la coscienza di qualcuno che conosce la verità finalmente si aprisse. Che si trattasse di un corpo militarizzato, in tutti i sensi, strumenti di violenza compresi, è fuor di dubbio. Così come è indubitabile l'autentica ed elevata ferocia che caratterizzava quei gruppi che attaccavano deliberatamente la polizia come quando si trattò di arrivare alla Bocconi per conquistare il diritto dei lavoratori ad avere le aule per i loro corsi serali. E non possono certo essere le attuali conversioni dei Sergio Cusani, degli Alessandro Dalai, dei Gino Strada, degli Ugo Volli (considerato, senza ritengno alcuno, "l'erede di Umberto Eco") o degli Ugo Vallardi (al vertice del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera) a far dimenticare quegli anni, quelle violenze, e quelle "squadre di propaganda" di cui faceva parte anche un certo Sergio Cofferati, inqualità di studente-lavoratore della Pirelli.
Qualcuno, quando incrocia il dottor Gino Strada in qualche talk-show televisivo, vuole provare a ricordargli se ha qualche ricordo di quei giorni, di quegli scontri, di quelle spranghe, di quei ragazzi (poliziotti o studenti) rimasti sul selciato? Che bello sarebbe poterglielo chiedere al dottor Gino Strada se rinnega il suo passato ecome si concilia col suo presente. E poi, soprattutto: quale titolo ha costui per poter definire "delinquenti politici" gli altri?
Gigi Moncalvo
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